L’anno dell’anima, Stefan George

Il canuto, lucido inverno favorisce nell’isolamento l’ascolto che trascende il meccanico susseguirsi degli istanti. La sublimazione del senso nel verso ci ritaglia dalla tecnocrazia iniziandoci all’incontro col poeta. Il poeta è Stefan George. L’opera che occasiona il sodalizio è L’anno dell’anima.

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La poesia di George trascende la cosalità e rinvia all’altro irriferibile evocando nella parola l’aura dell’oggetto che nel verso non è più meramente ob-iectum – ma fondamento, sostrato di cui la cosa è riverbero. Non a caso Martin Heidegger si riferirà anche a George per indicare un sentiero autenticamente rammemorante. Sicuramente a un paradossale e ardito legame degli animi e all’orizzonte ontologico che li fonde mirava Stefan allorquando, nel 1892, inaugurava il George-Kreis, una sorta di cenacolo iniziatico cui sono ammessi giovani poeti selezionati dal poeta tedesco – di lì passerà il celebre Rilke nonché, fatto significativo, Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore, nel 1944, dell’attentato ad Adolph Hitler. Sono gli anni della Germania segreta – un luogo “dell’anima”, sotterraneo e che atavicamente sostiene e respinge le effimere incarnazioni umane, i politici dell’oggi, i saltimbanchi dell’attualità, i venditori di fumo e di progresso, come pure gli uomini del fato. Ancora prima che la Belle Époque conflagri definitivamente nell’epica e terribile Grande Guerra, George e i suoi appassionati sodali fondano la rivista Blätter fur die Kunst, vivente manifesto contro il naturalismo, l’ingenuo realismo, l’ottimismo, il materialismo – vale a dire, atto di battaglia contro la trionfante filosofia positivista che – a dispetto di Goethe e dell’inattuale martellatore di Röcken – in parte primeggia in quegli anni in Europa. Queste iniziative e specialmente queste idee si innestano più in generale nel clima che – attraverso libri, riviste e club – alimenterà progressivamente la Rivoluzione Conservatrice, alla quale oltre a George apparterranno idealmente Ernst Jünger, Oswald Spengler, Moeller den Bruck, Gottfried Benn e tanti altri autori – maestri e reietti. Da questo alveare di richiami filosofici e suggestioni culturali affiorano come ricami di “vespe fuggite da calici chiusi” i versi di L’anno dell’anima. Nel 1897, anno di pubblicazione della raccolta, Bismarck non è più al potere e il Kaiser Guglielmo II ha fatto della Germania un fiero impero che ambisce a consolidare il suo primato militare in Europa e a sostituirsi nei mari alla gloriosa flotta inglese – fatale, all’orizzonte, l’apocalittico scontro tra Behemoth e Leviathan. Nella loro radicale apoliticità le parole del poeta rappresentano perfettamente l’aristocraticismo di un certo ambiente politicamente alternativo da cui si svilupperanno non solo il nazionalsocialismo ma anche, paradossalmente, molti dei suoi interni oppositori – lo stesso George, attratto inizialmente dal movimento di Hitler, presto se ne distanzierà, per morire, in un volontario esilio svizzero, nel 1933 – anno d’oro del Führer.

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Le poesie di George, in parte influenzate dall’opera dei simbolisti francesi, raccontano un anno interiore al quale manca la stagione più poetica di tutte: la primavera – come se, osserva Giorgio Manacorda nell’interessante introduzione, le altre stagioni provenissero da un vuoto metafisico custodendolo nel suo alchemico, risucchiante ritrarsi. Lo stile dell’autore è funzionale alla custodia dell’arcano evocativo e, in un tempo di ardite sintesi metapolitiche, stringe con maestria classicismo e avanguardia, conservazione e rivoluzione. Le maiuscole, tipiche della lingua tedesca, sono esiliate dai versi, il linguaggio è ricercato, levigato, ci sono pochi segni di interpunzione ed è presente un punto levitante in mezzo al rigo di cui non si coglie sempre il significato ma che, quasi come il trattino di Emily Dickinson, contribuisce a sotto-elevarci al sostrato – ur-linguaggio, metalinguaggio. Non a caso in altre raccolte il poeta conia una nuova lingua lasciando che il significante rimbombi senza significato – come un suono di corno in elfici miti, da remoto, eco di un altro mondo, di dei fuggiti lasciando nel deserto brillanti pietre e orme di parole. La natura che è dipinta nei suoi colori più interni accoglie il fruitore formandolo alla meditazione sulla morte, sull’amore e sul destino impenetrabile dell’uomo. Spesso l’interlocutrice del cantore è un’occulta “lei” che assume le fattezze delle atmosfere, intessute nei versi come i rami fioriti in un mandarlo; tale sibillina presenza, trait d’union tra il poeta e il cosmo, è amore che non vela ma esalta nostalgia e insensatezza; l’amarezza, per converso, a tratti si stempera nell’abbraccio gioioso, quasi panteistico, del poeta con la “dea” – del tutto, della natura. Panteismo si diceva, sì, di derivazione forse bruniana più che spinoziana e, per non andare troppo indietro negli anni, schellinghiana essendo in questo caso la natura qualcosa che supera la perfezione geometrica del tutto, vale a dire una forza viva che lascia un sentore di impalpabile trascendenza proprio quando ci rapisce e ci addormenta nel suo incantevole, sempre giovane seno. Ci si perde così rimbaudianamente “nell’insperato azzurro” che ebbro di nubi rischiara “stagni e variopinte vie” alla ricerca di ciò che resta nella “vita verde” dissolventesi nel leggero autunno. La mente corre ai primi anni che nel ricordo offrono “lei” per la quale dalle mani della poesia l’artista versa e semi e germogli affinché grazie alla terra da morta risorga. La natura è il tempio della immobilità silenziosa dove si erra in punta di piedi nel ricco brillio autunnale gustando i frutti maturi che, nella sospensione del tempo, battono con metafisica eleganza il terreno. L’indistinto sottratto agli occhi materiali ha la foggia di un cigno apollineo che cantando muore verso lucidi cieli – la natura apre alla via che la infuoca di sole. Si tratta forse di un viaggio verso l’infinito che sarebbe bello non esperire oltre la leopardiana siepe giacché, sussurra l’aedo, fummo felici solo prima, al limitare dell’incommensurato. Sparge il vento i morti giù nella terra mentre gli uccelli fuggono dalle guglie dei cancelli o “bevono tremando sui pilastri pioggia dai vasi vuoti ormai dei fiori”. Nell’innevato inverno che al primo dolce refolo custodisce una nuova luce, i fiori sono quasi irrorati di umido ed è fiabesco il bosco che tra valli maledette ci conduce “dove dalle tombe l’amore cresce sul dolore”. Nel gelo che cura la morte il poeta agogna alla tristezza per godere sempre della stessa malinconia di “lei” – e anche se nessun benvenuto lo accoglierà, ritroverà sempre lì, con la segreta compagna che è anche madre e terra, “eredità di inverni in un destino”. Ci sprofonda nell’amarezza il ricordo del primo fiore mentre il poeta vorrebbe che il tedio fuggisse dalla finestra – “ora levo di nuovo gli occhi vuoti/ e nella notte vuota mani vuote”. Eppure sbocciano i sentieri in cui l’anima appassisce dopo il vento di rugiada, sopra i campi di maggese. Riusciranno il vento e la notte a resuscitare la gioia che si cela nell’ansia speranzosa? La natura ci insegni a coprire i pianti nei sorrisi – “chi finora ha mai visto i fiori piangere?”. L’amor fati del poeta si traduce in un auspicio: cogliere il meglio dei germogli e “conciliare il bacio avuto in sogno a quello vero”. Il cuore batte al ritmo della natura e nell’angoscia che rende roca la voce si assiste al prosciugamento di lacrime e brina. Le ultime parole del libro sono riservate ancora all’oscura vestale dei sensi, partita con dolore “forse per l’incertezza del ritorno”. Immersi nel crepuscolo ferale speriamo col poeta che piena di grazia, all’ultimo canto dei volanti erranti, lei si desti dal sonno e proseguendo oltre il recinto immaginifico del testo seguitiamo a passeggiare tra bronzee foglie di lettere sotto fuochi che sbocciano nel cielo – resta il foglio che non si è scritto e un colore aspro sul pallido piano.

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