Dervisci: i danzatori di Dio

L’Islam, come pressoché ogni altra Religione, non forma, nelle sue pratiche concrete, un corpus unitario ma, anche al di là della separazione basilare e dogmatica tra Sunniti e Sciti, si frammenta in numerose correnti interpretative.

Una sorta di divisione trasversale che percorre gran parte delle scuole di pensiero riguarda, comunque, l’atavica frattura tra un sistema religioso essoterico e “popolare” ed un sistema religioso più profondo ed esoterico, che predilige una visione mistica del rapporto con Dio.

Quest’ultimo sistema, in fondo non dissimile alla Cabala ebraica così come espressa nello Zohar o a certe forme di spiritualità cristiana, prende nell’Islam il nome di sufismo.

Gli studiosi del periodo classico definiscono tale corrente come “una scienza il cui obiettivo è la conversione del cuore e l’allontanamento da tutto l’esistente, fuorché Dio[1], ma forse una delle massime esaltazioni di questa forma di pensiero teologico si ha con la definizione del grande maestro sufi Darqawi Ahmad ibn Ajiba che ha spiegato il sufismo come “una scienza attraverso la quale si può sapere come viaggiare in presenza del Divino, come purificare il proprio sé interiore da ogni lordura e come abbellirlo con una varietà di caratteristiche degne di lode.”[2]

Di per sé, neppure il Sufismo può essere considerato una pratica spirituale unitaria ma alcuni tratti fanno da minimo comun denominatore a tutte le varianti del pensiero sufi, sorto storicamente come una reazione sia scita che sunnita (sebbene la maggior parte dei Sufi si rifaccia alla concezione mussulmana legata a Alì) contro la mondanità del primo califfato omayyade (661-750 d.C.). I principali di tali tratti sono certamente il “dhikr” (cioè la costante memoria di Dio nella propria vita) e l’ascesi, vista come allontanamento da tutto ciò che appare superfluo e mondano per ottenere una totale immersione nel divino (non a caso il termine “Sufi” viene dall’arabo “ṣafā”, cioè “purezza”).

Semplificando e generalizzando i termini della questione, possiamo dire che, mentre tutti i Musulmani credono di essere alla ricerca di Dio e che gli saranno vicini in Paradiso, dopo la morte e la “sentenza definitiva”, i Sufi credono che sia possibile avvicinarsi a Dio e, anzi, arrivare ad abbracciare pienamente il Divino in questa vita, cosicché lo scopo principale di tutti i credenti è quello di cercare il piacere di Dio, lavorando per ripristinare nel loro animo lo stato primordiale di “fitra” (l’essere entità completamente imbevuta di amore divino) attraverso una costante purificazione del sé inferiore che porti ad una reale conoscenza esoterica di Dio.

Tale lavoro deve essere effettuato attraverso un rispetto totale della legge esteriore (più o meno corrispondente alla “Sharia”) e della legge interiore del singolo, le cui basi devono essere le regole sul pentimento dal peccato, lo spurgo delle qualità spregevoli e di ogni tratto negativo del carattere e l’assunzione di ogni virtù[3], in un processo che dura tutta la vita e che deve essere forzatamente compiuto in totale umiltà e servendo, in una successione ininterrotta (“silsilah”) che riporta l’origine sufismo a Maometto, un maestro spirituale che abbia ricevuto l’autorizzazione all’insegnamento (“Ijazah”). Come conseguenza dell’esistenza di diversi maestri, molti Ordini sufi esistono oggi in tutto il mondo musulmano e, addirittura, in una visione (non universalmente condivisa) del Sufismo unicamente come ricerca dell’amore di Dio all’interno del cuore umano, alcuni Sufi (soprattutto in “occidente”), fanno parte di altre Religioni o di nessuna Religione formale.

Tra le varie scuole, certamente quella che ha ottenuto, sia per la profondità del suo pensiero che, più probabilmente, per la particolarità della sua ritualità, una maggiore visibilità è, indubbiamente quella che viene impropriamente definita dei “Dervisci”.

In realtà, il termine “Dervish” significa solamente “colui che apre le porte” e sta ad indicare, piuttosto genericamente, chiunque ricerchi l’illuminazione attraverso l’esperienza della totale povertà fisica (della quale, a differenza dei Mullah, si fa voto) e semplicità spirituale (ad esempio, San Francesco, in ottica arabo-persiana, sarebbe stato un perfetto Derviscio), mentre coloro che normalmente vengono chiamati “Dervisci” (o “Dervisci rotanti”) tecnicamente dovrebbero essere denominati “Mevlevi”, dal nome del loro fondatore Mevlana Celaleddin-i Rumi, uno dei maggiori maestri sufi di ogni tempo.

Nato il 30 settembre 1207 nella odierna Balkh, in Afghanistan, da una famiglia di dotti teologi, per sfuggire all’invasione mongola Rumi, con la sua famiglia viaggiò in molti Paesi mussulmani e, dopo aver eseguito il pellegrinaggio obbligatorio alla Mecca, si stabilì, infine, a Konya, in Anatolia, allora parte dell’Impero di Selgiuchidi, dove nel 1231, successe al padre come professore di scienze religiose all’età di soli ventiquattro anni. Dopo aver insegnato i suoi principi, basati sull’amore e la fratellanza universale, per oltre quarant’anni, Rumi morì il 17 dicembre 1273 e fu sepolto in uno splendido santuario che rimane il maggior centro liturgico della corrente da lui fondata.

Secondo il suo pensiero, il centro della Fede è il precetto “Sii un amante, un amante. Scegli l’amore per essere uno degli scelti[4], che sta a significare la necessità del singolo di amare Dio e gli uomini a livello tale da offrire completamente se stessi all’umanità e da diventare inesistenti in Dio, da sciogliersi in Lui cosicché egli muova ogni minima particella del fedele. Solo in questo modo quest’ultimo avrà l’intero universo al suo comando, perché ogni cosa sarà già dentro di lui, in un processo possibile per tutti, a prescindere da religione, razza o cultura (tra le massime di Rumi è possibile trovare: “Vieni, vieni ancora una volta, chiunque tu sia, vieni! Pagano, idolatra o adoratore del fuoco, vieni! Vieni anche se hai rotto la penitenza un centinaio di volte, La nostra è la porta della speranza, vieni così come sei[5]).

Alla morte del maestro, i seguaci e, in particolare, suo figlio Sultan Veled Çelebi fondarono un Ordine sufi basato sulla sua predicazione a Konya, da dove si diffuse gradualmente in tutto l’Impero Ottomano e nelle comunità turche di tutto il mondo.

Già qualche anno dopo, quello mevlevi era un Ordine ben radicato nel panorama sufi ottomano, con molti dei membri che servivano in varie posizioni ufficiali del Califfato, una diffusione notevole nel Balcani, in Siria e in Egitto e una produzione artistica che, con nomi come quelli di Sheikh Ghalib, Ismail Ankaravi e Abdullah Sari, è, in campo letterario e musicale, tra più alte della storia turca.

Proprio la musica ha un ruolo fondamentale nella liturgia mevlevi, come appare evidente soprattutto nella più conosciuta delle funzioni “dervisce”, la cosiddetta “Cerimonia Turbinante”, in cui ogni elemento, ogni gesto è simbolo di qualcosa di spiritualmente superiore e merita di essere analizzato.

Ogni cerimonia o “Sema”, inizia con una lunga performance musicale legata ad un particolare repertorio, chiamato “ayin”, basato su quattro sezioni di composizioni vocali e strumentali con cicli ritmici contrastanti eseguite da almeno un cantante, un suonatore di flauto (neyzen), un timpanista e un suonatore di cimbali: le composizioni musicali più antiche in nostro possesso sono state composte dalla metà del sedicesimo secolo e uniscono le tradizioni musicali persiane e turche, ma il repertorio è stato costantemente ampliato, e, dall’inizio del XX secolo, molti brani sono stati anche trascritti (prima esisteva unicamente una tradizione di apprendimento orale).

Dopo l’esecuzione di alcuni brani dell’”ayin” il “Sema” vero è proprio ha inizio con l’entrata nella sala della funzione dei danzatori. Ognuno di essi deve aver ricevuto  1.001 giorni di formazione solitaria all’interno del “mevlevihane”, una sorta di convento in cui ha appreso l’etica, i codici di comportamento e le basi della Fede, vivendo una pratica di preghiera, musica religiosa, poesia e danza, per poi tornare alla vita civile divenendo ponte tra spiritualità e materialità.

Solo dopo aver digiunato e meditato per molte ore il danzatore può partecipare al rito, che si compone di sette parti distinte.

1)      Il Mevlevi con il suo cappello conico color terra (che rappresenta la lapide del suo ego) e la sua lunga gonna bianca (il sudario del suo ego) si toglie il mantello nero a dimostrazione di essere spiritualmente rinato per la luce, la verità e la conoscenza. Le sue braccia sono incrociate sul petto e, in questo modo, tutto il suo corpo rappresenta in numero uno, a testimonianza dell’unità divina. In questo stato, si inginocchia e recita un elogio (“Nat-I Serif”) per il Profeta, che rappresenta l’amore e tutti i profeti prima di lui, e, in sintesi ultima, in questo modo loda Dio, creatore di tutti.

2)      Il suonatore di timpano dà inizio al “Be”, un assolo fortemente ritmato che rappresenta la creazione da parte di Dio.

3)      Il suonatore di flauto (“ney”) comincia una improvvisazione strumentale, il  “Taksim”, che simboleggia il primo respiro che dà vita a tutto, il soffio divino che infonde l’anima negli esseri viventi.

4)      Ogni danzatore, lungo un percorso circolare, con l’accompagnamento di una musica chiamata “peshrev”, saluta i suoi compagni per tre volte nel “Devr-i Veled”, rappresentazione del saluto di ogni anima ad ogni altra anima nascosta da forme corporali.

5)      Si arriva così al cuore della ritualità, con il danzatore che inizia a ruotare sul piede sinistro (come rappresentazione formale di se stesso che ruota intorno al proprio cuore), con le braccia aperte, la mano destra rivolta verso il cielo pronto a ricevere i doni di Dio e la mano sinistra rivolta verso terra per trasmettere tali doni spirituali a popolo, in una sorta di abbraccio che comprende tutta l’umanità e che nulla lascia al mevlevi che ruota con gli occhi semiaperti, entrando in una sorta di trance mistica. Sul significato della rotazione sono state scritte migliaia di pagine ma particolarmente interessante è l’interpretazione del pronipote di Rumi, Celaleddin Bakir Celebi, che ha scritto: “Da un punto di vista scientifico siamo testimoni che la scienza contemporanea conferma definitivamente che la condizione fondamentale della nostra esistenza è quello di ruotare. Non vi è alcun oggetto, nessuna entità che non giri e ciò che accomuna tutti gli esseri è la rivoluzione di elettroni, protoni e neutroni negli atomi che costituiscono la struttura di ciascuno di essi. Come conseguenza di ciò, tutto ruota e l’uomo esercita la sua vita, la sua stessa esistenza, per mezzo della rivoluzione negli atomi, pietre strutturali del suo corpo, della rivoluzione del suo sangue, del ciclo di nascita dalla terra e del ritorno a essa, del suo ruotare con la terra stessa. Tuttavia, tutte queste sono rivoluzioni naturali, inconsce. Ma l’uomo è il possessore di una mente ed è l’intelligenza che lo distingue da e lo rende superiore agli altri esseri. Così il Semazen [il Mevlevi che ruota] provoca la mente a partecipare al minimo comun denominatore che lo accomuna agli altri essere, alla rivoluzione … In un altro senso, la cerimonia del Sema rappresenta un viaggio mistico di ascesa spirituale dell’uomo attraverso la mente e l’amore per il “Perfetto” [Dio]. Volgendosi verso la verità, si ha una crescita attraverso l’amore, un abbandono dell’ego singolo e un raggiungimento del “Perfetto” per poi tornare da questo viaggio spirituale come un uomo che ha raggiunto la maturità e un grado di perfezione maggiore, in modo da amare e da essere del servizio a tutta la creazione[6]. La rotazione ha quattro momenti d’interruzione, detti “i quattro Saluti” o “Selam”: il primo saluto rappresenta la nascita dell’uomo alla verità del sentire e del pensare, la sua completa comprensione dell’esistenza di Dio come Creatore e del proprio stato di creatura; il secondo saluto esprime il rapimento dell’uomo che può testimoniare lo splendore della creazione di fronte alla grandezza e all’onnipotenza di Dio; il terzo saluto è la trasformazione del rapimento in amore e quindi il sacrificio per spirito di amore, in uno stato di completa sottomissione che non è l’annientamento di se stessi, ma la fusione con l’oggetto d’amore attraverso la perdita del pensiero cosciente e il suo riottenimento (proprio tramite i “saluti”) in uno stato di “nuova coscienza”; infine, il quarto saluto rappresenta la condivisione dell’esperienza del Profeta che è salito fino al “Trono di Dio” per poi tornare alla sua missione sulla terra imbevuto della Grazia, in uno stato di santità estrema detto “Fenafillah”.

6)      Dopo i quattro cicli di rotazione, il Sema si conclude con una lettura del Corano e specialmente dei versi della Sura 2:15 (“a Dio appartiene l’Oriente e l’Occidente e ovunque vi giriate siete di fronte a Lui. Egli è immenso, onnisciente”) del Corano.

7)      Infine, l’intera cerimonia si conclude con una preghiera per il riposo delle anime di tutti i Profeti e tutti i credenti e l’uscita di danzatori e musicisti[7].

Questa enorme ricchezza simbolico-religiosa ha rischiato di andare completamente perduta dopo la rivoluzione di Kemal Ataturk e l’instaurazione della politica repubblicana di secolarizzazione: nel 1925 tutte le “mevlevihane” (le sale in cui il rito ha luogo) sono state chiuse e la cerimonia è stata proibita. Fortunatamente alcuni Mevlevi, soprattutto nell’area di Konya hanno continuato a insegnare e a tenere le proprie celebrazioni in segreto, fino a che, nel 1950, il governo turco ha consentito che le celebrazioni fossero eseguite annualmente a Konya ogni 17 dicembre, anniversario della morte di Rumi. Dal 1984 sono state rese legali tutte le performance pubbliche e dal 1990, le restrizioni sono state ammorbidite e sono riemersi gruppi privati che cercano di ristabilire la spiritualità originale e il carattere intimo della cerimonia Sema, proclamata nell’ottobre 2005 “Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità” dall’UNESCO.

Note


[1] A. Zarruq, Z. Istrabadi, H. Y.Hanson, The Principles of Sufism, Amal Press 2008, p.8

[2] A.ibn Ajiba, The Autobiography (Fahrasa) of a Moroccan Soufi: Ahmad ibn ‘Ajiba, Fons Vitae 1999, p. 26

[3] M. Emin Er, Laws of the Heart: A Practical Introduction to the Sufi Path, Shifâ Publishers 2008, passim

[4] C.Barks, The Essencial Rumi, Quality Book Club 1998, p.38

[5] C.Barks, Rumi: the Book of Love, HarperOne 2003, p.87

[6] C.B. Celebi, Sema: Human Being in the Universal Movement, Kasseb 2004, pp. 18-19

[7] La descrizione delle parti del Sema e del loro significato è tratta da S. Friedlander, A. Schimmel, S.H. Nasr, Rumi and the Whirling Dervishes: Being an account of the Sufi order known as the Mevlevis and its founder the poet and mystic Mevlana Jalalu’ddin Rumi, Archetype 2003, pp. 68-131 passim.

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Nato a Londra nel 1968 ma italiano di adozione, si laurea a 22 anni con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'UCSC di Milano con una tesi sui rapporti tra cultura cabbalistica ebraica e cinematografia espressionista tedesca premiata in Senato dal Presidente Spadolini. Successivamente si occupa di cinema presso l'Istituto di Scienze dello Spettacolo dell'UCSC, pubblicando alcuni saggi ed articoli, si dedica all'insegnamento storico, ottiene un Master in Marketing a pieni voti e si specializza in pubblicità. Dal 2003 si interessa di storia e simbologia religiosa: nel 2006 pubblica Il Graal è dentro di noi, nel 2007 Non per mano d'uomo? e nel 2009 L’anima e la svastica. Nel 2008 ottiene, negli USA, "magna cum laude", un dottorato in Studi Religiosi a cui seguono un master in Studi Biblici e un Ph.D in Storia della Chiesa, con pubblicazione universitaria della tesi dottorale dal titolo Nicea: what it was, what it was not (2009). Collabora con riviste cartacee e telematiche (Hera, InStoria, Archeomedia) e portali tematici, è curatore della rubrica "BarBar" su www.storiamedievale.org e della rubrica "Viaggiatori del Sacro” su www.edicolaweb.net. Sito internet: http://www.lawrence.altervista.org.

  1. alberto
    | Rispondi

    Me piaxe sto "sufi" e me piaxe la dansa mestega e sagra de li "dervisi" .

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