Al termine di questo volume uscito da pochi mesi per Solfanelli, dedicato ad alcune biografie di “Fascisti eretici” (questo è il titolo), Francesco Grisi docente, artista e scrittore scomparso più di dieci anni fa a settant’anni, confessa uno dei peccati capitali dell’intellettuale – probabilmente d’ogni tempo – e lo fa col suo stile veloce, colto e discorsivo a un tempo, che impegna il lettore a selezionare immagini nascoste nei periodi brevi ma ricchi. «Il conformismo è un male oscuro degli intellettuali» scrive, sapendo con ciò di non far torto a nessuno degli “eretici” che compaiono all’interno delle 160 pagine del suo libro.
Perché? perché l’eresia è avversa al pentitismo (di cui il conformismo è anticamera), come la musica lo è al silenzio o la montagna alla pianura. Perché i fascisti eretici issarono i vessilli di un super-fascismo che solo di rado sarebbe tornato “indietro”. «Le eresie volevano più fascismo», scrive Grisi, «più rivoluzione, più cambiamenti, più passione»; e perché scopo delle venticinque biografie compilate dall’autore è evidenziare l’importanza dei vissuti – “speciali” oltreché inimitabili – all’interno di quella grande avventura che fu la storia del fascismo e del suo capo indiscusso Benito Mussolini. Che è sempre protagonista, fino alla fine, e non solo delle poche pagine che l’autore dedica a lui quasi in conclusione.
Scorrendo i nomi in ordine alfabetico da Filippo Anfuso a Luigi Volpicelli (con due appendici Mussolini e Augusto del Noce), ci si accorge di due particolari. Una grossa fetta della storia d’Italia è passata dalle biografie di Grisi, e (seconda nota), codeste vite si intrecciano ripetutamente richiamandosi a vicenda, l’una all’altra, come si trattasse di nodi fondamentali delle vicende intellettuali italiane. Perfino un uomo come Julius Evola (che alcuni studiosi definiscono ancora un “isolato”), ebbe per esempio, negli anni Venti, un rapporto epistolare con pedine fondamentali del regime come Giovanni Gentile – ed essendosi formato nei primi anni del Novecento si considerò per certi versi “allevo” di Papini e per forza di cose di Marinetti, anche se alla lontana.
Cominciamo, tuttavia, dal “numero uno”, dal duce allora, che fu scrittore di non poca importanza (efficacissimo giornalista), dotato com’era di uno stile molto personale sempre alla ricerca dell’aggettivo giusto, per raccontarla tutta e fino in fondo, la storia del proprio Paese.
Il duce con le eresie ci andava a nozze (da socialista a interventista a fascista, tutto in poche mosse); è difficile capire però se il capo dei capi amasse anche la libertà – ai limiti della mossa infedele – di chi gli sedette a fianco per anni, come per esempio quella di Giuseppe Bottai, uomo al centro di discussioni e descrizioni sempre nuove. «Le definizioni che sono state date di questo uomo operoso e impegnato sono molte», scrive Grisi. «Tutte (con varianti diverse) convergono [tuttavia] sul fatto che Bottai rappresenta una linea critica nel Fascismo, una coscienza morale che non si ferma nelle formule, una intelligenza che mira a collegare attraverso la cultura il paese reale con il paese legale». Giuseppe Bottai è il fascista «che crede nella libertà e che, in modo attento la esercita con il consenso di Benito Mussolini e di buona parte degli intellettuali e della stampa del tempo». È un gerarca che con la cultura ci va a nozze; ci crede a tal punto da farsene attento organizzatore con le riviste “Critica fascista” e “Primato”, due quindicinali sufficientemente noti – a fascisti e antifascisti e soprattutto il secondo – per ragioni che una manciata d’anni fa Mirella Serri spiegò in 370 pagine. “Critica” esce per un ventennio (1923-1943) e fra l’altro si fa portavoce del dibattito sul corporativismo con discorsi annessi e connessi… “Primato” invece esce per soli tre anni fino al ’43, ed è il “rifugio” degli antifascisti di chiara fama. Per la cultura italiana vista nel suo complesso è un periodico che funge da «luogo di transizione», un ponte gettato fra due periodi diversi per non dire, di fatto, “opposti”.
A Bottai fu vicino fra i molti anche Leo Longanesi, altro eretico e altro inafferrabile “figuro”, geniale tanto nella prima quanto nella seconda parte del secolo breve. Nel 1926 fonda “L’Italiano”, nel ’42 “Omnibus” (primo rotocalco italiano) e nel ’50 “Il Borghese”. E potrebbe bastare così. Buona parte dello stile del giornalismo attuale e non solo di “destra” (inflessibile ed elitario) è di derivazione longanesiana. Montanelli, per dirne uno, è il suo più illustre e “fedele” allievo. Per Grisi Longanesi è «la moralità dell’anarchia che si collega alla libertà». Non è nato vincente ma non è neanche un perdente. «Longanesi appartiene alla schiera degli spavaldi e degli ammazzasette di tutti i tempi. Uno di quei rari uomini che rimangano sempre all’opposizione in tutti i regimi. Scontento di Dio e del mondo. Pronto ad usare la spada in ogni torneo cavalcando un focoso cavallo con lo stesso ardimento dei capitani medioevali».
Ma un altro che di anarchia se ne intendeva era stato Berto Ricci, ennesimo modello cui i “destri” attingono fino ai giorni nostri. «L’anarchia per lui era l’unica cultura e l’indispensabile etica per vivere oltre la cronaca…». Ricci è stato uno dei maestri “spirituali” del nostro Indro che conobbe nella Firenze di Bilenchi, Garrone, Pellizzi e degli altri. Partito volontario per la seconda guerra mondiale non vi farà ritorno svanendo nel Gebel libico, così ha scritto Enrico Nistri, «come i sogni di una generazione». Nella sua creatura “L’Universale” Ricci ebbe a scrivere: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire sulla storia italiana. Contro la filosofia regnante, che fermamente avverseremo non ammettiamo che tutto sia “storia”: storia non è quel che passa, è quel che dura. Ripudiamo l’effimero e ce ne facciamo negatori». Fu un’autentica lezione durata tuttavia poche stagioni (1931-1935).
Altri “versi”, altra biografia, quella di Giuseppe Prezzolini stavolta, il fondatore della “Voce”: la madre di tutte le riviste d’inizio secolo. Prezzolini rimase sempre con inarrivabile dignità a metà fra il rispetto e la critica anche caustica verso la politica del suo tempo. Visse da privilegiato, perché uomo di grande intelligenza. «Testimonia una stagione culturale contro le mode e il conformismo. Richiama la tradizione senza chiudersi in forme di schematismo dogmatico o nelle nostalgie. Prezzolini è un conservatore che rischia sull’avvenire», scrive Grisi.
L’uomo che visse cent’anni, spiegò a tutti noi che si può vivere senza sorbirsi quello spiacevole intruglio che si chiama italianità. Da eretici insomma.
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