Il nuovo saggio di Gianfranco de Turris porta un titolo provocatorio, Come sopravvivere alla modernità (Quaderni terziaria): provocatorio perché, parafrasando Croce, nessuno di noi non può non dirsi “moderno”. Moderno è infatti la traduzione del tardo latino dotto modernum che a sua volta derivava da modum, ovvero “in questo momento”. D’altronde la parola “modernità” è un contenitore così ampio che può comprendere culture e tradizioni diverse se non addirittura opposte. Ma il titolo è facilmente spiegabile alla luce di un saggio di Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, al quale l’autore si riferisce spesso. De Turris è infatti un discepolo di Evola, di cui sta curando l’Opera omnia presso le Edizioni Mediterranee; sicché “moderno”, è sinonimo in questo contesto di una cultura e di una società che sono state plasmate da una visione antitradizionale, ossia contraria a quei principi metastorici e permanenti ai quali si riferiva il filosofo romano. L’atteggiamento di de Turris, che si ispira anche ad altri autori del Novecento, da Mishima a Jünger a Guénon, citati nel suo saggio, invita a un “pessimismo eroico”, cioè a una resistenza individuale che si esprime nella memoria e nella testimonianza di quei principi permanenti.
Ma, ecco la prima obiezione: non tutti quelli che Evola considera principi metastorici sono condivisibili da ogni lettore, per esempio da un cristiano. In secondo luogo non si considera che questa società, se fosse totalmente pervasa da una cultura antitradizionale, si sarebbe già dissolta. In realtà le forze che tentano di plasmarla si scontrano con molte resistenze, con culture che vi si oppongono e che ancora informano vari strati della popolazione mondiale. Chi, come me, non ama proiettare le proprie idee sulla realtà, ma bada a capirla uscendo dalle pareti del suo studio e confrontandosi con gli altri, specie con chi esercita mestieri o professioni diverse dalla mia, sa bene che certi valori non sono facilmente estirpabili, come ad esempio la fede religiosa o l’istituto della famiglia.
Vi è poi un’altra osservazione da fare: ogni epoca, in quanto storica, rivela aspetti positivi e negativi, che possono accentuarsi in alcuni periodi. Tuttavia non si può negare che nella nostra si siano manifestati alcuni aspetti molto inquietanti che hanno spinto alcuni critici addirittura a predire prossime catastrofi. Ricordiamo ad esempio “gli apocalittici” del secolo scorso che predicevano una conflagrazione universale a causa di una possibile guerra nucleare oppure temevano una contaminazione planetaria dovuta alle centrali nucleari. E oggi, nel nostro secolo, siamo di fronte a due altri pericoli: la manipolazione genetica, il tentativo di controllate le coscienze mediante i nuovi mezzi di comunicazione globale e di modellare la società secondo la logica calcolante della tecnologia. Sono pericoli reali che nascono da una cultura, oggi ancora predominante, che potremmo definire riduzionista e strumentalistica. E’ riduzionista perché riduce la realtà soltanto al suo aspetto quantificabile, verificabile con gli strumenti della scienza e della tecnologia moderne, e cerca di plasmare la società secondo quei principi che limitano l’uomo anche materialmente. “All’immenso progresso delle conquiste spaziali” osservava Ernst Jünger a questo proposito, “corrisponde la riduzione progressiva della libertà individuale”. Si potrà obiettare che mai come ultimamente gli occidentali hanno goduto di un’ampia libertà di circolazione, di parola e di professione. Ma è una libertà spesso apparente perché è costretta in regole ferree che non si possono trasgredire, pena la espulsione dall’attività produttiva, pena la morte culturale ottenuta con l’emarginazione di chi non accetta le parole d’ordine di questa cultura che trae la sua linfa dall’illuminismo e dal neopositivismo. E’ infine una cultura strumentalistica perché si basa su una visione secondo la quale ogni individuo deve perseguire in questa vita un unico fine, il maggior benessere bio-psicologico; benessere bio-psicologico che ha il diritto di conquistare anche a scapito degli altri: sicché chi ha introiettato questa cultura considera gli altri suoi strumenti e diventa nello stesso tempo strumento degli altri in una spirale satanica che seppe rappresentare perfettamente il più lucido filosofo illuminista, il marchese de Sade.
A questa cultura occorre opporre non un atteggiamento rinunciatario, non una fuga nell’Arcadia, non un’utopia rovesciata, ma una resistenza cosciente, come ha scritto Gadamer soggiungendo: “Ho fiducia nella forza creatrice della nostra cultura. Il futuro dipende dalle origini”. E Jünger, citato da Gianfranco de Turris nel suo saggio stimolante, raccomandava: “Il Ribelle inoltre è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”.
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Tratto da Il Tempo.
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