Propongo alcuni commenti al ben noto passo di Tacito, a ciò indotto dalla singolarità del testo, sia o non sia esso realmente originale; ipotesi quest’ultima principalmente sostenuta da uno studioso inglese del secolo scorso, dubbioso addirittura della paternità di Tacito sull’intera opera, da attribuirsi secondo lui alla penna furbesca dell’umanista Poggio Bracciolini; il quale avrebbe simulato la scoperta per motivi di denaro. Tesi rigettata dalla maggioranza degli studiosi.
Quel testo è in ogni caso importante e stimolante, qualora non lo si consideri con distacco e sufficienza, come in effetti di solito accade, per la sua drastica liquidazione del Cristianesimo. La prima cosa curiosa, a proposito della quale peraltro non ho trovato riscontro in altri autori, il che mi fa un po’ dubitare della fondatezza del rilievo, mi sembra comunque l’osservazione che Tacito parla dei Cristiani al passato, non al presente; come se ai suoi tempi non ce ne fosse più, spariti dalla circolazione, una fattispecie estinta: “quos …vulgus Christianos appellabat”.
Egli ricorda inoltre che quella “esiziale superstizione”, repressa a suo tempo in Giudea con la condanna di Cristo, era appunto tornata ad affacciarsi a Roma ai tempi di Nerone, quando, accusata fra l’altro ingiustamente dell’incendio della città, fu perseguitata atrocemente. E anche in questo passaggio la presenza dei Cristiani è datata, relegata a quell’episodio, come se ormai essi non costituissero più un problema attuale e sentito, all’epoca nella quale Tacito scriveva, cioè a cavallo fra il primo e il secondo secolo. Ben diverso era stato invece l’impatto di quella presenza ai tempi del famigerato incendio, nell’anno 64 dell’era cristiana, cioè solo trent’anni dopo la morte di Gesù. Al qual proposito è davvero stupefacente che a Roma i Cristiani fossero già tanto visibili da meritare una persecuzione. Paolo doveva trovarsi in città da non più di due o tre anni…
Eppure Tacito parla di “multitudo ingens”.
Così stando le cose è lecito supporre che la diffusione del Cristianesimo agli inizi sia stato un fenomeno molto più incalzante di quanto di solito si immagini, e abbia avuto una dinamica tanto improvvisa quanto incontrollata, e inevitabilmente confusa. Questa prima fase del movimento cristiano non si fa fatica a immaginarla francamente rivoluzionaria, cioè tale da suscitare, con la scusa dell’incendio, una repressione immediata e drastica. Oltre a tutto la problematica cristiana veniva in quel periodo a sovrapporsi, e in parte a confondersi, con la problematica ebraica, a sua volta gestita a fatica, tollerata fra alti e bassi, gravida di incognite, e pronta a sfociare in guerre di distruzione. Ma se il mondo giudaico costituiva una dimensione a se stante, del tutto separata, ecco che i Cristiani sembravano fuoriuscire da quel mondo, per invadere e contaminare in modo intollerabile la società civile. Da qui la percezione dell’evento come rivoluzionario.
Non è tanto la sottigliezza delle idee o i distinguo filosofici, che contano in certi momenti, quanto il modo, col quale gli eventi si manifestano. Quando Tacito parla di nefandezze (flagitia) a carico dei Cristiani, non ha senso scervellarsi per individuare i possibili reati cui pare riferirsi, ma piuttosto cogliere in quella parola tutto il disprezzo di fronte a qualcosa che si presentava anzitutto come eversivo e destabilizzante. Abituati a immaginare nel Cristianesimo dei primi tempi una crescita e una progressività graduale e costante, nel silenzio e fra mille difficoltà, dovremmo invece prender atto di un ben diverso andamento, molto discontinuo, che vide all’inizio un dilagare improvviso e tumultuoso; subito domato.
Le stesse modalità di quella persecuzione neroniana, o meglio sarebbe chiamarla repressione, paiono differenziarla dalle successive. Mentre nel seguito infatti certi aspetti formali verranno comunque tutelati quanto meno mediante l’offerta di una opzione individuale, in questo primo momento non si va affatto per il sottile, e la delazione (indicio) è lo strumento sommariamente adottato.
Tacito si diffonde a questo punto sull’efferatezza del trattamento riservato ai Cristiani, e per quanto abituati da questa e da altre letture a sentirne di tutti i colori sulle punizioni inflitte ai nemici o presunti tali, in questo caso sembra proprio si sia passato il segno. Il risultato lo abbiamo visto: di cristiani al tempo di Tacito non c’era più l’ombra. O meglio, non c’era più l’ombra dei fanatici della prima ondata. Cominciava invece a svilupparsi quel lavoro sotterraneo e intenso di riflessione, selezione, elaborazione, che doveva gradualmente portare il movimento a un livello più consapevole, documentato, organico, nonché più compatibile con la società e la civiltà romana.
Tutti i testi cristiani vedono così la luce a partire dal secondo secolo; perfino le lettere di Paolo sembra siano cominciate a circolare non prima della metà abbondante del secolo.
Nel frattempo lo stato giudaico era stato definitivamente cancellato in un mare di sangue, e agli ebrei poteva tranquillamente essere addossata ogni colpa. Cominciava un lungo periodo di sostanziale tolleranza, in un quadro che includeva tutte le confessioni religiose praticate nell’Impero. Né deve sembrare contraddittorio l’accendersi sporadico di episodi persecutori, molto enfatizzati, ma sostanzialmente determinati dalla necessità di tenere sotto controllo la situazione; non certo dall’intenzione di eliminare quei movimenti, che in verità ebbero tutte le possibilità di svilupparsi e affermarsi. A proposito dell’idea di tolleranza, è comunque da precisare, per chi ritenesse tale nobile virtù intrinseca al carattere e alla civiltà romana, che non è affatto così. Durante tutta l’epoca repubblicana non vi fu alcuna disponibilità o tolleranza, nei confronti delle confessioni e dei riti stranieri. Una traccia del permanere di quei sentimenti repubblicani la ritroviamo proprio nel passo di Cornelio Tacito, certamente nostalgico, quando afferma che: “… per urbem… quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque”.
L’affermarsi e il diffondersi di comportamenti molto tolleranti è concomitante al consolidarsi dell’Impero, con la necessità di gestire una gran quantità di popoli tanto diversi. Confluisce in tale atteggiamento l’onda lunga della globalizzazione ellenistica, che finisce per divenire l’espressione culturale unitaria dell’Impero medesimo. Del resto ogni processo multietnico e policulturale, compreso quello oggi in corso, sembra aspirare a un concetto di tolleranza universale; spesso peraltro solo a parole, non rimanendo affatto esclusa la possibilità, sempre incombente, di atteggiamenti e comportamenti discriminatori e persecutori.
Già, le persecuzioni. Di quelle contro i Cristiani esistono solo memorie cristiane; certamente da ridimensionare. In più di duecento anni solo pochi episodi degni di questo nome; alcuni dei quali relegati in province marginali dell’impero, altri completamente inventati; l’ultimo no, sicuramente grave e tragico, però da collocarsi in un’ottica diversa, quella delle grandi oscillazioni tipiche dei cambiamenti di sistema. Una sorta di resa dei conti, il colpo di coda finale del vecchio mondo prima di cedere le armi; cosa che avvenne subito dopo, con la definitiva conquista cristiana del potere. Dopodiché della tolleranza si perse anche il seme: templi, religioni, tradizioni, culture… in pochi decenni tutto calpestato, abolito, sostituito.
E’ qui che si innesta il punto più delicato del commento al brano di Cornelio Tacito. Quel passaggio di fronte al quale anche il lettore più sereno e distaccato non può fare a meno di trasalire:
“haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt”.
L’accusa ai Cristiani di odio verso il genere umano.
Dice Plinio che in base a quest’accusa troppe persone dovrebbero essere condannate. Ma qui l’accusa viene rivolta a una confessione, che si intuisce devastante, per la stessa irrimediabilità del martirio. Una confessione dalla quale può risultare sconvolta tutta la storia; una storia di valori costruita con infiniti sacrifici, e nella quale uno storico come Tacito non può non vedere incarnata la più alta e matura presa di coscienza fino allora conseguita dall’intero genere umano.
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