I registi cinematografici, così come gli scrittori, si dividono in due categorie: quelli che raccontano le storie e quelli che si raccontano attraverso le loro storie. Il nostro Federico Fellini sapeva portare in scena nevrosi, ricordi, desideri, sentimenti che nella maggior parte dei casi erano parte del proprio sé, erano il suo vissuto o i suoi sogni ad occhi aperti.
Anche Alfred Hitchcock ha consegnato alla memoria del grande schermo emozioni, paure e fobie, mature e infantili, che erano in primo luogo le sue. Memorabile rimane, ad esempio, per ritmo del narrato, angoscia e senso del mistero il suo Gli Uccelli (1963), e altrettanto indimenticabile un altro film che quest’anno compie mezzo secolo di vita e che viene ragionevolmente ricordato come uno dei lavori più belli dell’intera storia del cinema. La Donna che visse due volte (1958 – nell’originale, ufficialmente, Vertigo). Uno degli ultimi film del grande regista inglese di Leytonstone educato cattolicamente, che in vita, come si sa, non riuscì ad ottenere molti riconoscimenti, sufficienti se non altro ad eguagliare il suo notevolissimo talento.
Hitchcock viene spesso ricordato come il maestro assoluto del brivido e della suspense (soprattutto per i suoi ultimi film), ed allo stesso tempo come un vero e proprio segugio della realtà. Il suo è uno stile personalissimo che peraltro, negli anni, difficilmente verrà ripreso con gli stessi strumenti di indagine psicologica.
D’altro canto il regista inglese abbinava alla forza della ispirazione anche quella delle immagini, coi suoi “trucchi” oggi in grandissima parte superati ma simbolo di splendida freschezza artigianale da età dell’oro. Hitchcock era dunque oltre che un artista ispirato un uomo che conosceva bene il mestiere. Gli artisti, i grandi artisti (musicisti, registi, creatori d’immagine), possiedono in primo luogo la dote del metodo, ed è sempre il pregio del grande professionismo a fare di un buon tecnico un vero maestro.
La Donna che visse due volte è la storia di un grande imbroglio, ma è anche un percorso di due ore verso una guarigione, quella del protagonista (James Stewart) con delitto e castigo conclusivo (che nulla ha però di summa moralistica). Un film a nostro modo di vedere messo su come la più classica delle opere liriche: trama intricata con un finale in cui l’ennesimo dramma, quello decisivo, si compie in pochissimi secondi. Un film d’emozione più che di ragione, insomma. Ma anche un film diviso in due veri parti, contrassegnate dalla presenza e dall’assenza di un motore seminascosto: un signore buono all’apparenza che intende sbarazzarsi della moglie ricca (tanto per dire: la più diffusa delle trame).
Così, protagonista in chiaro del film è un ex agente di polizia malato di acrofobia che s’innamora della falsa moglie, in realtà amante, di un vecchio collega d’università, la bellissima, glaciale e aristocratica Kim Novak e che sarà solo un burattino nelle mani della finta coppia marito-moglie; protagonista occulta del film è invece l’emozione fortissima della morte che può avere, incredibile a dirsi, effetti benefici cancellando in quattro e quattr’otto uno shock precedente (causato da un’altra morte). Ha ragione allora chi scrive che per Hitchcock la normalità è una qualità che sembra proprio non esistere (G. P. Brunetta).
Ma la grandezza di “Hitch” sta anche nel manovrare la macchina da presa con un’eleganza che ha pochi esempi nella storia del cinema. Eleganza e completezza sono infatti le due caratteristiche prime dell’arte di questo regista morto a Los Angeles nel 1980. I film di Hitchcock sono “completi”, perché costruiti su una serie numerosissima di componenti: bellezza, erotismo, mistero, incubo, psicologia (tutt’altro che ingenua), leggerezza, classe ma anche modernità. Sono eleganti perché vi si alternano con grazia e naturalezza, senza sbavature o forzature, scene classiche, di vita “borghese” di facile realizzazione e “lettura” (la bella donna in abito da sera, la passeggiata in macchina), e scene “futuriste” costruite ora con tecniche da cartone animato ora con passaggi monocromatici al limite della psichedelia ora con magistrali zoomate ora con primi piani su oggetti o dettagli (con sfumature perfino surreali), ora infine con “effetti speciali” che sembrano direttamente partoriti da un modernissimo computer.
In mezzo a tanta arte, le esegesi si sprecano. Una lettura (e non sappiamo in realtà quanto sia una facile lettura), del cinema di Alfred Hitchcock è quella dell’angoscia, del pensiero e dell’ansia ricorrente. Abbastanza facile per un film come Gli Uccelli, più fra le righe per La Donna che visse due volte dal quale si potrebbe cominciare ad esempio dalla scena iniziale. Due poliziotti che inseguono un ladro. Il tutto fra le ombre della sera e fra i tetti di una inconfondibile San Francisco. Il panico, la fuga e poi la paura di precipitare nel vuoto e la malattia del protagonista. Uno dei due poliziotti muore. Tutte sensazioni che Hitchcock butta in campo con raffinata “naturalezza” e qui si sprecherebbero anche le interpretazioni freudiane (eros, nevrosi, “colpe”, peso del passato…).
Ecco potremmo dire che quello di “Hitch” è un cinema che non vuol sputare sentenze (e noi in Italia, al contrario ne sappiamo qualcosa, di film per così dire “denuncia” o peggio “politici”), un cinema dalle mille domande e dalle risposte aperte, quasi un cinema filosofico nel significato corrente del termine: un cinema in ultima analisi conoscitivo. Indagatore dell’animo umano (e dei “meccanismi” della società), dei tranelli e dei labirinti nei quali l’individuo è costretto a perdersi da qualcosa che lo trascende e che non viene mai riprodotto, a maggior ragione se con inutile se non retorica pomposità. Ma Alfred è anche, si diceva, uno straordinario esteta del grande schermo. Vedere recitare Kim Novak (per tacere di Grace Kelly, protagonista de La finestra sul cortile e Caccia al ladro) riporta ai tempi in cui sul grande schermo le emozioni erano altra cosa dalle parole. Un viso nella sua bellezza ed espressività riusciva a raccontare da solo le scelte dei protagonisti colmando il “buco” di licenze poetiche e liberalità nello svolgimento dell’azione. La coppia Stewart-Novak offre ad esempio un’interpretazione pienamente hitchcockiana ovverosia plurivalente: eleganza e mistero, passione e sofferenza.
Ma altre due considerazioni possono interessare il giovane spettatore che vorrebbe avvicinare a distanza di anni questo genere di cinema.
Una certa cultura “nostra” si è spesso tenuta lontana dalle analisi e dagli psicologismi (non di rado s’intende a ragione), cadendo però nell’errore opposto di infilarsi nel vicolo spesso cieco della “ragione” metafisica, dove ogni cosa ha un posto, un significato, un prologo ed un epilogo per certi versi scontato, dove latitano le sfumature ed un veloce schematismo – irrazionale – classifica gli uomini in buoni e cattivi e le motivazioni dell’agire in giuste ed ingiuste. Dove gli eroi sono appunto gli eroi del bene, un po’ 007 un po’ Conan il barbaro, che lottano contro corruzione morale e materiale del mondo. E può bastare così.
Forse l’uscire da uno schema di questo tipo, magari con l’“aiuto” di chi riesce a disegnare il mondo (Alfred iniziò proprio come disegnatore) con mille nuances, con tutti i colori dell’iride non sarebbe poi grave errore; calarsi dai grandi, grandissimi temi (quelli per così dire d’ispirazione classica e romantica), alle comuni “miserie” del quotidiano, “indagare” l’animo umano per trovarvi spesso il nulla o un pluriverso di motivazioni o banali pretesti o perfino il desiderio di una qualche “semplice” banconota, sarebbe un atto di giustificato omaggio alla realtà del comportamento sociale (e non sempre una caduta di livello). Ciò per non fare l’errore di quel tale che a furia di guardare il cielo inciampò in una comunissima pietra. L’uomo chiunque esso sia, ladro o poliziotto, è fallibile, di più: è vizioso, sembra dirci il regista de La finestra sul cortile. Non dimentichiamolo.
“Hitch” ad esempio (e siamo alla seconda considerazione), con la sua pellicola del 1958 ha voluto mettere sullo schermo una novella che si sviluppa come una “comune” storia di reincarnazione (o peggio di fantasmi): la bella protagonista vive la vita di una antenata spagnola morta a 26 anni che appare in un ritratto di una galleria di San Francisco (e dunque sarà costretta a fare la stessa tragica fine); in realtà, però, dietro ad una storia che potrebbe contenere molti elementi occulti e bla bla bla si nasconde un temibile imbroglio, messo su da un tizio (il falso marito), che vuol sfruttare la debolezza di un ex poliziotto miracolosamente scampato alla morte qualche tempo prima.
Ecco, diremmo che l’autore di Psycho sa riportarci con i piedi per terra mercè le sue interpretazioni “profane”. Nessun grande disegno dunque ma microstrategie (spesso peraltro vincenti, come a dire che è il “male” spesso a “trionfare” o quanto meno a non soccombere), poste al servizio di progetti umani-troppo-umani. Paura anzi paure e fragilità sono questi gli ingredienti del brivido hitchcockiano all’interno di una natura che non è il migliore dei mondi immaginati, ma neppure il peggiore dei mondi possibili (spesso non lontani dalle carezze dell’ironia).
Mettiamola così allora: stavolta a trionfare non saranno i buoni ma per fortuna neanche i cattivi. Sarà un bel pareggio dài, secondo l’antica legge della casualità. E un “Hitch” così ci fa pensare ad un grande di un lontano passato: Epicuro.
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Tratto dal Secolo d’Italia di venerdì 1 agosto 2008.
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