L’ uomo quale accidente culturale

Luciano Arcella, storico delle religioni e filosofo, è autore di un numero considerevole di saggi. La sua ultima fatica, da poco nelle librerie per i tipi di Mimesis editrice, può essere considerata la summa della sua visione del mondo: le pagine del volume sono animate dall’esegesi puntuale dei suoi “autori” (Nietzsche, Frobenius, Spengler, Gehlen) e da un’originale proposta speculativa, mirata a cogliere il tratto “culturale” dell’uomo e della sua vita. Ci riferiamo a L’uomo: un accidente culturale (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 218, euro 20,00), testo pensato alla luce della complessa e ambigua relazione dialettica Modernità-Tradizione, rispetto alle quali Arcella rifiuta le tesi mirate ad assolutizzare l’una o l’altra, onde evitare sterili contrapposizioni.

Il nucleo teorico più forte del volume sta nella presentazione della posizione nietzschiana, relativa alla visione del mondo affermatasi in Grecia nell’epoca aurorale. Una visione tragica, avente al centro la polarità divina di Dioniso, statuente la caoticità del mondo. Nietzsche, in particolare, attraverso il metodo “fisiologico”, individua due tipi umani apparsi, per la prima volta, proprio nell’antica Ellade, l’uomo tragico, incarnante i valori dionisiaci, e l’uomo “teoretico”, perfettamente rappresentato da Socrate. La differenza tra le due tipologie umane: «si traduce in attitudine temperamentale e in costituzione fisica» (p. 18). L’uomo tragico, agendo pervaso da ebbrezza e sogno, nonostante la scoperta dell’insensatezza del mondo, è in grado di sostenere la tragicità di tale visione e di metamorfizzarla in energia vitale. L’uomo teoretico, al contrario, non riconosce la tragicità dell’esistenza e imbriglia il caos attraverso la creazione di uno strumento che ha prodotto lo sdoppiamento del mondo, il concetto. Attraverso tale invenzione, l’uomo andò incontro a un cambiamento fisiologico, in quanto:
«L’elemento culturale opera sull’aspetto fisico non meno che questo influisce(a) sulle propensioni e le scelte di un singolo individuo come di un’epoca» (p. 20). Per il filosofo tedesco esistono animali di una specie particolare, gli uomini, che a differenza di altre specie sono dotati di intelligenza. Questi in un certo momento della storia, stimolati da situazioni diverse, agirono “intellettualmente” e “inventarono” la conoscenza.

L’intelletto risultò, per l’uomo, salvifico: egli, come ribadirà
Gehlen, è animale privo di efficaci strumenti istintivo-naturali e dovette costruire se stesso e modellare l’ambiente nel quale si muoveva attraverso l’intelligenza. Per controllare il mondo, le cose dovevano essere distinte (da cui la logica identitaria fondata sul principio di non contraddizione) e denominate. Nacque il linguaggio, primo strumento “tecnico” a disposizione degli uomini, che: «trasformò le cose in forme simboliche» (p. 25), in una realtà sovrapposta a quella naturale. Tutto, da allora, divenne mera rappresentazione, si postulò l’“in sé” del mondo. Per questo, Nietzsche ritenne che l’arte avrebbe potuto essere l’unico strumento in grado di riconnetterci all’esperienza originaria della vita, all’intuizione dell’Uno-Tutto dionisiaca che: «eliminando la distinzione soggetto-oggetto, propone un processo identitario nel quale il conoscere è una continua autoplasmazione dell’ essere» (p. 29). Per Nietzsche, nota Arcella, l’uomo è un’eccezione cosmica, il suo apparire sulla scena del mondo fu occasionale, la sua presunta essenza è autodefinitoria e fondata sul pregiudizio logico-morale. Inoltre, la realtà da lui costruita è prodotto di convenzione linguistica e, pertanto, l’uomo è un essere storico, un “accidente culturale”. Lo si rileva dalle lettura del canto dell’Odissea dedicato a Polifemo, nel quale Odisseo è presentato come: «padrone della tecnica della menzogna» (p. 52). Segno tangibile dell’ancestrale vocazione culturale dell’uomo. Cosa rilevante dell’episodio è che il “Nessuno” suggerito da Ulisse: «non è il niente […] ma il sovrumano, dinanzi al quale arretrano coloro che […] devono accettare il suo potere e dominio» (p. 57). Spengler proseguì sul cammino di Nietzsche e ne Il tramonto dell’Occidente, si servì di uno strumento ermeneutico desunto da Frobenius, l’“intuizione”, per entrare nelle vive cose dello sviluppo ciclico-morfologico dei processi storici, la cui analisi non limitò al solo contesto europeo, ma spostò a livello mondiale. Anche nella sua prospettiva, l’uomo faustiano opera tecnicamente, in forza dell’attitudine: «funzionale alla lotta contro la natura per la sopravvivenza e il dominio» (p. 52). Agiamo, come Odisseo, astutamente. Per farlo dobbiamo: «creare un mondo falso» (p. 52), ma comunque propizio alla nostra sopravvivenza, quello culturale. L’estendersi della tecnica ad ogni aspetto della vita culturale, ha posto, nel corso del tempo, una serie di problemi, con i quali ci stiamo ancor’oggi confrontando.

Arcella presenta e discute, in modalità organica, tutti quegli autori che, nella Germania degli anni Venti e Trenta, si opposero, nel nome del ritorno alla natura, al fenomeno dell’urbanesimo-industrialismo: dai Wandervogel ai primi gruppi di naturisti e nudisti. Soprattutto, si interroga sull’esito finale cui la vocazione culturale che ci costituisce potrà giungere. Il progressivo potenziamento degli apparti messi in campo dalla tecnica, sostiene l’autore, potrebbe rendere, alla lunga, l’uomo autosufficiente. Cosa accadrebbe, in tal caso? Forse potrebbe succedere che, per la prima volta, l’umanità potrebbe fare a meno di escogitare nuove “astuzie”, per dominare la natura e recupererebbe, in tal modo: «l’originaria animalità. Vivrebbe nell’ozio, da moderno Ciclope […] L’uomo […] risponderebbe in maniera del tutto spontanea a tali stimoli che la natura gli offre […] e godrebbe pertanto di una vita libera e giocosa. Il che sarebbe come tornare a vivere nell’epoca di Saturno» (p. 212). L’autore evoca il ritorno, attraverso la tecnica, allo stato originario, in cui l’essere dell’uomo sarebbe connotato da: «una animalità consapevole, saggia, in una ritrovata unione con la natura» (p. 213). Si tratta di uno sviluppo, si badi, soltanto ipotizzato, immaginato.

Per chi scrive, la tensione umana al superamento di sé resterà sempre iperbolica. Essa, ab origine, è inscritta nel rapporto polemologico che istituiamo con la realtà. Queste pagine ci hanno indotto, in ciò il loro merito principale, a pensare alla necessità di conciliare la dimensione prometeica con quella orfica, con l’obiettivo di equilibrare la dialettica natura-cultura.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

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