Le feste natalizie erano nella Roma imperiale feste del solstizio, del nuovo sole che rinasceva dopo la morte simbolica, risalendo verso il nord dopo aver toccato il punto più basso con l’entrata nella costellazione del Capricorno. Anche il nuovo anno legale cominciava in quei giorni, alle Kalendae Januarii, nel periodo immediatamente posteriore al solstizio che, veniva convenzionalmente fissato al 25 dicembre per seguire la tradizione dei Romani più antichi che, poco esperti in astronomia, si erano fidati dei propri occhi.
“Prima di cominciare l’anno”, scriveva l’Imperatore Giuliano nel discorso su Elio Re, “noi diamo in onore di Elio giochi magnifici, solennità consacrate a Elio Invincibile… Ah! si degnino gli dèi sovrani di permettermi di celebrare sovente questi misteri, e che il sovrano stesso dell’universo, Elio il primo, mi accordi questo favore! Sorto da tutta l’eternità intorno all’essenza feconda del Bene, mediatore fra gli dèi intelligenti, essi stessi mediatori, Egli ne assicura pienamente la continuità, la bellezza senza limiti, l’inesauribile fecondità, l’intelligenza perfetta, e li dota abbondantemente di tutti i beni atemporali” (1).
La festa del Sole era diventata il culto più importante in Roma verso la fine del III secolo per l’influenza delle tradizioni orientali. L’imperatore Aureliano, originario della Dacia Ripensis e figlio di una sacerdotessa del Sole, istituì addirittura il culto statale del Comes Sol Invictus, la cui festa, il dies Natalis Solis Invicti, divenne il centro della liturgia imperiale. A questa eliolatria contribuiva non poco il progressivo diffondersi negli ambienti militari di un altro culto di origine orientale, il mithraismo, dove Mithra era considerato il Figlio del dio supremo Sol: Figlio del Sole e Sole lui stesso, nato da una roccia presso un albero sacro e con la torcia in mano, simbolo della Luce e del Fuoco che spandeva sul cosmo. Il mito narra che alcuni pastori presenti all’evento soprannaturale gli avevano offerto primizie dei greggi e dei raccolti. E superfluo sottolineare le analogie con la nascita del Cristo in una “grotta” illuminata da una stella mentre i pastori lo adoravano.
All’inizio del IV secolo la festa era diventata così popolare a Roma che persino i cristiani vi partecipavano accendendo con i “pagani” fuochi in onore dell’astro che rinasceva. La Chiesa, per allontanare i fedeli da quelle feste “idolatriche”, pensò di fissare la celebrazione della nascita del Cristo il 25 dicembre. D’altronde, chi era il Cristo se non il Sole di Giustizia, incarnazione della divina Bontà, Luce che illumina, produce, vivifica, contiene e perfeziona tutte le cose atte a riceverla? (2).
La prima notizia di una festa del Santo Natale a Roma risale all’anno 336. Da Sant’Agostino veniamo a sapere che anche in Africa la si celebrava nello stesso periodo. Verso la fine del IV secolo era ormai diffusa in tutta l’Italia settentrionale, così come in Ispagna. Nel Vicino Oriente invece, fino per lo meno all’inizio del V secolo, quando cominciò a diffondersi l’usanza occidentale, la nascita di Gesù era festeggiata il 6 di gennaio insieme con il suo battesimo e il miracolo di Cana, ed era chiamata Epifania. L’usanza derivava da un antico culto rammentato da Epifanio: la notte fra il 5 e il 6 gennaio si festeggiava ad Alessandria, in Egitto, la nascita del dio Eone dalla vergine Kore, scendendo in processione al Nilo con l’immagine di un bimbo, per raccogliere acqua che si sarebbe trasformata in vino (3).
Epifania significa in greco “l’apparizione” di una divinità o un suo intervento prodigioso: e siccome la nascita di Gesù era l’apparizione per eccellenza, i cristiani, orientali, adottarono questo termine per il Santo Natale. Successivamente, quando la festa del Natale romano penetrò in Oriente l’Epifania divenne prevalentemente la festa del battesimo di Gesù, mentre in Occidente, che a sua volta l’aveva recepita, dall’Oriente, celebrava “la rivelazione di Gesù al mondo pagano” con la venuta dei Magi a Betlemme, la Casa del Pane. Sicché per la liturgia romana i dodici giorni che seguono il Natale sono un tempo liturgico unitario che ha il suo centro nella Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, alla quale ha dato il fondamento teologico papa san Leone Magno. Egli parla del mistero delle natività del Cristo (“sacramentum nativitatis Christi“) per indicare il valore salvifico dell’evento. Il Vangelo e i profeti, scrive san Leone Magno, “ci infervorano e ci ammaestrano che il Natale del Signore, quando il Verbo si è fatto carne (Gv. I,14), non ci appare come un ricordo del passato ma lo vediamo al presente”, e perciò ogni Natale rinnova per noi il Sacro Natale di Gesù (4).
L’Epifania a sua volta, con la festa che rievoca l’Adorazione dei Magi, visti come “primizie delle genti”, rammenta che il Cristo è Colui che trascende e illumina di vera luce ogni religione come Sovrano universale. Il Vangelo di Matteo, l’unico fra i quattro canonici che testimoni la venuta dei sacerdoti “pagani”, narra che i Magi recarono in dono al Cristo oro, incenso e mirra: l’oro perché è il Sovrano universale, l’incenso perché è divino; la mirra perché è il Grande Medico che può vincere la morte (5).
Il simbolismo solare informa il periodo natalizio collegando la tradizione orientale-romana al cristianesimo. La narrazione di Matteo, come le leggende e le usanze che vi sono connesse, testimonia di un’epifania di Luce e di Fuoco. E quale mai altro simbolismo si poteva applicare alla sua Natività non soltanto a Roma ma anche in Oriente, dove dall’Egitto all’Iran, l’eliolatria era diffusa? Nella Cronaca di Zuqnin, redatta nel 774-775 dal monaco Isó, e non dissimile da altre leggende coeve, si narra che i Magi, sacerdoti di origine iranica, depositari della sapienza esoterica, si tramandavano di padre in figlio una scriptura attribuita al terzo figlio di Adamo, Seth, che profetizzava l’apparizione di una stella che li avrebbe condotti fino al Salvatore, atteso in tutte le religioni del Vicino e Medio Oriente.
Dai loro antenati i Magi, che sarebbero andati a Betlemme, avevano ricevuto una raccomandazione orale: “Aspettate una luce che sorgerà da Oriente, luce della Maestà del Padre, una luce che sorgerà in aspetto di stella sopra il Monte delle Vittorie e si fermerà sopra una colonna di luce dentro la Caverna dei Tesori dei Misteri”. Quell’anno i Magi, saliti secondo l’usanza sul Monte delle Vittorie, dov’erano conservati i rotoli di Seth che rivelavano i “misteri” tramandati da Adamo sulla maestà di Dio e le istruzioni suoi doni che si dovevano portare al Salvatore, avevano appena compiuto i riti purificatori quando videro qualcosa “simile a una colonna di luce ineffabile scendere e fermarsi sopra la caverna… E al di sopra di essa una stella di luce tale da non potersi dire: la sua luce era molto maggiore del sole, ed esso non poteva stare innanzi alla luce dei suoi raggi”. Poi la stella andò a fermarsi davanti alla Caverna, il cielo si apri come una grande porta da dove scesero uomini gloriosi portando sulle mani la stella di luce e si fermarono sulla colonna di luce mentre tutto il monte splendeva di una luce ineffabile. Infine la stella entrò nella Caverna dei Tesori Occulti mentre una voce chiamava i Magi: “Entrate dentro senza dubbi, con amore, e vedrete una vista grande e mirabile”. Entrarono e videro quella luce ineffabile trasformata in un piccolo uomo umile che disse: “Salute a voi, Figli dei Misteri Occulti”, rivelandosi come il Cristo. Quella stella, manifestazione ed emanazione della Luce di Dio, e dunque Dio stesso, li accompagna fino alla grotta della Natività dove essi vedono “la colonna di luce scendere e fermarsi davanti alla caverna, e scendere quella stella di luce e fermarsi sulla caverna dov’era nato il mistero e la luce di vita”. Durante il viaggio di ritorno riappare loro la luce ineffabile dicendo: “Io sono in ogni luogo e non v’è luogo dove non sono; io sono dove voi mi avete lasciato perché io sono più del sole del quale non v’è luogo del mondo che ne sia privo, pur essendo esso uno, e se venisse meno al mondo tutti i suoi abitanti starebbero nella tenebra. Quanto più sono io che sono il Signore del sole e la mia parola e la mia luce sono maggiori di quelle del sole!” (6).
Ispirate al simbolismo solare sono anche alcune usanze natalizie collegate al mondo vegetale (7), come per esempio l’albero di Natale, – emblema nelle tradizioni dell’Europa centrale e dell’Italia alpina – dell’albero cosmico che unisce i cieli alla terra nutrendo con i suoi “frutti” tutti gli esseri. Il simbolismo di origine precristiana fu assimilato dai cristiani che lo riferirono alla Croce, ovvero al Cristo. “Questo legno” scriveva Ippolito da Roma in un inno del secolo III «mi appartiene per la salvezza eterna. Me ne nutro, me ne cibo, sto attaccato alle sue radici… Quest’albero, che si allunga fino al cielo, sale dalla terra al cielo. Pianta immortale, s’innalza al centro del cielo e della terra, fermo sostegno dell’universo, legame di tutto, sostegno di tutta la terra abitata, legame cosmico che comprende in sé tutta la molteplicità della natura umana”.
L’Albero di Natale è dunque il simbolo del Cristo-Albero cosmico, analogo al Cristo-Sole che nasce per offrire la sua luce e i suoi frutti agli esseri, ponte fra cielo e terra. Per questo motivo si appendono all’abete tanti lumini che rappresentano da un lato la nascita del nuovo Sole, del Sole Bambino, e dall’altro la luce che dispensa all’umanità. Analogamente, i frutti dorati e i doni appesi ai suoi rami sono l’emblema della vita che il Cristo dona, e i dolciumi il suo amore. Riunirsi la notte di Natale intorno all’Albero significa essere in comunione con il Cristo, illuminati dalla sua luce, nutriti dalla sua linfa, pervasi dal suo amore.
Il simbolismo dell’albero solstiziale era stato posto in ombra dal Presepe di san Francesco d’Assisi, che è diventato dal Medioevo l’usanza più popolare in Italia e che merita un futuro scritto sull’interpretazione dei simboli che contiene, dalla capanna o grotta agli animali, il bue e l’asino. Ma qualcosa era sopravvissuto nel nostro Paese prima del ritorno novecentesco dell’Albero sull’onda del mito americano che l’ha stravolto in emblema del Consumo: era – perché oggi va scomparendo – la cosiddetta festa del ceppo diffusa non soltanto in Toscana, ma in varie regioni italiane; in Piemonte ad esempio si chiamava süc, nel trevigiano zòch.
Il filologo ottocentesco Pietro Fanfani, nel Vocabolario dell’uso toscano, scriveva che nella Val di Chiana, la sera della vigilia di Natale, tutte le famiglie si riunivano tra loro e mettevano nel camino un ceppo dicendo in coro: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figliuoli, le capre capretti e le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia la conca di vino”. Poi si bendavano i bambini che dovevano avvicinarsi al camino e battere con le molle sul ceppo recitando una canzoncina detta Ave Maria del Ceppo: e quella canzoncina aveva la virtù di far piovere sul ragazzo dolci e regalini.
Nelle campagne piemontesi si diceva che il ceppo si sarebbe incenerito nelle 12 notti tra il Natale e l’Epifania, simboli dei 12 mesi dell’anno durante i quali il sole nuovo, rappresentato dal legno che si consumava, avrebbe nutrito il cosmo e gli uomini con la sua luce e il suo calore. Quel ceppo altro non era se non il simbolo del Cristo-Sole-Albero cosmico che nutriva l’umanità offrendole i suoi doni durante l’anno. Ecco perché i bambini, percuotendo il ceppo, sentivano piovere sul capo strenne e dolciumi; e perché si diceva “domani è il giorno del pane”: il pane simbolo per eccellenza del cibo spirituale e materiale.
Per questo motivo si mangiano a Natale dolci a base di farina, tra i quali il più celebre è il panettone milanese. E un’usanza antichissima, diffusa in tutta l’Europa. In Francia, ad esempio, si usava cuocere un grosso pane, chiamato pain de Calandre. Poi se ne tagliava un pezzetto sopra il quale venivano incise tre o quattro croci, e lo si conservava come un talismano capace di guarire da molti mali. Il resto del pain de Calandre era distribuito a tutta la famiglia. In Inghilterra i fornai regalavano ai clienti focacce chiamate Christmas-batch, e i fornai lombardi offrivano il panettone ai clienti.
E persino la mancia aveva un significato religioso. In un libretto di Amedeo Costa dal titolo chilometrico, “Curioso discorso intorno alla Cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter Ceppo e della Manda solita a darsi nel tempo di Natale”, (Bologna 1621), si dice a questo proposito: “Suol darsi la Mancia in queste Santissime Feste di Natale in memoria della gran liberalità del Nostro Signore Dio, il quale diede se stesso a tutto il mondo, e in memoria di quella gran Mancia della Pace, che dagli Angeli della Natività di esso fu data e annunciata in terra a tutti gli uomini e per caparra ancora del preziosissimo sangue ch’egli era per cominciare a spargere nel giorno della sua Santissima Circoncisione, il quale dovea poi versare affatto nella sua Passione sul duro legno della Croce”.
Direttamente collegate al simbolismo solare sono i fuochi d’artificio e le fiaccolate sui monti innevati, che celebrano il nuovo anno, ovvero il nuovo Sole, e hanno anche un valore magico, come ha spiegato il Frazer nel Ramo d’oro. Ma, come ha osservato Maria Grazia Chiappori, il fuoco è collegato anche simbolicamente al Cielo, chiamato nello zoroastrismo “cristallo di rocca” (8). In molte leggende orientali si narra che il bambino donò ai Magi una pietra tratta dalla caverna in cui era nato, una pietra tanto pesante che essi la trasportavano con enorme difficoltà.
Con quel peso non sarebbero riusciti a proseguire il viaggio; e allora, visto un pozzo, ve la gettarono. Ma dopo qualche istante dalle profondità del pozzo s’innalzò una lingua di fuoco che sali fino al ciclo. “Questo fuoco – commenta la Chiappori – è una rivelazione sotto forma ignea, e dunque luminosa – come la stella – di Dio. La manifestazione luminosa della divinità ricorda la greca folgore di Zeus e l’iranico fuoco che, nella visione del tardo mazdeismo, scende dal cielo per annunciare la missione di Zoroastro tra gli uomini”.
Sole, Albero, Stella, Fuoco: tanti simboli che alludono in una complessa trama di corrispondenze, al mistero del divino che pervade il cosmo, e a quel cristallo luminoso che è deposto anche nel nostro cuore se sappiamo vederlo con il terzo occhio.
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Note
1 – 156 b-d
2 – Cfr. Dionigi Areopagita, Nomi divini, 697 C.
3 – O. Giordano, Religiosità popolare nell’Alto Medioevo, Bari 1969, p. 51.
4 – Cfr. san Leone Magno, Discorso del Natale (XXIX), e Discorso del Natale (XXIV), 2.
5 – Sul simbolismo dei doni e sui Magi cfr. Mario Bussagli-Maria Grazia Chiappori, I Re Magi, realtà storica e tradizione magica, Milano 1985.
6 – Sul simbolismo della stella oltre ai Re Magi cfr. Emilio Servadio, “Quell’angelo luminoso che accende le tenebre, ne “Il Tempo”, 13 dicembre 1985.
7 – Cfr. Alfredo Cattabiani, Erbario, Milano 1985, pp. 217-231.
8 – Ne I Re Magi, cit., pp. 165-174.
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