L’indeuropeista danese Holger Pedersen (1867-1953), autore della monumentale Vergleichende Grammatik der keltischen Sprachen (Göttingen 1909-1913), si occupò anche, tra l’altro, di albanese, di armeno, di lingue balto-slave, di tocario e di ittita. A quest’ultima lingua Pedersen dedicò un lavoro intitolato Hittitisch und die anderen indoeuropäischen Sprachen (København 1938), nel quale affermò che l’ittita, per quanto lontano sia dal tipo indeuropeo, è per certe sue caratteristiche “così arcaico che, per l’aspetto generale della famiglia linguistica, è altrettanto importante quanto l’antico indiano e il greco” (p. 191).
Fra il 1879 e il 1902, insieme coi norvegesi Sophus Bugge (1833-1907) ed Alf Torp (1853-1916), Holger Pedersen sostenne il carattere indeuropeo del licio e del lidio, due lingue parlate nell’Anatolia occidentale nel I millennio a. C. A quell’epoca si conoscevano soltanto circa 150 iscrizioni licie, risalenti ai secc. V e IV a. C., ma non erano ancora note le lingue anatoliche del II millennio, sicché l’ipotesi dei glottologi nordici non poté scuotere l’autorità della teoria allora dominante, secondo cui la popolazione pregreca dell’Asia Minore non sarebbe appartenuta alla famiglia indeuropea.
Sul finire del XIX secolo alcuni linguisti avevano infatti formulato la teoria secondo cui la lingua dei Lici e le altre antiche lingue dell’Asia Minore (misio, lidio, cario ecc.) sarebbero appartenute ad una famiglia diversa sia da quella indeuropea sia da quella semitica. Faceva eccezione il frigio, ritenuto lingua indeuropea per via dei numerosi elementi lessicali assai simili al greco contenuti nelle iscrizioni frigie. Fu così che nacque l’ipotesi di un’affinità delle lingue egeo-microasiatiche con quelle caucasiche.
Soltanto nel 1936 un professore di glottologia dell’Università di Pavia, Piero Meriggi (1899-1982), decifratore dell’ittita geroglifico, rilanciò i risultati delle ricerche compiute da Pedersen, Bugge e Torp, rafforzandoli con nuove argomentazioni. Da parte sua, basandosi su alcune analogie morfologiche nella declinazione e nella coniugazione e sulla presenza di un gruppo di elementi lessicali comuni, Pedersen metteva in luce la vicinanza del licio e dell’ittita, affermando in particolare che il licio rappresenta un più tarda fase di sviluppo del luvio: “In gewissen Beziehungen würde das Luwische sich besser als Stammutter des Lykischen empfehlen” (Lykisch und Hittitisch, Kopenhagen 1949). Tali vedute furono confermate alla fine degli anni Cinquanta dalla Comparaison du louvite et du lycien (“Bulletin de la Société de Linguistique de Paris”, 55, pp. 155-185 e 62, pp. 46-66) del francese Emmanuel Laroche (1914-1991), il quale mostrò la corrispondenza del termine ittita per ‘Licia’ (Lukka) con il luvio Lui-, da un più antico *Luki-, donde l’identità dei nomi Luwiya e Lykìa.
Dal fatto che nelle iscrizioni licie siano individuabili alcuni elementi tipici di una lingua satem l’indeuropeista bulgaro Vladimir Ivanov Georgiev conclude che nel licio sarebbero presenti due componenti: “la prima è probabilmente il licio, successore del luvio (e vicino all’ittita), la seconda è probabilmente il termilico, successore del pelasgico” (Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Roma 1966, p. 233), sicché la lingua licia del I millennio costituirebbe il risultato della mescolanza di queste due lingue.
Siamo dunque in presenza di un caso che giustifica la nozione di “peri-indeuropeo”, in quanto nel licio, come nel lidio, gli elementi indeuropei sono innegabili, però “è difficile considerare queste lingue sullo stesso piano delle lingue indeuropee normali” (Giacomo Devoto, Origini indeuropee, Padova 2005, p. 206). Così il Devoto, per il quale il licio e il lidio, assieme alle altre lingue anatoliche più o meno vicine all’ittita, “completano l’imagine di una complessità linguistica accanto ad una etnica, intorno alla nozione etnico-linguistica ben definita dagli Ittiti” (op. cit., p. 426).
Alla componente etnolinguistica indeuropea corrisponde, nella cultura politica del popolo licio, un caratteristico “tratto delle vecchie radici indoeuropee, [ossia] che le città licie erano governate da consiglieri anziani (senati)” (Francisco Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia, Bologna 2008, pp. 352-353), mentre dal sostrato preindeuropeo proviene quell’aspetto matriarcale che non era sfuggito all’osservazione di Erodoto. “Solo questo uso è loro proprio – scrive il padre della storia – e in ciò non assomigliano a nessun altro popolo: prendono il nome dalle madri e non dai padri. Se uno chiede al vicino chi egli sia, questi si dichiarerà secondo la linea materna (metròthen) e menzionerà le antenate della madre. E qualora una donna di città sposi uno schiavo, i figli sono considerati nobili; qualora invece un uomo di città, anche il primo di loro, abbia una moglie straniera o una concubina, i figli sono perdono ogni diritto” (I, 173, 4-5).
Già in Omero, d’altronde, è attestato il singolare costume licio della discendenza matrilineare: Bellerofonte, scelto dal re di Licia come genero e reso partecipe di metà del potere regale, rappresenta una “eccezione ai normali costumi matrimoniali attestati nel mondo omerico” (Maria Serena Mirto, Commento a: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 970); tra i suoi nipoti, l’erede del potere regale e il comandante supremo dei Lici nella guerra di Troia non è Glauco, “lo splendido figlio di Ippoloco” (Iliade, VI, 144), bensì Sarpedonte, figlio di Laodamia: “Accanto a Laodamia giacque il saggio Zeus, – ed essa generò Sarpedonte dall’elmo di bronzo, pari agli dèi” (Iliade, VI, 198-199).
Questa storia viene presa in considerazione da Bachofen nelle pagine introduttive al Mutterrecht: “Accanto ad una testimonianza assolutamente storica di Erodoto, la storia mitica del re presenta un caso di trasmissione ereditaria matrilineare. Non i figli maschi di Sarpedone [Sic. “Sarpedone” in luogo di “Bellerofonte” è ovviamente una svista del traduttore], ma Laodamia, la figlia, è l’erede legittima, e questa cede il regno a suo figlio, il quale esclude gli zii. (…) La preferenza data a Laodamia nei confronti dei suoi fratelli conduce Eustazio all’osservazione che un tale trattamento di favore della figlia rispetto ai figli maschi contraddice interamente le concezioni elleniche” (Johann Jakob Bachofen, Introduzione al “Diritto materno”, a cura di Eva Cantarella, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 44-45).
Nel 1862, un anno dopo la pubblicazione del Mutterrecht, Bachofen riprende l’argomento con Das lykische Volk und seine Bedeutung für die Entwicklung des Altertums, Freiburg im Breisgau. Ne esistono due traduzioni italiane: quella di Alberto Maffi (Il popolo licio e la sua importanza per lo sviluppo dell’antichità, in: Il potere femminile. Storia e teoria, a cura di Eva Cantarella, Il Saggiatore, Milano 1977) e quella ormai irreperibile del latinista E. Giovannetti (Il popolo licio, Sansoni, Firenze 1944), che viene riproposta nel presente fascicolo.
* * *
Tratto, con il gentile consenso, dal sito dell’Autore.
Lascia un commento