Antropologia e parapsicologia nel pensiero di un inclassificabile
Ernesto De Martino è stato uno dei pensatori più stimolanti del Novecento, la cui opera risulta difficilmente classificabile nelle rigidità ideologiche degli “ismi” che hanno dominato la vita culturale nel nostro paese. Di formazione crociana, aderì al fascismo, individuando nel regime la possibilità di coniugare misticamente l’individuo alla comunità. In seguito, si avvicinò al marxismo, mantenendo una libertà di giudizio non comune e sottraendosi al ruolo di intellettuale organico. L’intera produzione demartiniana rivela una curiosità intellettuale onnivora: fu attento al dibattito internazionale e si occupò perfino di tematiche metapsichiche (oggi si direbbe parapsicologiche). A ricordarlo, in una monografia interessante, è uno studioso pugliese, Francesco Clemente, che, in passato, ha dato buona prova di sé occupandosi di Jaspers, Kant e Bruno. Si tratta de L’insolito ingestibile. Riflessioni su metapsichica, presenza e ipotesi apocalittiche in Ernesto De Martino, da poco edito da Limina Mentis (euro 21,00).
L’intento dell’autore è mostrare l’unicità demartiniana nel panorama antropologico italiano. Lo studioso napoletano non è facilmente inquadrabile né nella scuola diacronica, mirante a rilevare le leggi di sviluppo della società, né in quella sincronica, indirizzata a interpretare le costanti di sistema. Forse, più prossima alla sensibilità del nostro, risulta la modalità di ricerca inaugurata da James Frazer e proseguita da Levy-Bruhl, che ha posto l’accento sul carattere pre-logico della mentalità primitiva. Al fine di avere acconcio accesso al mondo magico dell’etnologo, è bene tener a mente che De Martino fu indotto alla ricerca sul campo, dalla sollecitazione intellettuale ricevuta da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, testo semplicisticamente ridotto a manifesto dell’antifascismo, in realtà centrato sulla presentazione-recupero del nostro mezzogiorno arcaico e magico. Clemente, in modo pionieristico, getta lo sguardo su un aspetto trascurato degli interessi dell’etnografo: ricorda al lettore, con ampia documentazione, come questi si sia occupato di fenomeni metapsichici e come tale interesse fosse implicato nell’oggetto delle sue indagini, il “lato oscuro dell’anima”. De Martino aderì ufficialmente alla Società Italiana di Metapsichica, fondata nel 1937, chiedendo all’Einaudi di inaugurare una collana relativa alla fenomenologia parapsicologica. Non è casuale che nel medesimo periodo fosse in contatto con Vittorio Macchioro, “notoriamente dedito a quel tipo di investigazione” (p. 13).
Nel 1942 De Martino scrisse Lineamenti di etnometapsichica e Di alcune condizioni delle sedute metapsichiche nella luce del magismo sciamanico. In queste pagine, adottando una prospettiva eziologica, tentò di superare l’integralismo positivista, quanto il fanatismo medianico, alla luce dei quali, allora, erano letti i fenomeni in questione. Clemente viene a ricordarci, alla luce dello scambio epistolare intrattenuto dall’etnologo con Enrico Bozzano, come lo studioso tenesse ad esplicitare le sue conoscenze in ambito metapsichico. Nell’economia dell’iter demartiniano, tali posizioni assumono valore rilevante, in quanto propedeutiche alle tesi espresse in Mondo magico. Qui il pensatore sostenne che “La scienza è nata ritirando gradualmente e in modo sempre più consapevole la psichicità dalla naturalità[…]la paranormalità è, in generale, di nuovo psichicità che torna alla natura, e natura che si carica di psichicità” (p. 25). Si spiega, in tal modo, l’insufficienza del metodo scientifico sperimentale a comprendere la fenomenologia metapsichica, nonostante i tentativi messi in campo da esimi scienziati. Siffatta fenomenologia ha a che fare con l’insolito, ingestibile dall’approccio quantitativo messo in campo dalla scienza galileiana.
La crucialità dell’antropologia di De Martino è da rintracciarsi, in prima istanza, nell’ambito epistemologico. Egli comprese la necessità non rinviabile di un approccio interdisciplinare a tali fenomeni, fondato su presupposti umanistico-esistenziali, così come colto da Corrado Piancastelli. Si tratta di “uno storicismo di frontiera che squarcia una prospettiva complessa sulle manifestazioni spirituali dell’uomo” (p. 44). Tale sguardo deve indurre la problematizzazione della realtà. In tale contesto, ruolo di rilevo è svolto, come con vasta argomentazione sostiene Clemente, dalla discussione della “presenza”, dell’Esser-ci dell’uomo. I termini utilizzati dicono della prossimità delle tesi demartiniane a quelle esistenzialiste. Si badi, l’etnologo, discute l’angoscia heideggeriana, soprattutto nell’opera postuma, La fine del mondo, rifiutandone il tratto negativo-contemplativo. Egli fa propria, invece, la prospettiva “positiva” della filosofia dell’esistenza italiana, nella lezione di Abbagnano. In essa, il fondamento trascendentale dell’esistere diviene il “dover essere per il valore” (p. 59). De Martino traduce l’intenzione speculativa dell’esistenzialismo positivo, in ethos del trascendimento. Esso si manifestò nelle società rurali pre-moderne, connotandosi quale efficace risposta alla crisi sempre incombente sulla precaria condizione umana e dando luogo alla risposta magica. Questa “è di per sé eccedente perché è attiva fuori dall’ordinario, attiva in un’istanza riparatrice” (p. 47), di cui si rende protagonista lo sciamano. Il medecine-man, dopo aver assunto la dimensione della lacerazione e del dolore, andando oltre se stesso, si mette a disposizione della comunità.
Mito e rito concorrono alla rielaborazione culturale del rischio indotto dall’irrompere della crisi, ripristinando l’unità pregressa. Il mago attiva in sé e nei rapporti inter-soggettivi la spinta eroico-erotica, “si tratta della capacità di resistere non in modo passivo bensì attivo alle avversità”: la resilienza (p. 80). Esemplare in tal senso, il tarantismo che non si lascia ridurre alle semplificazioni psichiatriche e tossicologiche, il cui perimetro immateriale di esorcismo coreutico-musicale può risolvere il conflitto di cui è vittima la protagonista. Nello stesso contesto, De Martino inquadra il pianto rituale: strategia di difesa estrema di fronte all’irrompere della morte. Clemente rileva, con persuasività d’accenti, il tratto europeo del pensiero di De Martino, cogliendone assonanze con pensatori quali Spengler e Jünger. Il domino della Tecnica, inoltre, nella contemporaneità ha indebolito le possibilità di resilienza degli uomini, delegando le loro sorti al nuovo Dio che tutto domina. Questo rischio induce Clemente a riflettere sul ritorno del sacro e a proporre una lettura del miracolo cristico “quale apripista verso le profondità del divino” (pp. 135-136). Pur apprezzando lo sforzo dell’autore, dissentiamo da tale conclusione. La trascendenza cristiana è essa stessa, proprio come la Tecnica di cui è originario paradigma, affidamento dell’uomo ad altro. E’ momento del Santo, non del Sacro.
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