Burqa: il rischio della tolleranza

In Italia, come in tutta Europa, vedere per strada donne velate, parzialmente o completamente, sta diventando (o forse è già diventato) un fatto abituale e le reazioni occidentali sono le più diverse, dalla curiosità al fastidio, dall’indifferenza all’intolleranza.

In realtà, però, quello del velo islamico, del burqa, del niqab o dell’hijab (a seconda del grado di copertura) è, innanzitutto, un problema sociale e politico.

Il primo Paese ad averlo dovuto affrontare è stato la Turchia laica di Kemal Atatürk che ha risolto la questione radicalmente, proibendo la copertura del volto e della testa in qualunque università e luogo pubblico[1]. E’ stato giusto?

Moralmente e oggettivamente si sarebbe immediatamente tentati di rispondere negativamente, soprattutto se si ha un minimo di dimestichezza con la cultura araba.

Questo punto necessita di una spiegazione: in occidente circola molto una visione del velo come di una costrizione imposta alla donna da una società religiosamente autoritaria. La realtà è molto diversa: nella stragrande maggioranza dei casi il velo, dal punto di vista religioso, non è affatto una imposizione di qualche Imam o Sceicco, quanto un simbolo di vicinanza a Dio che le donne scelgono liberamente anche in società arabe molto occidentalizzate.

A Gerusalemme Est, nella laica Palestina, ricordo un amico che mi spiegava come, in effetti, portare il niqab potesse persino essere interpretato come un segno di vanità (“Se ritieni di essere particolarmente bella, ti metti il velo perché pensi che altrimenti induci in tentazione gli uomini: è un modo come un’altro per farsi notare“) ma, normalmente, si tratta unicamente di una questione di pudore: nelle società semitiche i capelli hanno una valenza sessuale molto forte e, dunque, una donna si sente psicologicamente indotta a coprirli[2]. Il che rientra nella normale dialettica delle differenze tra culture: non è difficile pensare che una donna europea si sentirebbe piuttosto in imbarazzo nel passeggiare a seno nudo lungo la via principale della sua città, cosa che risulterebbe perfettamente normale, ad esempio, per una india amazzonica, per la quale, così come tramandato all’interno della sua cultura, il seno non ha alcuna valenza erotica ma ha unicamente una funzione strumentale di allattamento dei bambini. Non è un caso che numerose interviste a donne turche riportino di un vero e proprio dolore psicologico da esse provato nel doversi scoprire la testa[3].

In più, si diceva, esiste, per il velo, anche una fortissima componente religiosa che, come in occidente (o in qualsiasi altra parte del mondo), radicalizza ulteriormente le scelte, cosicché, così come per una italiana può essere normale in estate andare in giro con gonne corte e camice senza maniche, ma per entrare in Chiesa si copre, per una donna araba, cioè appartenente ad una Fede per la quale il senso della “pudicizia sacrale” è esteso a qualsiasi luogo esterno alla propria casa, diventa assolutamente normale coprirsi capo e volto in qualsiasi luogo pubblico.

L’argomento che l’indumento non è un obbligo religioso sotto l’Islam, almeno sotto l’Islam primevo della stesura coranica[4], è fondato, ma irrilevante: milioni di Musulmani nel mondo continuano a credere che il velo sia un prescrizione sacra e, certamente,  nessuno Stato e nessuna corte di giustizia può ritenersi qualificato a svolgere attività di esegesi coranica. La scelta di coprire il viso o la testa è e resta per molte donne una espressione genuina della natura più intima del loro sentimento religioso e impedire loro di compiere una pratica religiosa inoffensiva per il prossimo risulta discriminatorio, persecutorio, e incompatibile con la tradizione illuminista dell’Occidente, anche senza tener conto della crudeltà implicita nell’obbligare una donna a rivelare parti del suo corpo che il suo senso del pudore la porta a coprire.

Di per sé, la copertura della testa non è più radicale rispetto a molti altri rituali religiosi che implicano atti simbolici di rinuncia o di disagio quotidiano. Personalmente ho sentito Ebrei (e neppure Chassidim ultraortodossi) descrivere i frutti spirituali del seguire le leggi della “kasherut”[5] più o meno allo stesso modo in cui molte donne arabe parlano della velatura: è scomoda, dicono, e apparentemente arbitrario, ma esige sacrificio quotidiano e un Ebreo che segue le leggi del “cibo kasher” non può mangiare un pasto senza ricordarsi di essere un Ebreo, cosicché il semplice atto di mangiare si eleva al rango di un rito religioso.

Ma tutto ciò viene visto in Europa come un problema. Un recente voto dell’Assemblea nazionale francese ha fatto divieto di indossare in pubblico un burqa che copra anche il volto (per altro già vietato in qualsiasi scuola pubblica dal 2004). Non è che l’ultima di numerose misure di questo genere adottate dai governi di tutta Europa: ad aprile 2010 il Parlamento belga è stato il primo a vietare completamente il burqa in tutto il Paese;  poco dopo, qui da noi in Italia la polizia ha multato una donna per aver indossato un niqab che nascondeva l’intera faccia con la sola eccezione degli occhi appellandosi a una legge del 1975 (cioè del periodo dei passamontagna dei terroristi e dei picchiatori nelle manifestazioni) che vieta la copertura del volto in pubblico; in Gran Bretagna il parlamentare conservatore Philip Hollobone ha chiesto il divieto del burqa nel suo Paese ed è recentissima la sconfitta di misura di chi proponeva una legge analoga nella libertarissima Spagna di Zapatero[6].

Siamo onesti: in realtà questi divieti sono, oggettivamente, veri e propri attentati contro la libertà religiosa e la libertà di espressione e modi per stigmatizzare i Mussulmani. Nessuno stato moderno dovrebbe arrogarsi il diritto di dettar legge riguardo a quello che le donne devono o non devono indossare. E, francamente, anche gli argomenti correlati a questioni di sicurezza sono falsi:  ci sono milioni di modi per nascondere una bomba e nessuno ha bisogno di indossare il burqa per compiere attentati.

Tutto questo è assolutamente  chiaro ed evidente.

Eppure… eppure  è giusto proibire i burqa in occidente!

Anzi, tutte le forme di velo devono essere se non vietate almeno fortemente scoraggiate e stigmatizzate.

Perché?

Perché, se anche i principi sopra esposti sono logici e coerenti, essi sono, allo stesso tempo, superficiali e incapaci di prendere in considerazione alcuni possibili scenari futuri: se l’Europa non prende posizione ora contro velo (e, soprattutto, contro la concezione delle donne e del loro posto nella società che esso rappresenta),  nell’arco di una generazione ci saranno molte città in Europa nelle quali nessuna donna potrà circolare senza velo sentendosi sicura.

Recentemente, sul blog del New York Times, la filosofa Martha Nussbaum non solo ha protestato contro il divieto di velarsi, ma ha proposto che coloro che indossano il burqa debbano essere protetti da “forme sottili di discriminazione”. Ha scritto: “Il mio giudizio sulla Turchia nel passato è stato che il divieto di velarsi fosse giustificato, in quei giorni, da un interesse superiore dello Stato e  derivava dalla convinzione che le donne che andavano in giro senza velo fossero a rischio di violenza fisica a meno che il governo non intervenisse per rendere illegale il velo per tutti. Oggi in Europa la situazione è completamente diversa e nessuna violenza fisica colpirà una donna che indossa anche vestiti succinti[7].

Si tratta di un perfetto esempio di filosofo che, al culmine del suo potere sociale, esprime giudizi che esulano da una corretta contestualizzazione storica e sociale. Soprattutto, si tratta di un perfetto quanto preoccupante esempio di quella “dhimmitudine culturale” che sta sempre più colpendo l’intellettualità occidentale.

Un premessa è d’obbligo: chi scrive ha, in più occasioni, sia in articoli che in libri, sostenuto l’estrema gravità di ogni fenomeno di chiusura culturale, sociale o politica nei confronti del mondo islamico e ha sempre stigmatizzato ogni forma di ingiusto razzismo (di qualunque tipo e colore) in nome dell’apertura mentale, della comprensione dell’alterità e del dialogo. Ma dialogo significa scambio tra due persone (o popoli), non indottrinamento a senso unico o pedissequo servilismo nei confronti di una posizione. Un atteggiamento di questo genere non è più confronto ma, appunto, “dhimmitudine”, cioè atteggiamento da “dhimmi”, da “popoli del Libro” sottomessi politicamente all’Islam dall’alto medioevo in poi e considerati “assoggettati” per così tanto tempo da finire per auto-considerarsi, in una sorta di variante storico-culturale della “sindrome di Stoccolma”, inferiori e intellettualmente dipendenti dai dominatori[8]. Ebbene, sempre più frequentemente, forse anche come reazione all’insorgenza di quei fenomeni di razzismo o paura dell’altro di cui si faceva menzione, la fetta più intellettualmente aperta e preparata della cultura occidentale sta, in molte sue componenti, subendo un fenomeno di dipendenza culturale dall’Islam. Cosa significa? Significa che, in nome di mille ragioni (alcune delle quali, per altro, validissime nel loro assunto di base) che vanno dalle colpe dell’occidente in Medio Oriente alla necessità di sviluppare una mentalità cosmopolita, si tende sempre più a giustificare ogni atteggiamento arabo, a tentare di comprendere ogni atto, per quanto nefando (e in molti frangenti stigmatizzato come tale persino dagli intellettuali islamici), compiuto da mussulmani, addirittura a  dar ragione alle idee più radicali del fondamentalismo, disegnando, a volte, la società coranica come pervasa di spirito egualitario e quasi come edenica (cosa che, come qualsiasi altra società al mondo, non è). Al di là dell’essere un modo di vedere venato a sua volta di razzismo (ogni paternalismo è, in nuce, una forma  uguale e contraria di razzismo), il problema più grave di questo atteggiamento si palesa allorché esso, per auto-alimentarsi, deve arrivare a negare l’evidenza storica e sociale, esattamente come nel caso dell’affermazione della Nussbaum.

Sì, perché, sul piano della realtà fattuale, l’analisi della filosofa americana è chiaramente erronea.

Vi sono già molti quartieri in Europa dove una donna che sia vestita in modo succinto non è al sicuro: nelle banlieu islamiche di Parigi, come splendidamente descritto da Samira Bellil nella sua autobiografia Dans l’Enfer des Tournantes, l’opinione comune è che esistano solo due tipi di ragazze: le brave ragazze rimangono a casa, a tener pulito e a prendersi cura dei loro fratelli e delle loro sorelle, e escono solo per andare a scuola; quelli che hanno il coraggio di truccarsi, di uscire, di fumare in pubblico, presto si guadagnano la reputazione di “facili”, di “prostitute”[9]. Stiamo parlando di situazioni tali per cui, in questi quartieri, i genitori chiedono ai ginecologi di testimoniare per iscritto la verginità delle loro figlie, in cui la poligamia e i matrimoni forzati sono all’ordine del giorno, in cui molte ragazze hanno la proibizione di uscire di casa da sole[10]

Secondo le statistiche governative francesi gli stupri nelle zone di espansione edilizia della capitale sono aumentati tra il 15 e 20% ogni anno dal 1999 e, come conseguenza, in queste aree molte donne  cominciato ad indossare il velo solo per sfuggire a molestie e possibili violenze[11].

Nel sobborgo di La Courneuve, secondo una indagine sociologica del 2009, il 77% delle donne velate afferma di indossare il velo per evitare l’ira delle pattuglie moralità islamica[12] e stiamo parlando di Parigi, Francia, non dell’Iran di Ahmadinejad e dei “guardiani della rivoluzione”.

Il rapporto tra cultura legata alla Fede islamica e criminalità contro le donne è, purtroppo, evidente in tutta Europa: recentemente la polizia di Oslo ha rivelato che il 2009 ha stabilito il record dei casi di assalto sessuale, triplicando la statistica dell’anno precedente, e che tutti (tutti!) i casi sono avvenuti in aree di recente immigrazione magrebina e mediorientale, mentre in Belgio il conservatore “Journal de Bruxelles”, a febbraio di quest’anno, ha osservato come “non solo nel 2008 e nel 2009, ma anche nel 2007, gli autori dei reati [di stupro nella città] non erano occidentali, ma tutti immigrati[13].

Queste statistiche vengono raramente discusse, mettono a disagio, sono troppo evocative di antichi luoghi comuni razzisti.

Ma sono fatti.

Il dibattito in Europa riguarda ora soprattutto il burqa integrale, non le forme meno restrittive di velatura, ed è ovvio: l’enormità della costrizione del burqa lo rende un bersaglio facile, così come la giustificazione del suo divieto per motivi di sicurezza può avere una pur labile parvenza (facilmente attaccabile) di sostenibilità politica, in particolare nell’era degli attentati suicidi.

Ma il fatto è che il burqa è semplicemente il punto estremo della “mentalità del velo” che non solo, se imposta alle donne dalla paura dello stupro, è un abominio, ma, soprattutto, è contagiosa: se non viene fermata, la tendenza naturale della pratica della velatura è quella di diffondersi perché il velo è insieme un simbolo politico e religioso, ma è anche il simbolo di una dinamica, di un’ideologia totalitaria che ha messo gli occhi sull’Europa e non sarà contenta finché ogni donna del pianeta non sarà sottomessa in silenzio alle sue condizioni.

La diffusione “epidemica” del velo è risultata palese in tutto il mondo islamico dopo la rivoluzione iraniana: in Turchia ha raggiunto le sue punte estreme con quartieri di Istanbul fino a pochi anni fa “misti” che, attraverso migrazioni ed evoluzioni demografiche, sono in brevissimo tempo divenuti “completamente velati”[14] e con un governo che si è visto costretto (comunque non malvolentieri) a sollevare il divieto di indossare il velo, legittimando e rinforzando, di fatto, i sostenitori della pratica.

Il velo, intendiamoci, di per sé non è niente, anzi, come detto, è un più che legittimo e inoffensivo simbolo di appartenenza religiosa, non diverso dalle trecce torahiche di uno Chassid o dalle pesanti croci d’oro visibili in tanti paesi del sud Europa. Ciò che è devastante è la mentalità culturale araba (culturale araba, non religiosa islamica e si legga quanto il Profeta Maometto scrive sulle donne nel Corano per averne riprova) che sottostà al suo utilizzo: il velo non è scindibile da una concezione di donna ammantata di apartheid sessuale, legata al concetto di sottomissione e venata dall’idea, neppure così sotterranea, della liceità dell’abuso. Soprattutto, l’utilizzo del velo non può essere disgiunto dal concetto di “namus”, una categoria etica che viene spesso tradotta con “onore” e se la prima cosa che vi viene in mente è il “delitto d’onore”, non sbagliate: il percorso logico che dall’utilizzo del velo porta alla pratica di uccidere le donne non velate non è così tortuoso come si potrebbe pensare.

Ciò che risulta più incomprensibile è che, in profondità, l’uso del velo implica la convinzione che la sessualità femminile abbia una forza così dirompente che gli uomini debbano a tutti i costi essere protetti da essa … Il corollario naturale di questa convinzione è che gli uomini non possano essere ritenuti responsabili per il desiderio che una donna senza velo può indurre in loro, incluso, per estensione, l’impulso di violentarla.

Ci stiamo spingendo troppo oltre?

Nel 2006, lo Sceicco Taj el-Din al-Hilali, il più anziano religioso mussulmano d’Australia, si è così espresso in un sermone avente per oggetto un recente stupro perpetrato da uno dei suoi fedeli su una occidentale: “[…] se si prende un piatto di carne e lo si mette all’esterno senza copertura, prima o poi arrivano i gatti e se lo mangiano. Di chi è la colpa? Dei gatti o della carne scoperta? La carne scoperta è il problema. Se la ragazza fosse stata nella sua stanza, nella sua casa, nel suo hijab, non si sarebbe verificato alcun problema …“. Ovviamente queste osservazioni hanno causato una quantità di denunce e recriminazioni e la (giusta) osservazione mussulmana che si trattava di parole che non rappresentavano la vera natura dell’Islam[15]. Ma l’unica cosa insolita del commento dello Sceicco è che è stato fatto in pubblico.

Se si ritiene che queste opinioni siano atipiche all’interno della comunità musulmana, si provi ad entrare per cinque minuti in una chat-room islamica su Internet. Non è una cosa complicata: basta digitare la parola “hijab” sul motore di ricerca di Google e dare un’occhiata ai primi risultati. Qualche tipico commento:

Che dignità può avere una non credente che se ne sta per strada, che conduce un certo tipo di vita, che si espone in pubblico?. Queste donne si sono tolte lo scudo protettivo della pudicizia dell’hijab e sono rimaste senza protezione. Questa è la causa degli assalti contro di loro, degli stupri e degli omicidi che avvengono nel mondo ogni dieci secondi. Ma le vere mussulmane, che portano l’hijab, sono protette dalle aggressioni e, infatti, non si è mai sentito di un attacco contro di loro[16].

Un esempio estremo, tratto da qualche sito alqaedista dell’Arabia Saudita, in cui fanatici pronti al martirio esprimono opinioni folli quanto l’ideologia di morte che li guida?

Veramente l’esempio è tratto da una chat-room norvegese, moderata da un norvegese e di proprietà di un altro norvegese …

Un caso isolato?

Ecco altre perle di saggezza:

Qualsiasi donna si profumi e poi passi vicino ad un gruppo di uomini che sentano il suo profumo è una ‘zaniyah’ [adultera] …”;

esaminando le varie condizioni circa l’hijab si può chiaramente notare che molte giovani donne mussulmane non soddisfano tali condizioni. Molte prendono solo ‘mezze misure’ che non solo prendono in giro la comunità in cui vivono ma prendono in giro anche i comandi di Allah“;

l’hijab si adatta alla sensazione naturale di gheerah, che è intrinseca nell’uomo retto a cui non piace che le persone guardino sua moglie o le sue figlie. La gheerah è un sentimento guida che spinge l’uomo retto a salvaguardare le donne che gli sono legate dagli estranei. L’uomo musulmano ha diritto a provare la gheerah nei confronti di tutte le donne musulmane“.

Anche in questo caso, si sarebbe propensi a pensare a farneticazioni di qualche mujaheddin afghano, ma tutte le citazioni sono tratte dal sito ufficiale della società islamica dell’Università dell’Essex[17]. E tutte suggeriscono una correlazione tra velo e legittimazione della libertà omicida, quasi fosse una sorta di diritto pacifico per un uomo poter possedere una donna che non sia velata …

D’altra parte non è certamente un caso che in nessuna, assolutamente nessuna nazione in cui il velo sia norma culturale diffusa le donne godano di pari diritti rispetto agli uomini e che in nessun quartiere di donne velate non vi siano stati casi di violenza contro donne non velate[18].

Fingiamo per un attimo che il velo sia realmente una norma religiosa e non una norma semplicemente derivata da una cultura maschilista: in ogni caso nessuna libertà, neppure la libertà religiosa, è assoluta e se anche, ad esempio, decidessi di votarmi al culto di Baal, in ogni caso la legge dovrebbe impormi di non poter sacrificare mio figlio alla divinità. Naturalmente tra il sacrificio di un figlio e portare il velo esiste una enorme differenza, eppure, ugualmente, nel momento in cui portarlo diventa elemento identificativo di una determinata concezione di donna, vietarlo diventa un dovere morale per l’occidente. Tutti conosciamo le previsioni demografiche sulla crescita della popolazione mussulmana in Europa e siamo consci che presto molte città avranno una maggioranza islamica: ebbene, se la concezione dell’Islam che il velo rappresenta è autorizzata a prevalere in occidente, queste città non saranno più libere.

Mentre il burqa integrale può, con un po’ di ipocrisia (che, nella misura in cui esprime la legittima repulsione di una società verso una mentalità inaccettabile senza creare pericolosi precedenti di intolleranza religiosa, è il minore dei mali), essere vietato per ragioni di sicurezza, il comune hijab, lo chador, non può essere proibito: sarebbe politicamente inaccettabile e praticamente impossibile farlo vista la diffusione della pratica.

Ma è, almeno, è giusto che tale pratica sia stigmatizzata socialmente. Volendo, posso rasarmi il cranio a zero e farmici tatuare sopra una svastica: sono libero di farlo e sarebbe sbagliato il contrario, ma poi non posso pretendere di essere assunto per insegnare nelle scuole elementari o per dirigere una banca. Questo è quello che dovrebbe accadere con il velo.

Può apparire una posizione liberticida, ma non la è, anzi, è una posizione in difesa della libertà: uno Stato non potrà mai sapere quali donne indossino il velo volontariamente e quali per coercizione sociale o per paura delle conseguenze dl non indossarlo e per la libertà delle seconde è doveroso chiede un sacrificio alle prime. Perché?  Perché questa è la nostra cultura e nella nostra cultura il velo non esiste, non, e va sottolineato ancora una volta, in quanto simbolo religioso, ma in quanto elemento di discrimine tra “donna onesta” e “prostituta”, in quanto elemento di forzatura delle scelte di ogni essere umano di sesso femminile.

Per questo, per quanto terribile possa essere ogni assalto alla libertà religiosa, al pudore di alcune, alla cultura di una società per altri versi splendida, il rischio della tolleranza diventa l’ultima cosa che ci possiamo permettere.


[1] A tal proposito, vd. A.T. Kuru, Secularism and State Policies toward Religion: The United States, France, and Turkey, Cambridge U.P. 2009, pp. 103 ss.

[2] R. Sookhdeo, Secrets Behind the Burqa: Islam, Women and the West, Isaac Publishing Inc. 2004, pp. 16-20.

[3] A.T. Kuru, Citato, pp. 118 ss.

[4] Il velo non è prescritto esplicitamente dal Corano in alcuna sua parte.

[5] Le leggi riguardanti le norme alimentari e le proibizioni in tal senso.

[6] B.B.C. News, “The Islamic vail across Europe”, http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/5414098.stm

[7] M. Nussbaum, Veiled Threats, http://opinionator.blogs.nytimes.com/2010/07/11/veiled-threats/

[8] Vd. a tal proposito, B. Ye’or, et al.,The Dhimmi: Jews & Christians Under Islam, Fairleigh Dickinson University Press 1985, passim.

[9] S. Bellil, Dans l’Enfer des Tournantes, Editions Flammarion 2002, pp. 7-11.

[10] Ivi, passim.

[11] Dati A.N.F.S. 2010.

[12] C.Kintzler, “Burqa et niqab : contre la dépersonnalisation indifférenciée”, Rue89, 25.06.2009.

[13] A.T. Kuru, Citato, passim.

[14] S Samir, “Istanbul between secularism and integralism”, Kursh, 11.04.2010.

[15] BBC News, “Australia fury at cleric comments”, http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/6086374.stm

[16] Tratto da “www.abdirizag.vgb.no”

[17] Sito web: “www.essexisoc.com”

[18] A. Sogson, Islam and Human Rights, Amber Pub. 2009, pp. 61-66.

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Nato a Londra nel 1968 ma italiano di adozione, si laurea a 22 anni con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'UCSC di Milano con una tesi sui rapporti tra cultura cabbalistica ebraica e cinematografia espressionista tedesca premiata in Senato dal Presidente Spadolini. Successivamente si occupa di cinema presso l'Istituto di Scienze dello Spettacolo dell'UCSC, pubblicando alcuni saggi ed articoli, si dedica all'insegnamento storico, ottiene un Master in Marketing a pieni voti e si specializza in pubblicità. Dal 2003 si interessa di storia e simbologia religiosa: nel 2006 pubblica Il Graal è dentro di noi, nel 2007 Non per mano d'uomo? e nel 2009 L’anima e la svastica. Nel 2008 ottiene, negli USA, "magna cum laude", un dottorato in Studi Religiosi a cui seguono un master in Studi Biblici e un Ph.D in Storia della Chiesa, con pubblicazione universitaria della tesi dottorale dal titolo Nicea: what it was, what it was not (2009). Collabora con riviste cartacee e telematiche (Hera, InStoria, Archeomedia) e portali tematici, è curatore della rubrica "BarBar" su www.storiamedievale.org e della rubrica "Viaggiatori del Sacro” su www.edicolaweb.net. Sito internet: http://www.lawrence.altervista.org.

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