Una definita sistemazione ideologica hanno avuto in questi giorni i rapporti che uniscono politica e formazione etico-fisica della razza. Significativo peraltro è che nel “Foglio di Disposizioni” n° 1117, il Segretario del Partito abbia richiamato l’attenzione dei Segretari Federali sulle conclusioni alle quali è pervenuto un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane, circa la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza.
Queste lineari conclusioni che la stampa italiana ha pubblicato ed efficacemente commentate, pur rivestendo forma ideologica, non presentano carattere teorico, in quanto sono innanzitutto risultato di constatazioni di uno stato di fatto e si riferiscono con significato univoco e tale da non poter dar luogo a controversie dialettiche, all’indirizzo dominante di una serie di eventi compiutisi lungo la direttrice rivoluzionaria.
Questo aspetto pragmatico del problema chiarisce come la posizione razzista italiana non presuppone un “mito” inteso quale suggestione collettiva di un’idea d’origine non razionale, ma si ricavi dal contenuto stesso dell’azione politica propria del Regime fascista, ricevendo perciò dal “fatto compiuto” la sua più viva suggestione.
A intendere subito il senso del nostro razzismo, basta considerare che se la forza della realtà rivoluzionaria tende ad un tipo differenziato ed unitario di verità di morale e di spiritualità, essa è tale che ritrova le sue radici profonde nelle forze più segrete e più pure della nostra costituzione psico-fisica. In questo senso, aver posto di contro alle creazioni materialistiche e amorfe delle società democratiche, l’ideale di una virtù e di una interna nobiltà, che non si improvvisano, ma che occorre saper risvegliare, risuscitando innanzi tutto l’essenza stessa di una stirpe destinata a vincere il tempo: ciò in effetto è stato sino ad oggi, nel regime littorio, razzismo in senso reale e superiore.
La razza “nordica”
Tuttavia, ai fini di una piena comprensione di questo nostro realistico indirizzo, è bene rilevare che se nell’azione immediata il problema della razza deve essere riguardato sotto l’aspetto puramente etnico ed antropologico, per quel che riguarda la interpretazione e la direzione di tale atteggiamento, occorre tener conto di diversi aspetti spirituali, etici, culturali e tradizionali. Il razzismo in senso generico, infatti, comporta come idea centrale la stretta collaborazione tra sangue e spirito, tra razza e cultura. Per questo sin dall’inizio tale problema ha coinciso con quello della origine, della evoluzione e della decadenza delle civiltà, mentre la tendenza a riferirsi a dati riguardanti una razza “pura”, ha ispirato e conformato nuove ipotesi, nuove indagini e nuove conclusioni attorno ai periodi preistorici.
Ora, è chiaro che il razzismo non può essere una costruzione ideologica: o esso è realizzazione, o non è: come fatto culturale, può riguardare qualsiasi Nazione e può appartenere a qualsiasi tempo, ma, come attuazione, esso non può essere che il corpo di una grande idea che a sua volta sia espressione di una Tradizione superiore. Ciò posto, ci chiediamo: noi abbiamo o no una Tradizione? Roma, la latinità, la stirpe mediterranea parlano a noi attraverso una Tradizione? Mai, come nell’era mussoliniana, noi abbiamo posseduto una più viva certezza a questo riguardo. Richiamandoci dunque alla funzione costruttiva di questa perenne razza romana, mediterranea, se possiamo affermare che oggi essa riaffiora alla luce degli eventi storici, di qua da una segreta vita che difficilmente può essere identificata da un punto di vista semplicemente “culturale”, possiamo tranquillamente parlare di un’azione della razza e di un razzismo nostro, italiano, mediterraneo. Si è detto dunque che esiste una razza italiana ben definita per caratteri psichici e somatici, pura figlia dell’antica razza romana, latina, dominatrice dell’Occidente. Perché dunque l’orientamento della nostra concezione razzista sarebbe altresì “nordico” e “ariano”?
Qui occorre rifarsi alle conclusioni ultime della paletnografia e della paleogeografia cui sono giunti moderni studiosi che, nel compimento delle loro indagini, hanno tenuto presente il fattore razza in senso storico e biologico. Alla luce di tali studi, ci appaiono alle origini due razze primordiali di tipo diverso, la “negride” e la “finnico-asiatica”, l’una estendentesi dall’America del Sud all’Africa centrale o meridionale sino all’Australia, l’altra dall’Europa all’Asia settentrionale e all’America del Nord: queste, per via di incroci diversi, avrebbero dato luogo tra l’altro a una terza razza di tipo superiore: la razza “nordica” primordiale la cui sede originale sarebbe stata la regione artica.
La geologia interviene a dimostrarci come la Groenlandia a quei tempi si estendesse sino a collegare il continente americano con l’Europa: vasti giacimenti di carbon fossile sono stati infatti ritrovati sotto ai ghiacci dei resti di questa preistorica regione. Tali vestigia fossili sono state identificate come specie di una remota vegetazione tropicale: il gelo in tale continente si sarebbe manifestato a causa dello spostamento dell’asse terrestre che alcuni seri geologi oggi ammettono, dando altresì una giustificazione scientifica ad antichi e diversi miti e tradizioni, rifacentesi tutti ad un unico motivo: immense terre sommerse dai ghiacci e tragici diluvi.
I “nordico-atlantici”
I precisi ricordi mitizzati di un tremendo gelo d’inverno che pervase l’antica “meridionale” regione artica, costringendo la razza nordica primordiale ad emigrare, si ritrovano nelle tradizioni degli antichi Irani, dei Celti e dei Germani. L’unica via di scampo fu dunque il “nuovo” Mezzodì, ossia l’Antartico. In concordanza con ciò, accettata e scientificamente riprospettata l’ipotesi dell’esistenza dell’Atlantide, si dimostra che verso questo continente si sarebbe spostato il centro della civiltà e della razza nordica per irradiarsi in un secondo tempo ad Oriente, ossia verso le coste europee, e ad Occidente, verso le coste americane.
A questo punto, dove l’etnografia ritrova una interruzione di molti secoli, il linguaggio dei simboli con le sue corrispondenze e le variazioni secondo il mito, gli alfabeti, la ideografia arcaica e le sopravvivenze di costumi e di riti, aiuta a individuare l’itinerario percorso dalle razze nordica e “nordico-atlantica” attraverso il mondo, in diverse emigrazioni.
Un motivo generalmente accettato anche da studiosi non mossi nella indagine da un’intenzione razzista, è quello riguardante la superiorità psico-fisica di tale razza che poi, mescolandosi con elementi aborigeni in Europa in Asia dà luogo all’Homo Europaeus, all’Ario, all’Indoeuropeo, ossia alle razze per eccellenza costruttrici di civiltà. Quel che si è potuto ricostruire della loro religione riporta principalmente al culto solare: la luce del sole appariva come una manifestazione divina, continuamente portatrice di una nuova vita e l’anno rappresentava il ciclo dello svolgersi di questo ritmico rinascere, attraverso una serie di simboli chiamati dal Wirth “serie sacra”, corrispondenti ai segni dello Zodiaco. Così, a partire dalla loro storia, il carattere solare distinguerà culture e razze ariane, mentre, in senso simbolico, il termine “solare” si applicherà a ciò che anche manifestamente sarà regale, olimpico, costruttivo.
I paletnologi concordano nel riconoscere che a una certa epoca – tra i diecimila e i seimila anni a.C. – presso le popolazioni dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America comparvero conquistatori stranieri, navigatori, superiori come civiltà e come razza, maestri nel bronzo e professanti il culto del sole. Questa religione “solare” di cui gli Spagnoli ritrovarono templi e sacerdoti, allorché sbarcarono nel Messico e nel Perù, si riscontra non soltanto nella Caldea e nell’Egitto antichi, ma altresì in Europa, nella medesima età del bronzo. Carri e barche “solari” di oro e di bronzo, sono stati rinvenuti sia nella Scandinavia che nello Jutland, in Inghilterra, in Islanda e nelle isole dell’Egeo: così come nell’Iran e nell’India si sono ritrovati emblemi del sole, dischi e croci uncinate.
Ma anche l’antichissima razza italica, quella dei Liguri, presenta caratteristiche del genere, oltre a quelle di potenza nelle armi e di dominio marittimo, onde essi furono grandemente temuti dai Celti contro cui costituirono nel settentrione d’Italia una barriera insormontabile.
Il più forte argomento che ci sia fornito in favore dell’arianesimo dei Liguri, si ritrae altresì dalla vicenda mitica: essi professarono il culto del sole al quale associarono quello del Cigno. Questo armonioso mito del Cigno Solare è di natura indoeuropea: il Cigno oltre che rappresentare l’emblema del Sole nei Veda, è altresì l’attributo dell’Apollo Iperboreo, di quell’Apollo che, attraverso lo spirito di Orfeo, arrestò poi il passo alla tenebrosa Afrodite asiatica-meridionale, minacciosa per l’unità romana dell’Occidente. Il Cigno Solare dei Liguri simboleggia, con avvincente potenza, la giovinezza e la virilità: è la luce solare che si mescola con la ritualità dello spirito e riaffiora nelle tradizioni mediterranee come una imperitura primavera, preannunciando la nascita della stirpe romana.
Gli Ariani
A questo punto, comincia a delinearsi il senso del termine “ario”, o “ariano”. Esso è di origine indo-persiana: in sanscrito designa gli “aristocrati” e fa parte degli attributi che distinguono le diverse caste; il che induce a credere che il sistema indù delle caste non fosse che il risultato di una differenziazione di razze di diverso colore: i bianchi e i divini arya, conquistatori e dominatori, di contro alla casta dei servi, o çudra, gli aborigeni sottomessi; un razzismo, come si vede, in senso assoluto. Lo stesso termine “ario” o “ariano” si ritrova anche nella tradizione iranica: il re Dario si definisce “ario”, di razza aria, e chiama il suo Dio “il Dio degli Ari”: così Erodoto riferisce che i Medi prima si chiamavano Ari, e tante altre testimonianze analoghe convergono sullo stesso significato di nobile, superiore, da attribuire alla parola “ario”.
Il fatto è che tra le diverse migrazioni della razza nordico-atlantica, la più significativa e la più comunemente accettata è quella che si compì verso l’Oriente e precisamente verso l’India. Colà i Nordici trovarono il paese occupato dagli aborigeni, uomini dalla pelle scura e di cultura inferiore, e grazie alla loro superiorità psico-fisica li sopraffecero. Ecco dunque chi sono gli indo-ariani. Per quel che concerne la identità degli Ariani, la cultura tedesca, attraverso formidabili costruzioni eruditiche, trova modo di mostrare come gli eredi europei dei nordici primordiali, ossia gli ariani europei, siano gli antichi germanici, che per ciò vengono anche chiamati indo-germanici. È questo uno dei periodi storicamente più oscuri, riguardo a cui gli stessi elementi culturali e tradizionali possono portare a conclusioni diverse: Onde è più logico rimettersi al linguaggio degli eventi che da quell’epoca si andarono compiendo e che permangono come grandi simboli eloquenti di una storia decisiva per l’Occidente e per il mondo.
L’arcaico mediterraneo
Riguardo al misterioso periodo della nascita di Roma, se è chiaro che un ceppo nordico-ario, con la componente etrusca, dà luogo al sorgere di una civiltà nuova, si può parlare, sì, di una razza nordico-ariana, ma più precisamente di una razza che è, allo stato di attualità, romana, latina, mediterranea, ossia tale che renderà poi romano il Nord, tramutando il termine “romano” in sinonimo di nobile, di superiore, di divino.
Qui, un’autorevole personalità della cultura tedesca, J.J. Bachofen, chiarisce efficacemente la situazione, assumendo un atteggiamento di obiettività riguardo alla civiltà, alla razza e alla cultura di Roma, che raramente s’incontrano in altri studiosi – a parte un certo aspetto di eccessività nei termini della sua visione di cultura.
Come vedremo, la interpretazione di Bachofen mostra i segni di una intuizione che è giunta effettivamente a ricostruire la realtà spirituale e civile di quel periodo arcaico. Troveremo infatti che essa coincide con quanto si è accennato riguardo agli antichi Liguri. È importante a tal proposito riportare una delle fondamentali affermazioni di quello storico Filisteo a cui si attribuisce la paternità della teoria “panligure” onde gli antichi Siculi vengono compresi nella grande famiglia ligure e viene ampliata così la visione di quell’Antioco di Siracusa che, rifacendosi a Tucidide e ad Ellenico, afferma esistere un legame tra i Siculi e i Latini primitivi. Allorché Filisteo afferma che i pretesi Siculi d’Italia non erano in fondo che i Liguri, dà serio motivo per pensare che i popoli primitivi del Lazio, all’epoca neolitica e al principio dell’età del bronzo avessero effettivamente partecipato a quella superiore civilizzazione nordico-atlantica di carattere affermativo ed omogeneo che si sviluppava allora attraverso una gran parte dell’Europa, dall’Atlantico al Mediterraneo. In questo bacino, dunque, si sarebbe realizzata, dopo forti contrasti e rinnovamenti, l’ampia armonia di due mondi, di due civiltà diverse.
L’avo della stirpe di Romolo
A questo punto la interpretazione del Bachofen rischiara di vivida luce, di tra le figurazioni dei miti e le magiche risonanze della poesia epica, la lotta tra due forme di cultura, attraverso cui si prepara a l’avvento della razza di Romolo. Sempre in funzione di una visione non scolastica, ma tendente a restituire alla storia il suo valore supertemporale, per l’identificazione di ciò che, di là dai fatti, è l’anima segreta di essi, egli mostra come il più remoto regime mediterraneo fosse conformato a una visione non virile del mondo, per cui all’origine di ogni creazione veniva concepito un principio femminile, una Dea che esprimesse il più alto valore spirituale, e rispetto al quale il principio maschile si manifestasse come qualcosa di secondario e di contingente, soggetto a nascita e a morte, di fronte all’eternità e alla immutevolezza della immane matrice da cui erompe la vita. Nella religione naturalistica di Demetra-Persefone, nelle impersonificazioni delle dominanti dee orientali della natura, Iside, Tanit, Cibale, Astarte, Melitto, e in Core, primo essere femminile che sorge dall’apeiron (infinito, senza forma) e che genera essa stessa il suo sposo, ed in ogni altra remota figurazione mitica in cui l’elemento mutevole della generazione ha predominio su tutti gli aspetti, e il simbolo “notte” su quello del “giorno”, e la luna sul sole, come anche nella precedenza del segno lunare in alcuni simbolismi arcaici, cui talvolta si lega la registrazione lunare anziché solare, del tempo: in tutto ciò sono da riconoscere le espressioni di un tema centrale, che, peraltro, si sarebbe manifestato, nel piano della realtà, in costituzioni politiche di carattere patriarcale.
Ma questo dominante regime della donna regale e sacerdotale, sul limitare dei tempi storici, dà segni di una profonda crisi che determina la lotta tra due religioni, tra due razze, tra due sistemi di valori, tra due modi di rappresentarsi la vita, tra forze umane e divine ad un tempo. È la essenziale forza dell’essere maschio che reagisce come nel risveglio da un letargo senza tempo; è il futuro uomo mediterraneo, l’antico avo della stirpe romulea che si risveglia a nuova lotta, con vigorosa ripresa dalle profonde radici della vita. Così egli suscita l’ideale della cultura che ispira la Grecia dei tempi storici: l’uomo che emerge come costruttore della sua personalità e del suo mondo, costituisce il valore tipo.
Nell’urto della lotta si rischiarano figure di individui eroici che assurgono al piano semidivino, permanendo di là dal circoscritto mondo temporale, come entità simboliche, tipici rappresentanti di una nuova razza superiore, maestose pietre di paragone per una novella vita classicamente compiuta in ogni espressione di nobiltà, di disinteresse, di fermezza e di volontà di potenza. La concezione di una vita di là dal mondo finito crea un sistema di possente organizzazione di uomini, che si compirà poi nell’imperio mediterraneo di Roma. Così, mentre nell’Ellade e più tardi nell’Urbe, il principio eroico combattivo, mistico ed atletico si congiunge con la stessa sostanza delle scienze sacerdotali e con la rappresentazione trascendente dell’aspirazione all’immortalità, attraverso l’affermazione di questo modo di vita maschio e costruttivo, la fiamma della tradizione mediterranea suscitata in Grecia viene portata a Roma, dove attinge il suo più chiaro splendore.
I nuovi dominatori: i Romani
Estendendo l’indagine attraverso la interpretazione del mito e del simbolo, risulta evidente un intimo collegamento fra le antiche culture che precedono Roma e il tipo matriarcale della cultura pelagico-asiatica. Infatti mentre i culti prenestini mostrano una evidente analogia con quelli egizi della Madre, nel mito di origine etrusca riguardante Tanaquil, si ritrova l’aspetto asiatico e meridionale della donna “afroditica” regale.
Peraltro è da notare che nella prima religione di Roma ricorrono figure femminili: Mater Matuta, Diana, Luna, la Ninfa Egeria o Fortuna, il cui culto sarebbe stato introdotto da Servio Tullio che se ne diceva figlio – leggenda, questa il cui significato la ricongiunge con quella che faceva di quel re, propugnatore della libertà popolare, uno “spurio” concepito in una delle feste afroditiche che si celebravano in onore della Gran Madre. Inoltre sono di origine sabina le tradizioni riguardanti Tarpa, i rapporti di Ercole con Larentia, di Flora con Marte-Ercole, e i vari tipi di feste orgiastiche che ne derivano: esse ci riconducono allo spirito della civiltà patriarcale che eserciterà un suo finale influsso sulla nascente civiltà.
Nelle varie tradizioni romane si scopre così la lenta e inarrestabile insorgenza di una razza nuova, si ritrovano uno strato antico e uno nuovo che cerca di soverchiare il primo o di trasformarvi concezioni, costumi, rapporti ideali che, in tempi posteriori, dovranno risultare come antitesi con ciò che la romanità poteva riconoscere o assumere. Quel che, per esempio, in Roma si conservò come dignità e autorità matronale allato al diritto del pater familias, più che essere puramente romano, non fu che una trasformazione in senso etico e antiafroditico di antichi elementi matriarcali preromani.
Da questo contrasto di ideali e costumi e dalle sue stesse forme originarie legate allo spirito delle precedenti culture, Roma si spicca manifestando l’affermazione di una razza e la formazione di una influenza nuova, che, assunta da questa stirpe di dominatori, reagisce anzi contro di esse sino a soggiogarle o ad abbatterle. Tale è la conclusione di un’acuta indagine compiuta attorno alla saga di Tanaquil, della quale numerosi elementi acquistano oggi, per virtù di comunione spirituale dell’idea fascista con quella romana, significati di una vivente attualità. In ordine a tale riconoscimento, la nascita di Roma segna il prodigioso esprimersi di un elemento etnico superiore, ossia il manifestarsi di una spiritualità eroica e sacra che dà senso ad una razza e al destino di essa; le caratteristiche di tale razza rispondono eticamente e somaticamente a quelle dovute ad un mescolarsi del ceppo nordico-atlantico con quello europeo-meridionale. Ma, così come le due primordiali razze generatrici, per incroci, della razza “nordica”, da questa furono superate, così la nuova razza romana, ariano-etrusca, supera le componenti, divenendo una razza a sé, inconfondibile.
Chi, infatti, in quel Mediterraneo che non ha assunto ancora fisionomia civile, armonicamente definitiva, può riassumere gli ideali più perfetti di culture e razze ancora in lotta, di retaggi spirituali iperborei, orientali e meridionali? Sulle rive del Tevere, nel centro dell’arioso Mediterraneo, sorge Roma fondata da una stirpe di guerrieri: essa compirà il prodigio, avendo iniziato nella penisola la lotta contro i residui delle vecchie mentalità democratiche matriarcali e dei vacillanti regimi ugualitari. L’anima guerriera unificatrice della nuova razza inizia così il suo ciclo epico.
Razza e spiritualità in Roma
In ogni avvenimento della storia politica di Roma si ritrova qualcosa che ha simultaneamente una parte spirituale e un significato simbolico. Nella lotta che le legioni romane impegnano si cela in pari tempo una lotta di carattere superiore, ovvero l’affermazione di una razza dello spirito che vuole dare impronte di sé alle cose e agli eventi, in superamento assoluto di ogni precedente forma di cultura, e di civiltà.
È questa la ragione fondamentale per cui la progressiva conquista del mondo antico si accompagna all’interno con la rigida costituzione del potere nella forma di un tipo virile di Stato, in netta opposizione con quello proprio alle arcaiche comunità italiche e mediterranee. Tale forma si completa in una etica severa e in una espressione giuridica rigorosa che si esercita su tutti i campi e si porta su tutte le terre, fortificando l’intimo animo, costituendo l’intera vita sociale in una ferma supremazia dell’elemento maschile “solare” su quello femminile “lunare”, dello spirito “olimpico” e “classico” su quello “dionisiaco” e “naturalistico”.
I riti romani alla vigilia delle guerre e a consacrazione delle vittorie presentano così un significato di trionfo sulla necessità materiale, travolgendo lo spirito del fanatismo delle vecchie razze e di ogni culto di tipo “comunistico”. Tengano presente tale verità quei corifei della filosofia della storia, che continuano a considerare Roma come una mera associazione di condottieri e di strateghi, rimpicciolendo così l’ampia visione della civiltà mediterranea.
Ravvivata e ridestata a significati superiori la Tradizione, ossia costituita la virtù fondamentale della nuova stirpe, dal Mediterraneo romano nasce infine la luce dell’Occidente. Roma inizia la sua grande opera di civilizzazione Occidentale. Vinto Pirro e scardinato prima con la battaglia navale di Ecnomo e poi con la battaglia di Milazzo il predominio mediterraneo di quella Cartagine che rappresenta l’ultimo tipo di costituzione patriarcale, la rapidità con cui Roma estende il suo imperio su tutto l’internum mare, stupisce i contemporanei. Polibio stesso, nel sesto libro della sua Storia, ponendosi il compito di trovare i motivi di tale ascesa, rasenta il vero allorché pone in rilievo la natura complessa della costituzione romana, nella quale il potere quasi assoluto del magistrato supremo, investito di autorità sacra, s’integra con la potenza aristocratica del Senato e con il riconoscimento dei diritti del popolo: è un’armonia di forze al centro delle quali è una legge di spiritualità maschia, eroica, mediata dagli elementi costitutivi della razza.
Nelle guerre puniche, mondo occidentale e mondo orientale si urtano per un definitivo predominio con la distruzione di Cartagine – città sacra alla dea, ad Astarte-Tanit – con questo grande punto di “svolta per i destini dell’umanità”, Roma riconduce il mistero della Tradizione e della potenza dal Sud al Nord, dal mondo delle madri e delle forze oscure della natura a quello degli eroi e delle forze celesti. “Ciò che Alessandro aveva conquistato in Oriente e Cartagine in Occidente si avviano a divenire possesso duraturo dei discendenti occidentali di Enea. L’idea superiore dell’Occidente si impone in virtù della sua intima potenza”.
Così, di ascesa in ascesa, in Cesare si incarna il “tipo del puro eroe occidentale”. Con la realizzazione dell’Impero si compie definitivamente il tipo di Stato eroico e anti-matriarcale, quello che dà corpo al puro spirito “solare”: questo, come aureola del dominatore, si concentra nella individualità dell’imperatore e da essa si irradia per dare senso e determinazione alla gerarchia, al diritto, alla civiltà e ad ogni atto della vita. Il principio “solare” di sacerdozio olimpico proprio all’Apollo di Delfo e la supermateriale virilità della Luce, attraverso l’Imperium di Roma, conseguono un loro corpo universale. L’aeternitas dell’imperatore e la pace “augusta” o “profonda”, dominanti sino ai limiti del mondo conosciuto, presentano così quasi il senso di un riflesso del piano celeste e semidivino sul piano inferiore delle cose e delle vicende soggette al divenire: è il completo, luminoso trionfo dell’idea occidentale romana.
Allorché, infine, Ottaviano cinge la corona imperiale, dopo avere schiacciato Antonio e Cleopatra – simbolo, costei, di un’ultima insorgenza matriarcale, meridionale, anti-romana – nella battaglia d’Anzio (30 a.C.), e dopo aver sgominato i figli di Pompeo nelle guerre piratiche, ossia dopo una piena vittoria mediterranea nell’avvento dell’impero augusteo si definiscono, in manifestazione assoluta, i caratteri peculiari ed essenziali della spiritualità e della razza di Roma.
Esiste dunque una razza che può definirsi “romana”, sia per caratteristiche somatiche, sia per un modo interiore di concepire la vita che si riflette in uno stile inconfondibile dell’“essere” e dell’“agire”. Quale il destino di tale razza al decadere dell’Impero di Roma?
Il quinto punto fissato dagli studiosi del nostro razzismo suona così: “È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici”. E non è una gratuita affermazione che “dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri movimenti di popoli, capaci di influenzare la fisionomia razziale della Nazione”. Tale non-capacità in effetto si è dovuta all’intima resistenza di un elemento etico superiore che si mantiene desto e tale da poter affiorare nella realtà e nel piano della manifestazione, attraverso il senso di molteplici eventi. Questo suo resistere alle mescolanze, questo consistere e permanere di contro al prepotere di influssi diversi di altri destini e di altre genti, ha avuto come causa segreta e profonda la forza della Tradizione: retaggio trascendente di cultura e di civiltà, connesso alla vita inestinguibile della razza. Giustamente si afferma che per l’Italia, nelle grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: e che i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
Una ragione profonda e attiva, di là dalla stessa consapevolezza degli uomini, è da ritrovare al centro di questa storia della nostra razza che, per forza di una spiritualità segretamente vigile (tradizione) e per virtù di un elemento etnico inconfondibile (sangue) permane identico attraverso ogni vicenda, trascendendo la misura del tempo, per ricongiungersi nuovamente in una unità organica che renderà manifesto ciò che prima era invisibile e segreto, ossia per tradurre in atto le forze profonde che hanno radice nella stessa compagine psico-fisica, nella sostanziale composizione organica dell’individuo.
La secolare unità italico-romana
Perché dunque nessun influsso barbarico giunse a modificare la costituzione razziale italico-romana? Essa resiste e trasforma: eventuali mescolanze per essa non hanno significato, in quanto il principio radicale della razza ha la virtù di trasformare ed investire della sua stessa virtù altri elementi etnici e così di conquistare i conquistatori. Ciò può spiegare perché lungo le più alterne vicende di popoli e di civiltà, attraverso ricostruzioni di immani disgregazioni, in un indefinito ciclo di divenire, Roma è stata sempre un punto fermo nel tempo, in senso simultaneamente reale e simbolico. Per uomini, per condottieri, per mistici, essa è stata sempre una rocca di paragoni sicuri, un punto di partenza e un punto di arrivo, dopo cui valeva la pena vivere la vita oltre la vita stessa, per tendere ad un piano di serena immortalità.
Un’antica e perennemente giovane razza di Romani è legata alla storia di Roma. Misteriosa, di origine eroica, di continuo suscitante la fiamma della Tradizione, in segreta solitudine o in azioni “solari”, secondo che gli eventi lo richiedessero, tacita in alcune epoche contemplative ed esplodente in combattimenti, in conquiste e in superbe costruzioni, in epoche di virile affermazione, essa difficilmente si può identificare nello spazio, né si può individuare attraverso una visione semplicemente “razionalistica” della storia.
Tuttavia fatti fondamentali della nostra tradizione mediterranea, quali la potenza conquistatrice e colonizzatrice delle nostre Repubbliche Marinare che lanciarono per il mondo grandi navigatori, esploratori e dominatori di mare, l’apporto eroico ghibellino alla costruzione del Sacro Romano Impero, l’azione dei condottieri e dei capitani di ventura, la forza della Rinascenza e le basilari scoperte ed invenzioni ad opera di Italiani: tali fatti sino al Risorgimento, alla Indipendenza, alla Guerra del 1915 e alla Rivoluzione Fascista si presentano come manifestazioni realistiche e storiche, al cui centro si può ritrovare quello slancio metafisico verso l’infinito e l’immortale, che caratterizza l’anima stessa della razza di Roma.
La controparte ideale, speculativa di tale azione della razza “italico-romana” è con analoga facilità identificabile, in quanto costituisce una “Tradizione” costante anche in senso di manifestazione o di attualità: anzi si può dire che uno stile romano del pensiero riassume, in sede dottrinaria e speculativa, i caratteri dell’antico principio sacro ed eroico che fu alla base dell’Impero.
Da quell’epoca in poi, uno stile latino del pensare nella sua virile configurazione morfologica, mantiene il retaggio avuto da Roma, sia nello spirito migliore della scolastica, allorché la filosofia conforta con argomenti intellettivi il senso del divino, sia nelle visioni metafisiche di Dante, e nella ideologia ghibellina dei “Fedeli d’amore”, nell’intimo senso dell’arte di Raffaello, di Michelangelo, di Leonardo, di Correggio e di Tiziano, nel neoplatonismo ridestato a Firenze da Lorenzo il Magnifico, nei neoaristotelici Pomponazzi, Zambarella, Cremonini, Piccolomini, Cisalpini, Vanini, in quegli originalissimi che risuscitano taluni aspetti della Tradizione d’Occidente attraversi la speculazione: Tomaso Campanella, Pico della Mirandola, Girolamo Cardano, Patrizi, Casa, Giordano Bruno, Della Porta; nella Scienza Nuova di Vico, nella spiritualità classica di Giacomo Leopardi, nell’impulso nuovo dato alla filosofia italica da Gioberti, Rosmini e Galluppi.
Da una rapidissima veduta d’insieme vien fatto di pensare che l’ideale di una permanente intellettualità di tipo “romano” si possa concepire come retaggio di quella superiore armonia dello spirito che fu al centro della potenza di Roma: nel “solare” equilibrio insito nell’anima di una razza per virtù della quale la cultura si tradusse in civiltà e la civiltà in cultura, è possibile ritrovare infine la risoluzione dell’antico dissidio tra platonici e aristotelici, Roma in questo senso permane la grande equilibratrice.
Un appello del Duce alla razza bianca
Il carattere peculiare dei nostri uomini migliori (non tenendo conto di coloro che della cultura e della filosofia in genere si fanno una sorta di abito esteriore da mostrare e da portare quale modello esibizionistico) è una genialità classica, solare, ossia una virtù di potenza nella sintesi dei valori pertinenti all’umano, al superuomo e al divino; esso sta perciò a rappresentare, in opposizione all’opaca sornioneria del materialismo moderno, alcune forme reali, viventi, storiche, del nostro ideale di vita e di spiritualità, che sono quelle stesse che preannunciano, nella nuova organicità della razza, un riaffiorare dell’antica, immutevole Tradizione, quale anima di nuove lotte e di nuove conquiste.
Sotto questo riguardo, è proprio l’armonia dello spirito romano che parla attraverso le maestose figure che l’Occidente ha generate: tutto ciò che, come azione e contemplazione, si mantiene fermo attorno a un asse di irremovibile dignità ideale, è essenzialmente romano, creazione di una razza inequivocabilmente romana.
Una trattazione storico-etnografica condotta con acume sottile che penetri di là dalle quinte della storia, potrebbe individuare anche da un punto di vista razionalistico, la vicenda senza soluzione di ritmo, della razza italico-romana lungo il corso del tempo. Data la limitatezza dello spazio, a noi basti per ora riferirci ad alcuni significati della nostra assunzione razzista in rapporto a ciò che effettivamente si è realizzato dalla Marcia su Roma in poi, non dietro presupposti ideologici ma in virtù di una rispondenza degli elementi alla risurrezione di latenti qualità della razza.
Or sono sei anni, il Duce con un suo articolo dal titolo “La razza bianca muore?” pubblicato nei giornali dell’Universal Service e nel Popolo d’Italia, richiamava l’attenzione di quasi tutta l’umanità sul problema che più vitalmente la riguarda e prospettava in efficace sintesi i rimedi che urgevano a scongiurare la decadenza e la fine della razza bianca. Il problema della razza costituiva già dunque per Mussolini un motivo fondamentale di vita sotto l’aspetto sia sociale che politico: in nome di una razza superiore Egli richiamava l’attenzione su tutta la razza bianca, ossia su quella che meglio può rivendicare a sé il retaggio “ariano”.
Il Duce ha dunque previsto il problema delle razze e non semplicemente in senso nazionale, ma in senso ancora più vasto, nell’interesse delle diverse Nazioni depositarie di tradizioni di civiltà, in un senso perciò autenticamente universale. Il suo sguardo ha sempre veduto lontano, avendo il potere di non essere distratto o affascinato da vicende passeggere, fenomeniche, esso si stacca da ciò che è apparente e fittizio, per scrutare ciò che è reale e lontano nel tempo: per esso si diradano nebbie di errori e di artifizi e i drammi dell’umanità appaiono chiari nella loro fatale essenzialità. Ecco dunque che, sempre secondo quella Sua spiritualità che sorpassa l’empirico e il contingente, e abbraccia perciò problemi di carattere universale, inerenti a motivi vitali di tutta una catena di popoli, Egli già da tempo ha lanciato un appello al mondo civile perché esso si risvegli, si riscuota, si salvi dal dissolvimento e si ponga su una via di ricostruzione. Egli ha parlato in nome di un complesso di civiltà che furono luminosissime ed ebbero come centro irradiante la civiltà romana: ha parlato soprattutto in nome di una tradizione che, per quanto varia in riti diversi nel luogo e nel tempo, è una e, sotto il riguardo spirituale, identica. La razza bianca, di cui quella romana e ariana costituisce il nucleo centrale, aveva bisogno di un nuovo impulso superiore che in essa risvegliasse le forze più segrete e più attive. Occorrevano provvedimenti, norme nuove, risvegli di coscienza, incitamenti, educazione di masse, impulsi nuovi, per affrontare una lotta al cui esito sono legati i problemi maggiori dell’umanità: crisi, economia, pace dei popoli, ricostruzione di civiltà. L’interrogazione che ha fatta Mussolini è stata qualche cosa che si è incisa con tagliente lucidità nell’anima di tutti coloro che sono consapevoli di appartenere alla razza bianca. È stato un tremendo, chiarissimo interrogativo che ha riassunto tutti i drammi, tutte le speranze e le condizioni di ascesa o di disgregazione delle nazioni civili. In un momento in cui i popoli bianchi indugiavano – come oggi – in litigiose diplomazie e in astiose dialettiche, il contrassegno evidente di un inguaribile disagio, un Uomo, romano in senso compiuto, si è levato al di sopra di tutti e ha parlato in nome di quella razza di cui Egli è tipico e perfetto rampollo.
Tale precedente, per chi sa intendere, è significativo, nei riferimenti degli attuali problemi, ma soprattutto in quanto una presa di posizione non settaria, ma universalistica, in tal senso, rivela effettivamente l’assunzione di principi supertemporali e supermaterialistici che, effettuata dal Fondatore di un ordine nuovo di vita, di stile e di politica, costituisce meglio che una speranza, la certezza di una tensione positiva verso il risveglio totale di ciò che in noi è forza nuova ed antica della razza di Roma.
I progressivi momenti dell’epica fascista ci mostrano chiaramente come l’avvento di un uomo che rappresenta il “tipo” della razza, ossia l’ideale vivente di una generazione nuovamente “romana”, e l’azione concomitante di esseri che incarnano analogicamente le virtù della stirpe, costituiscano in sostanza il motivo essenziale di un magico risveglio delle forze segrete nei singoli individui, in corrispondenza a queste ideali forme di vita, e di un orientamento unitario nella direzione di tali forze. Una perfetta garanzia di un’azione in questo senso abbiamo avuta di recente nelle parole rivolte dal Duce ai Federali, in occasione della visita al campo dei graduati avanguardisti: “… anche nella questione della razza noi tireremo diritto”.
È un fatto incontestabile dunque che non può esistere razzismo senza riferimento a un fattore che, pur fondandosi sul sangue, lo trascenda e lo renda sostanza di sé: un costume superiore di vita. Quando le forze della razza non si risvegliano in funzione di una organicità gerarchica di esseri superiori e in riferimento ad attive forze ideali, meta-biologiche, ma soltanto in vista di obiettivi contingenti, utilitari, materialistici, esse non sono se stesse, ma si presentano, se così si può dire, in una forma deteriore di se stesse. Occorre dunque alla razza quel senso trascendente in virtù del quale già un tempo – ora è un millennio e ora son millenni – essa fu grande e costruttrice di civiltà.
Il sangue e lo spirito
Sotto questo aspetto sono comprensibili e più precisamente applicabili concetti come “nordico” e “ariano”, che possono perciò anche considerarsi convenzionali, in quanto, meglio che un significato storico, rivestono un valore “tipologico”, ossia vogliono riferirsi alla fisionomia superstorica di un tipo di umanità che esiste ogniqualvolta le sue latenti possibilità giungono a manifestarsi nel piano reale.
È questo un motivo fondamentale della questione razzista, riferentesi soprattutto alla reale possibilità di modificazione della struttura psico-fisiologica, in corrispondenza ad una “ispirazione” dominante della vita che divenga abitudine continua del pensiero, del sentimento e della volontà. Ora, è, accertato anche ad opera di razionalisti e di positivisti della bio-psicologia che se tale “ispirazione” contiene quello slancio che tenda a superare il dato della natura e della materia, per renderlo veicolo della sua vitalità che trasfigura ed esalta, essa risveglia nel sangue quella sostanza etnica più rispondente e più pura che effettivamente costituisce appoggio, strumento, fluido positivo, per la sua traduzione in vita e in azione costruttiva.
A questo proposito la Tradizione di Roma può insegnarci, a prescindere dagli aspetti simbolici e mitologici, che soltanto un tale elemento trascendente può dare forma e significato alla razza, sia che si alluda alla origine “eroica” e “divina” della stirpe, sia che si affermi la dignità sacra e guerriera di patrizi, di magistrati e di consoli, non tanto grazie all’appartenenza a una determinata gens o per avere un capostipite a cui riconnettersi – giacché in tal caso anche classi e caste inferiori possono vantare purità di razza e appartenenza ad antica famiglia – quanto per l’esistenza di un retaggio interiore che si appoggi sul sangue e lo renda diverso da altri sangui, ossia più ricco di spirito e più puro, recante in sé virtù superiori, giacché all’origine un “duce”, o un “eroe”, o un “semidio”, superò con un’azione trasumanante o con la potenza rituale, le forze della natura e della terra, per porsi rispetto ad esse in posizione di dominio, rendendo così la sua vita, nella totalità psico-fisica, tipo di vita superiore.
Che tale eredità esista effettivamente è un fatto comunemente ammesso dagli studiosi di etnografia, onde è anche noto che talune stirpi di padre in figlio rechino con sé caratteristiche superiori, come naturale virtù guaritiva, qualità altamente intellettuali, profondità in determinate discipline, nessun timore della morte e soprattutto, per quel che riguarda l’aristocrazia, il senso dell’onore e della lealtà – aspetti razziali, questi, che chi desidera veder trattati da un punto di vista politico ed attuale, può ritrovare nella rivista La Nobiltà della stirpe che da diversi anni in Italia combatte una battaglia in questo senso.
Inconfondibilità del nostro razzismo
Partendo dunque dalla premessa di un fattore metafisico che sia condizione assoluta dell’affermazione di una razza la quale giunga perciò a rendersi razza-tipo, razza privilegiata per civiltà e per cultura, il termine “ariano” può essere adottato, a patto d’assumerlo come nome corrispondente a un modello di umanità ricca anzitutto di qualità interiori, etiche e sovrammateriali, a prescindere perciò anche da collaterali concetti biologici, etnici e storico-geografici. La stessa osservazione è valida per i termini “nordico” e “nordico-ariano”, che possono così designare il valore di un indirizzo razziale, con corrispondenza a un tipo superstorico e non legato perciò al destino di un popolo in particolare, o ad una razza storicamente definita, o ad una casta determinata.
Tutto questo significa, per chi voglia intendere i caratteri che diversificano e rendono inconfondibile la nostra assunzione razzista, che anche l’appartenere da un punto di vista fisiologico alla tipica razza bianca superiore, non risolve nulla e non porta nulla di nuovo, se a tale conformazione esteriore non corrisponda una configurazione interiore che conservi soprattutto il retaggio esoterico, trasfigurante, “iperumano”, proprio a quella razza. In tali termini se una Nazione che intendesse assumere posizione intransigentemente razzista si limitasse a far riaffiorare e a tipizzare le caratteristiche semplicemente somatiche della razza considerata superiore, non creerebbe in sostanza che un serraglio di magnifici animali: ciò in quanto è un luogo comune, speriamo, superato, il ritenere che il fisico possa essere analogico al metafisico senza l’intervento di una forza che renda attuale simile analogia, o ritenere che un corpo perfetto possa creare uno spirito corrispondente. Né è sufficiente appoggiarsi sulla formula “lo spirito crea il corpo” in quanto si tratta di uno spirito che, allo stato normale ed elementare, si trova condizionato in ogni punto dal corpo.
Occorre piuttosto l’empito di una forza nuova che trasformi lo spirito, acciocché questo sia rapace di conferire una nuova “sostanzialità” al sangue e animare di vita ricreatrice la compagine fisica. Si tratta ancora di quello “slancio metafisico” cui sopra abbiamo accennato, e che non si impara né si improvvisa, ma che solo può venire dal contatto non-razionalistico, ma altamente spirituale, con le forze inerenti alla Tradizione. Non è un compito semplice, in quanto finché l’individuo dalle immediate energie dell’eredità, del sangue e dell’istinto ritragga tutto ciò che può dare determinazione e senso al suo esistere, egli fa sempre parte della razza “non-sveglia” (cui fa opposto riscontro l’antica razza degli egrègoroi, i perfetti “svegliati”, i vigili sull’anima e sul corpo) vissuta dalla vita, più che vivente in superiore consapevolezza la vita. Ed anche se egli giunge a costruirsi facoltà intellettuali partendo da tali possibilità d’ordine semplicemente biologico, tali facoltà recheranno sempre l’originaria impronta della natura, saranno una sorta di costruzione inconsapevole con illusorio dominio dell’io, non saranno mai il risultato di un impegno supercosciente e altamente “personale”.
Si tratta dunque evidentemente di creare una nuova forza o meglio di ridestarla in correlazione al possesso di un elemento etnico superiore. Infatti, dato che la razza è il risultato della educazione, della modificazione e della sublimazione effettuate nel piano fisico da una più dominante energia e trasmesse come virtù potenziali attraverso l’eredità biofisica, ne consegue che, mentre un compito fondamentale è di mantenere e vigilare il dono di questa eredità, in senso psico-fisiologico, d’altro canto si impone l’assoluta esigenza che venga alimentata o risvegliata quella ispirazione verso l’alto, slancio trascendente o interiore virtù modellatrice, che in origine impresse a quella vita fisica la determinata e tipica forma, onde il sangue divenne veicolo dello spirito, così da attuare una norma fondamentale della Tradizione, corporificare lo spirito e spiritualizzare il corpo, in una sorta di superamento eroico di ambedue.
Chiarire anche in sede semplicemente giornalistica un tale motivo significa rendere evidente il tipo di razzismo che corrisponde in ampie linee costruttive ideali e reali, a quello sinora realizzato in Italia dal regime fascista, di là da ogni meccanica ideologia e dialettica e riguardo al quale perciò giustamente il Duce ha affermato con significativa precisione: “Dire che il Fascismo ha imitato qualcuno e qualche cosa è semplicemente assurdo”.
Il nostro razzismo ritrova dunque nella sua attualità etico-politica la sostanza di una saggezza che non è condizionata da un “mito”, ma si identifica con una forza che si appoggia a diversi miti e però anche a simboli, come lo spirito al corpo, e tuttavia li trascende in ogni punto, per farsi realtà assoluta. È la Tradizione interiore, che crea e raggiunge quelle forme che saranno poi oggetto di studio della bio-tipologia e della para-psicologia e la cui determinazione puramente fisica porterà sempre al caos delle avverse teorie razziali e delle ipotesi antropologiche, tutte le volte che non si risalga all’origine extra-biologica, la quale sola può dare indirizzo univoco a un’indagine d’indole scientifico-razionalistica in tale senso.
Gli è che ogni qualvolta i destini delle razze mutano ed esse stesse danno luogo a tipi diversi e ad eventi nuovi, il ritenere che ciò avvenga per la mescolanza del sangue, significa scambiare l’effetto per la causa. È questo l’errore di quasi tutti gli ideologi del razzismo, allorché seguono l’avvicendarsi storico di stirpi, di caste, di popoli, anche tenendo conto di fattori mistici ed esoterici, e allorché spiegano talune decadenze con l’avvento di razze pre-ariane e con il trasporsi dell’elemento etnico originario in un ambiente non più adeguato, dove lo spiritus loci può vincere lo spirito della razza.
Razza e Impero
Tutto questo ci conferma nella certezza che, se è vero che lo spirito è legato al sangue, tale rapporto può rivestire valore negativo o affermativo, a seconda del principio che lo domina: per cui se una civiltà materialistica giunge ad imporsi ad una civiltà dello spirito, ciò significa che le forze della natura che nella prima dominano lo spirito, non incontrano resistenze nella spiritualità che per la seconda dominava la razza in senso fisico: viene a ristabilirsi dunque il rapporto tra sangue e spirito, ma in senso negativo, appunto perché la civiltà dello spirito già si assopiva, in essa cessava la tensione verso l’alto simboleggiata dal “fuoco”, si spegneva la luce simboleggiata dal Sole o dall’Apollo iperboreo, essa era abbandonata dal principio puramente metafisico, onde le forze della “natura” e della “materia” sino ad allora ordinate e dominate, si trovavano pronte ad insorgere e ad acquistare il sopravvento. Ed è un simile momento che ha sempre reso naturali e logiche la mescolanza, l’assimilazione, la misto-variazione, la decadenza: il sangue si è mescolato e la mescolanza si è tradotta in decadenza, soltanto perché lo “spirito” è stato sconfitto.
Ora, per quel che ci riguarda, a noi si è reso evidente che il su accennato rapporto che connette spirito e sangue, è analogico al rapporto gerarchico fra imperatore e popolo, tra il principio metafisico che incarna nell’imperator e la massa da esso governata: il che, per converso, significa che la sovversione di tipo comunistico accusa il capovolgimento di un tale rapporto, ossia l’assenza di spiritualità ordinatrice, per cui la “natura” crea, assoggetta lo spirito ed ogni sua espressione, sia pure la più rigorosamente intellettuale, dando la evidenza della massa acefala, della grande bestia senza volto (tipica decadenza della razza da un piano umano a un piano sub-umano, dal normale al sub-normale).
L’analogia del rapporto fra sangue e spirito, tra razza e cultura, mentre chiarisce, dunque, il concetto stesso di gerarchia politica e di imperialità – in quanto in sostanza si tratta di un rapporto di indole gerarchica – conferisce un senso inequivocabile alla nostra presente storia, dalla costituzione dei Fasci di Combattimento ad oggi: in riferimento a quanto si è detto sulla indispensabilità di un fattore extra-biologico e spiritualmente dominante la “natura” e la “razza” è proprio questo il caso in cui si riscontra l’orientamento nuovo e costruttivo di un popolo in base a un principio d’ordine sovrammateriale in virtù del quale, nella massa quantitativa, si delineano caratteristiche qualitative e, come dal blocco di marmo grezzo la statua, si scolpisce la forma autentica della razza.
In realtà noi non partimmo da presupposti di ordine razzista, per giungere alle forme viventi di un nuovo costume di politica e di vita, ma soprattutto dovemmo ridestare le energie più profonde della razza per tradurre in atto un’idea: alla virtù di una forza del piano psichico superiore – quello da cui scaturiscono le grandi creazioni che trasformano l’umanità e dominano la natura – noi abbiamo chiesto l’energia necessaria per combattere e per compiere la Rivoluzione, di là dalla stessa iniziale e consapevole intenzione.
I principi mussoliniani
In questo caso ha veramente agito una norma interiore, o costume spirituale, che, se pure ha adottato la natura come appoggio e come strumento di manifestazione, non si è lasciata ridurre ad essa, testimoniando così la presenza e l’azione trasfiguratrice di un elemento che ha il potere di condizionare qualsiasi fenomeno d’indole biologica. È stato un simile costume che ha costituito l’essenza super-normale di ciò che, con riferimento all’uomo nel senso nobile del termine e non in senso puramente fisico sia pure superiore, ha diritto al nome di “razza”.
Allorché il Duce nel riferirsi alla stirpe la definì “una molteplicità unificata da un’idea” la quale sostanzialmente “nel popolo si attua come coscienza e nella volontà di tutti”, pose e chiarì, dunque, un principio basilare del nostro razzismo, che perciò sin dalle prime attuazioni rivoluzionarie agì nel popolo per educarlo, formando, ridestando in esso una coscienza eroica e gerarchica.
L’autentica saggezza della razza si ritrova nella dottrina politica del Duce, soprattutto allorché Egli afferma che “la Nazione è creata dallo Stato” e che lo Stato è “autorità che governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali”, è “forma più alta e potente della personalità: è forza, ma spirituale”.
Chi ci ha seguiti in queste brevi note sul problema della razza non può non riscontrare una identità dei principi mussoliniani con quanto è risultato come condizione meta-biologica, essenziale, per il risveglio di una razza di forti, di dominatori e di eroi, per i quali la “romanità” della Tradizione si mutui con la nuova qualità della razza. In questo senso il principio immateriale della razza dello spirito deve risvegliarsi, deve agire quella stirpe che non è mera astrazione mentale né cadaverico schema della scienza, ma razza vivente, razza la cui virtù veramente si reca nel sangue e assai più in profondità che non nel sangue, nel radicale mistero dell’essere psico-fisico.
I soliti pontefici della dialettica non mancheranno a dar mano ai loro bagagli di inanimata erudizione. A noi basti concludere che il problema razzista non si può liquidare con teorie semplicemente scientifiche o esclusivamente erudite e psicologiche, ma ha fondamento sulla stessa realtà costruttiva e qualitativa di un popolo. Occorre poco a comprendere, sotto questo riguardo, come la politica demografica del Regime rappresenti uno dei capisaldi del nostro razzismo, in quanto dalla quantità consegna la possibilità della qualità, ovvero quella selezione dei migliori che è effettuabile attraverso il vaglio etico, politico e gerarchico.
D’altro canto, applicazioni pratiche come il razzismo coloniale, la formazione morale e atletica della gioventù, l’azione demografica, ma soprattutto un elemento trascendente di nobiltà e di eroismo, che costantemente “incide sul costume” della Nazione, c’insegnano soprattutto come il razzismo non possa venire assunto in un senso animalesco e nemmeno semplicemente antropologico – ché in tal senso gli americani, ad esempio, sarebbero all’avanguardia del razzismo mondiale – ma solo in riferimento all’uomo quale essere spirituale, quale dominatore e costruttore di civiltà.
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Tratto da “Il Resto del Carlino” del 28, 29, 30 e 31 luglio, 02 e 03 agosto 1938, A. XVI E.F.
Raffaele Giordano
VALE !!!!!
Q.Decio Arrio
Donna Giulietta
Cavaliere, il Bachofen confonde la Dea Lunare Diana (che è sorella di Apollo e non appartiene ai popoli oscuri o semitici) con le Sforze Ctonie infere,che sono tenebrose.
Diana al contrario Illumina la Notte, ed appartiene al Cielo ( era infatti una Dea, non una Titanessa )