La leggenda di Jacques Bergier

L’autobiografia dell’autore de ‘Il mattino dei maghi’

Jacques Bergier è stato davvero un personaggio a tutto tondo. Capace nel corso della vita di indossare maschere disparate: agente segreto, scrittore di vaglia, chimico e appassionato studioso di scienza moderna, alchimista. Fu, a seconda delle circostanze, povero e ricco. Recluso nei lager nazisti vide negli occhi la morte e sondò l’abisso del dolore. Sul suo biglietto da visita campeggiava questa significativa presentazione di se stesso: «Amante dell’Insolito e Scriba dei Miracoli», definizione sintetica e veritiera. Lo si evince al termine della lettura della sua autobiografia, da poco pubblicata per la prima volta in italiano, Io non sono leggenda, nel catalogo della Bietti, a cura di Andrea Scarabelli (per ordini: pp. 343, euro 20,00). Il volume era uscito in prima edizione in   Francia, nel 1977, un anno prima della morte dell’autore. L’edizione italiana è impreziosita dall’Introduzione di Sebastiano Fusco, dalle Appendici e da un saggio conclusivo del curatore.

Bergier ha scritto molto. Raramente però, se non in queste pagine, ha presentato un confronto serrato con se stesso e con l’originale iter intellettuale che seguì fin dalla giovinezza. Per entrare nelle vive cose di questa autobiografia, è bene muovere dal ricordo tracciato da Fusco. Innanzitutto, egli era uomo dotato di una memoria fuori dal comune, e in ciò ricordava un personaggio del romanzo di Verne, I figli del capitano Grant. Ci riferiamo al prof. Jacques Pagnel, capace di citare correttamente tutti i testi di scienze naturali fino ad allora pubblicati. Bergier, inoltre, parlava fluentemente molte lingue europee ed era in grado di utilizzare un metodo di lettura «inglobante». Non leggeva i testi riga per riga, ma direttamente le pagine per intero, assimilandone i contenuti con estrema facilità. Fu in corrispondenza con Lovecraft, che gli svelò particolari inediti relativi alla sua vita familiare durante l’infanzia. Conoscitore sopraffino della dottrina della Kabbalah, comprese i legami che essa intratteneva con la teoria del multiverso, che andava affermandosi nella fisica quantistica. Umberto Eco lo incontrò a Milano nel 1965, rimase folgorato dalla personalità di Bergier: «un piccolo uomo assolutamente affascinante che […] passa la vita […] ideando universi logici in cui non sia possibile sommare due più due» (p. 290).

In Io non sono leggenda, l’autore descrive la sua infanzia ad Odessa: spiega che il suo cognome nacque da: «un […] errore fonetico generato dalla trascrizione dal russo al polacco» (p. 23). Suo padre faceva l’importatore di generi alimentari. La famiglia era di origini ebraiche. Poteva vantare tra gli antenati un nonno rabbino ed uno zio che aveva partecipato, in prima persona, all’esecuzione dello zar Nicola II. Rimase ebreo per tutta la vita, rifiutando sia l’assimilazione, che le pratiche rigidamente ortodosse imposte dalla sua fede. Non amava la compagnia dei suoi simili, alla quale preferiva quella degli amatissimi gatti. Ironico e sarcastico, era capace di battute che raggelavano o facevano pensare i suoi interlocutori. Esse erano, per certi tratti, conseguenza della sua visione delle cose centrata sulla coincidentia oppositorum. Mirò a conciliare scienza e miracoli, azione e contemplazione, Tradizione e modernità. Per questo, con Scarabelli conveniamo nel ritenere  capitolo dirimente dell’autobiografia, quello in cui è descritto l’incontro con Fulcanelli, avvenuto nel 1937, quando Bergier lavorava con Helbronner su temi di fisica e chimica nucleare. L’alchimista, durante il colloquio, spiegò al giovane le prossimità che univano alcune visioni della fisica ultimissima alla Grande Opera. Ma pose l’attenzione anche su differenze non secondarie. Mentre la tradizione ermetica operava in una cornice teorica in cui l’etica aveva ancora un peso, la fisica moderna è: «Scienza senza coscienza» (p. 300). Essa avrebbe potuto inaugurare un’età di grandi rischi per l’umanità.

Inoltre, in alchimia la produzione dei metalli non è essenziale: ciò che conta è la trasmutazione dello sperimentatore, tant’è che Bergier sostiene di aver prodotto delle quantità d’oro, ma di non  aver mai pensato di arricchirsi attraverso tali pratiche. Fu la vita a porre Bergier di fronte all’esistenza di forze e potenzialità sopite nell’uomo comune. Ciò avvenne durante la detenzione nei lager nazisti di Neue Bremm e di Mauthausen. Tra le facoltà recuperate, va annoverato il «fuoco interiore», ben noto ai monaci tibetani, che gli consentì di sopportare le rigidi temperature cui era esposto dai suoi aguzzini per ore. In lui si riattivò anche la memoria filogenetica, che gli permise di avere ricordi della vita pre-natale. Per questo, poté affermare: «In questi cinque anni di ‘morte in vita’ sono riuscito ad attingere una libertà che pochi conoscono» (pp. 303-304). Il lager fu per lui prova iniziatica. Altrettanto rilevante è il capitolo dedicato a Il mattino dei maghi, libro scritto a quattro mani con Pauwels, e alla successiva esperienza della rivista Planète. Lo scrittore era convinto che, in quegli anni, gli sviluppi delle scienze stessero riportando alla luce le intuizioni di popoli antichi, di carattere religioso, vere e proprie vie verso l’invisibile. La rivista non fece altro che proseguire le intenzioni teoriche e gli obiettivi culturali definiti, in tal senso, ne Il mattino dei maghi. Il volume e la rivista colpirono, non casualmente, Mircea Eliade, il quale vide in Planète: «la nostalgia per una sorta di macrostoria», una storia cosmica, della quale parlò anche Ernst Jünger.

Le differenze di prospettiva di Bergier e Pauwels, si manifestarono in merito al «superomismo», successivamente all’uscita, nel 1970, del volume, L’uomo eterno. Lo si evince dalle due prefazioni a, La condizione superumana. Pauwels sviluppò una visione «interiore» del superomismo e rimase fermamente convinto della disuguaglianza degli uomini e delle razze umane: «laddove Bergier confida(va) nella tecnica e nell’innovazione scientifica per edificare la società del futuro» (p. 316). Bergier si fece latore, per certi tratti, di un trans-umanesimo ante litteram. E’importante rilevare, in conclusione ed a beneficio del lettore, che, sotto il profilo letterario, le pagine del libro presentato si leggono agevolmente per il tratto coinvolgente del narrato, sono testimonianza viva di realismo fantastico. Esso, non è semplicemente uno stile, una corrente letteraria, ma una visione del mondo: quella a cui Bergier ha guardato durante l’intera l’esistenza.

 

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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