Non aveva torto Drieu La Rochelle a scrivere prima di morire che le generazioni future si sarebbero chinate incuriosite sui suoi libri per cogliere un suono diverso da quello solito.
Oggi infatti i giovani si accostano a lui con interesse e con partecipazione perché lo sentono per molti aspetti attuale. Sono passati vent’anni dal suo suicidio; il fascismo appare alla nostra generazione, che aveva otto anni nel 1945, un’immagine nebbiosa, colta sui libri, nelle architetture delle città, nei racconti dei padri o dei fratelli più anziani. Appartiene già alla storia; come Drieu d’altronde che è entrato, dopo un lungo periodo d’anticamera, nella letteratura francese del Novecento. Eppure, leggendo i suoi scritti politici, ci accorgiamo che sono ancora vivi, legati alla nostra realtà, colmi di interrogativi, di speranze e di delusioni.
Il motivo è che Drieu non era solo un intellettuale fascista, come qualcuno ha voluto etichettarlo un po’ troppo semplicisticamente. È stato uno scrittore che ha creduto di trovare una risposta alle sue domande e alle sue speranze nel fascismo o, meglio, in una certa immagine del fascismo che si era creata. Se non si tiene conto di ciò, si rischia di non capire la sua analisi critica e lucida dei regimi di Mussolini e di Hitler e l’atteggiamento anticonformista che gli attirò le antipatie sia delle destre che delle sinistre.
Il suo fascismo, malgrado le profonde differenze storiche, affondava le radici in un humus ideologico simile a quello italiano; era infatti erede di quel filone politico di fine ottocento e dei primi anni del Novecento che con Drumont, Barrès, Péguy e Sorel aveva cercato di superare le antinomie «destra-sinistra», «conservazione-rivoluzione» in una visione sintetica e originale.
Ma l’adesione di Drieu a questa dottrina nasceva da motivazioni ancora più profonde: «Sono diventato fascista – scrisse prima di morire – perché ho misurato i progressi della decadenza. Ho visto nel fascismo il solo mezzo per frenare e arrestare questa decadenza».
Il nocciolod el suo pensiero è tutto qui. Basterebbe d’altronde leggere qualche suo romanzo per cogliere questo sentimento della decadenza vissuto e sentito in tutta la sua tragicità. Gilles e Drieu non sono due personaggi distinti, uno di fantasia e l’altro di carne, ma un unico uomo che a tentoni, cadendo, rialzandosi, vuole sfuggire a una civiltà sfatta e priva di vigore, cerca una via personale di salvezza e alla fine crede di trovarla in una morte tragica e cosciente.
Ma dove coglieva Drieu questa decadenza? Nella bruttezza della controciviltà contemporanea, delle sue case, delle fabbriche, degli abiti, nel grigiore e nell’inumanità delle metropoli, nella spersonalizzazione progressiva degli uomini, nella morte del vero amore e nel moltiplicarsi dei vizi più sordidi, quali l’inversione e l’onanismo. Infine nell’impotenza spirituale, nell’incapacità di creare.
Dinanzi alle architetture e alle pitture medioevali Drieu percepiva invece il senso di una vita umana, sentiva l’equilibrio fra corpo ed anima, vedeva nella forza severa delle chiese gotiche, nello splendore delle sculture, nei colori degli affreschi l’espressione di un mondo in comunione con la natura e con l’universo.
Il dramma di Drieu era contenuto in questa semplice interrogazione: come frenare e arrestare la decadenza?
La risposta nacque a poco a poco, durante quindici anni di ricerca di fronte ai nazionalismi suicidi delle nazioni europee e alle contrapposizioni astratte fra socialisti e conservatori. Drieu capiva che quelle ideologie erano vere solo parzialmente, che non coglievano il dramma della nostra epoca. Era attirato da un lato dalle istanze di giustizia della sinistra e dall’altro dal richiamo all’ordine e alle tradizioni della destra. Sentiva che tutti i vecchi valori erano caduti, che bisognava ricostruire sulle rovine.
Il moto di rinascita doveva nascere, secondo lui, da un’Europa unita, in cui le nazioni trovassero una concordia spirituale e politica capace di ridare forza al vecchoi continente dilaniato da guerre e da rivoluzioni. L’unità significava forza e indipendenza di fronte ai nuovi colossi che stavano sorgendo in America e in Asia. Era una necessità vitale, la condizione necessaria per respirare, per avere la possibilità di ricominciare. Senza l’unità l’Europa sarebbe stata sommersa dai barbari. Per questa ragione Drieu giunse ad accettare, illudendosi, la collaborazione con i tedeschi invasori: era, a parer suo, l’ultima occasione per l’Europa.
Ma l’unità sarebbe stata una parola vana e senza senso se non fosse stata sostenuta da una tensione spirituale, da una lotta contro la decadenza, contro la follia del mito della produzione e del consumo, contro la speculazione senza freno. Era necessario insomma un ritorno all’ordine, a una dimensione umana della civiltà industriale, a un’armonia fra l’uomo e la macchina.
Drieu pensò che lo strumento adatto a realizzare tutto ciò fosse il socialismo, anzi il socialismo fascista. Ma – è bene sottolinearlo a scanso di equivoci – il suo socialismo non aveva niente a che fare con quello marxista. Lui stesso specificò in un brano famoso: «Il fascismo è un socialismo riformista… Sia a Roma che a Berlino si sta risvegliando il socialismo non marxista…». Drieu pensava a Proudhon, a Sorel, al Marraus del primo anteguerra, e nello stesso tempo guardava più in là, alla meditazione storica di Nietzsche. Il socialismo di Drieu significava controllo dell’economia, tensione morale e religiosa, ricostituzione di un’élite in senso qualitativo, rispetto dell’uomo e della sua misura più autentica; non conosceva né il mito del Progresso, né quello dell’Utopia della società senza classi, né quello della collettivizzazione dei mezzi di produzione.
A questa concezione egli rimase fedele tutta la vita, cercando di realizzarla nel suo sogno fascista, restando affascinato per un certo tempo dal totalitarismo tedesco, ma ben presto consapevole dell’errore tragico in cui era caduto.
Sui tre temi della decadenza, dell’Europa e del socialismo è modulata tutta la meditazione di Drieu, i saggi politici, gli articoli e i romanzi. Le sue scelte furono fatte in funzione di queste tre linee direttive: l’adesione al fascismo, il suo disperato engagement, che per dieci anni, sino alla morte, lo portò ad essere in prima linea sul piano culturale, nasceva da tali esigenze. Le quali oggi, al di là delle scelte contingenti, ci paiono estremamente attuali, vive, parlano a noi giovani in tutta la loro drammaticità.
Infatti nessuno dei problemi posti da Drieu è stato risolto; trent’anni di storia, una guerra sanguinosa, rivoluzioni, restaurazioni democratiche non hanno cambiato nulla. L’Europa non esiste ancora, le dispute nazionali continuano in nome di ideologie astratte; la contrapposizione «capitalismo-socialismo marxista» lacera ancora molti nostri paesi; il meccanismo della produzione non è stato né limitato né regolato, anzi ha moltiplicato i suoi ingranaggi senza ordine, senza alcuna cura per la persona umana.
Molti intellettuali stanno scoprendo oggi questa alienazione spirituale della civiltà moderna, di cui aveva parlato lo scrittore francese; i giovani più avvertiti vivono in uno stato di insoddisfazione spesso inconsapevole, rifiutano l’inserimento, oppure si perdono in ribellioni velleitarie incapaci di liberarli. Drieu parla a tutti costoro; la sua interrogazione appassionata, colma di dolore e di speranza, di generosità e di virilità, risuona estremamente attuale. È un grido simle a quelli di Bernanos, di Saint-Exupéry, di Céline, uomini provenienti da schieramenti politici diversi, ma accomunati da una sola e fondamentale preoccupazione: rendere all’uomo una dimensione umana. Il fascismo degli uni e l’antifascismo degli altri non ci interessa in questa sede, non si tocca: si tratta di una scelta contingente, passionale, legata a un dato periodo. Ciò che interessa a noi è la concezione della vita che ha diretto questi uomini, i quali hanno combattuto da una parte e dall’altra della barricata.
Quanto a Drieu, il suo errore fu di credere che il nazismo tedesco fosse capace di superare il nazionalismo, di porsi su un piano europeo, di creare una nuova civiltà. Sottovalutò i pericoli del totalitarismo che lui scambiava erroneamente con il concetto di una società organica e unitaria, molto diversa da quella che Hitler voleva costruire. Credette per un certo periodo di tempo che alcuni intellettuali tedeschi, come Otto Abetz o Ernst Jünger ad esempio, rappresentassero la parte più autentica del regime tedesco.
Ma, a differenza di molti altri, volle pagare sino in fondo, dimostrare che anche oggi le parole possono essere scritte «con il sangue e non solo con l’inchiostro». Sarebbe stato facile per lui fuggire in Svizzera, starsene tranquillo, ritornare in patria dopo qualche anno. No. Sarebbe stato troppo facile, troppo moderno. Drieu, che aveva predicato per tutta la vita il senso di responsabilità e la necessità di un impegno personale, non poteva fuggire.
«Ho perduto, esigo la morte», sono le ultime parole vergate nervosamente su un pezzo di carta prima di suicidarsi.
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(Il presente scritto costituisce la Prefazione a Pierre Drieu La Rochelle, Socialismo, Fascismo, Europa. Scritti politici scelti e presentati da Jean Mabire, Volpe, Roma 1964, pp. 15-19).
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robo d'elia
ho scoperto da poco l'esistenza di la rochelle e di celine,grazie alla inconsistenza dei nostri percorsi formativi,e ne sono veramente colpito.penso che la sua attualita' sia notevolissima,e mi auguro che sia sempre piu' conosciuto-grazie
Ivan
Un autore che invita a ripensare seriamente la matrice prima e più profonda dell'identità culturale dell'Europa e la sua componente cristiana.
http://sites.google.com/site/ultimacrociata/europ…