Lunedì 13 Aprile 2009, alle ore 12,30, Lachesi decise di tagliare il filo della vita di un ciclista che aveva pensato di festeggiare Pasquetta pedalando sui colli Berici intorno Vicenza. Decise di tagliarlo proprio nel momento in cui il cicloamatore con la sua bici da corsa, mentre stava tornando a casa, affrontava un incrocio a San Germano sui Berici e sopraggiungeva un automobilista distratto su una Toyota Corolla, una grande auto tipo SUV, che non si fermava allo stop e lo investiva in pieno. Il suo cranio lucido urtava il parabrezza e lo faceva sprofondare in un coma irreversibile da cui non si è mai più ripreso, senza neppure la possibilità di operarlo data la gravità delle condizioni.
Lachesi aveva tagliato il filo della vita che Atropo filava e Cloto avvolgeva, insensibili, tutte e tre, loro le Parche, le Moire, a chi appartenesse questa vita, imperturbabili nel loro compito, inflessibili nel condurlo: neppure gli dèi possono intervenire per contrastarle, per deviarle da ciò che fanno, altrimenti metterebbero addirittura in pericolo l’ordine del mondo, il ciclo della vita e della morte predestinate.
Non c’è una spiegazione del perché Lachesi decida in quel momento preciso, o prima, o dopo, di dare un taglio netto e interrompere la filatura e con essa una vita. Né una ragione, né un motivo per noi comprensibili. È quindi impossibile – e inutile – chiedersi “perché”: soltanto così si possono accettare certi eventi. È il Fato, si dice, ed è esatto. Soltanto così possiamo accettare la morte improvvisa, repentina, quasi impossibile per il modo in cui è avvenuta, e quindi fatale di quel cicloamatore calvo, appassionato di quel mezzo antico e moderno allo stesso tempo, al punto di aver intenzione di lavorare sino a 65 anni, andare in pensione e darsi alla sua passione della bicicletta. Non ha fatto in tempo, perché il filo è stato reciso a 57 anni per la distrazione di un automobilista su una Toyota Corolla. Un Lunedì dell’Angelo tragico per lui e la sua famiglia, ma anche per tutto il mondo della cultura italiana, filosofica in particolare.
Perché quel ciclista appassionato era Franco Volpi, docente di Storia della Filosofia all’Università di Padova, ma soprattutto l’uomo che ha diffuso, tradotto, difeso e divulgato in un Paese fazioso e ignorante come il nostro tutta una serie di autori malvisti dalla intellighenzia dominante: da Nietzsche a Jünger, da Heidegger a Evola, da Schmitt a Spengler, da Gòmez Dàvila a Schopenhauer di cui “inventò” per la Piccola Biblioteca Adelphi i numerosi volumetti di aforismi a tema, che lo resero popolare come non era mai stato prima.
“Spirito mercuriale”, lo ha definito su Il Foglio Alessandra Iadicicco, che lo conosceva bene non solo a livello professionale, avendo lavorato molto con lui soprattutto per le traduzioni dal tedesco, ma anche privato. Suggestiva definizione ermetica. Ma se vogliamo volare più basso, a livello concreto, possiamo dire che Franco Volpi è stato soprattutto un uomo di cultura assolutamente controcorrente in un mondo intellettuale che ha fatto del conformismo e della correttezza politica la sua tavola dei valori, anzi della legge.
Strafregandosene dei luoghi comuni, dei tabù, degli anatemi di cui gli autori sopra ricordati erano oggetto, ma che respingeva con l’usbergo della sua autorevolezza, della sua professionalità, della sua cultura, della sua indiscussa preparazione e capacità. Sicché, grazie anche al carisma della casa editrice con cui soprattutto collaborava, l’Adelphi, pur se si lamentava dei suoi terribili ritardi, in questi ultimi quindici anni ha portato avanti praticamente l’opera omnia di Heidegger, non solo filosofo difficilissimo, ma calunniatissimo. Così come non ha mostrato alcun problema a occuparsi a fondo di Julius Evola, altro tabù di una cultura, quella italiana, tanto becera quanto presuntuosa: ha inserito quelli che riteneva i suoi libri più importanti, Rivolta contro il mondo moderno e Metafisica del sesso, nel Lexicon delle opere filosofiche pubblicato prima in Germania e poi tradotto in forma più breve da Bruno Mondadori, considerandolo uno dei tre massimi filosofi italiani del secolo scorso insieme a Croce e Gentile, e poi ha scritto l’ampia introduzione di una delle sue opere filosofiche, la prima, quei Saggi sull’Idealismo magico del 1926, uscito in edizione critica dalle Mediterranee tre anni fa. E proprio sull’Evola studioso dell’eros aveva parlato nel profilo che al filosofo tradizionalista era stato dedicato nella serie degli “Intellettuale scomodi del Novecento” prodotto da Rai Educational e curato da Giano Accame, anche lui scomparso – il Fato ha voluto – tre giorni dopo Volpi, il 16 Aprile.
Qualcuno potrebbe usare una frase del tipo: ce ne faremo una ragione. Purtroppo non è così. Una “ragione” non esiste, una ratio in questa morte non c’è. Franco Volpi non è morto, che so, “per un male incurabile” ma per aver incontrato il suo Destino a un incrocio tra i colli Berici un Lunedì di Pasqua, al ritorno da un giro sulla sua biccletta da corsa: non c’era alcun preannuncio della sua sorte, e non c’è alcuna spiegazione di questo. Ciò vuol dire cadere nella depressione e nella disperazione? Si sarebbe tentati di farlo: Volpi è un personaggio insostituibile per la sua competenza e la sua genialità. Magari qualcuno potrà continuare il suo lavoro, ma non come lui. Un altro potrà continuare le sue scoperte, ma non come lui. Qualcuno potrà avere il coraggio intellettuale per diffondere e difendere tutti gli autori da lui diffusi e difesi? Qui ci vuole l’interrogativo: dato il conformismo imperante e montante, chissà? Potete scommettere che, mentre lui, il mercuriale professore di Vicenza, non guardava in faccia nessuno e continuava come un treno a sfornare le sue introduzioni, a preparare le sue antologie, a rivedere le traduzioni e a curare libri pur andando in giro per il mondo (ma come faceva?), d’ora in avanti, invece, ci si porranno domande del tipo: se ci occupiamo di questo autore qualcuno ci criticherà? Se traduciamo questo libro qualcuno si sentirà offeso? Se parliamo di certi argomenti verremo denunciati e boicottati? Qualche lobbies culturale o religiosa ci getterà l’anatema, chiederà di ostracizzarci, bloccherà le recensioni? Ho paura che avverrà qualcosa del genere.
Eppure, nonostante questi timori, vogliamo pensare che alla fine proprio nel suo ricordo, proprio nel suo nome, qualcuno continuerà la sua opera in base alle proprie forze, aiutato dal suo spirito tutelare. Se vogliamo parlare per simboli, se qualcuno crede ancora a essi, si potrebbe dire che Franco Volpi è stato ucciso proprio da un simbolo, quello tipico della modernità, la macchina, mostro meccanico che ha preso la mano al suo automedonte distratto. Lui che si è sempre e solo occupato di autori antimoderni. Un Destino che ha il sapore della beffa e della atroce vendetta. Non solo: in un mondo di primedonne, anche intellettuali, sempre alla ribalta, sempre sgomitanti per apparire ed essere citate, quando il suo Destino si compì lungo la strada verso casa, restò anonimo per diverso tempo: non aveva i documenti con sé e Il Gazzettino in Rete del giorno 13, pubblicando la foto della sua bici accartocciata sul ciglio della strada, scriveva che era stato travolto un “ciclista anonimo”. Soltanto in serata i Carabinieri appureranno la sua identità…
Ci dà forza allora, e ci impedisce di cadere nello sconforto di una simile tragedia, proprio questo: ricordarlo continuando a occuparci di quegli autori di cui lui fu il massimo divulgatore italiano. Altrimenti Franco Volpi, il globetrotter della cultura che diffuse in tutto il mondo, America meridionale soprattutto, non ce lo perdonerebbe mai. Continuare a lavorare oltre le pastoie burocratiche (quelle universitarie erano la sua afflizione) e contro gli ostracismi ideologici, dunque.
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Tratto da Linea del 7 maggio 2009.
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