Ernst Jünger narra nel suo diario Siebzig verweht II (1971-1980) che durante un viaggio in Grecia “andammo verso Nemea, e là giacemmo sotto le tre colonne che ancora restano del tempio di Zeus. Hans-Eberhard suonava sotto un albero. I greci, che scavavano in quel luogo per la University of California, posarono zappa e badile e si avvicinarono, attirati dall’eufonia”.
Quel giovane è oggi un musicista cinquantenne, Hans-Eberhard Dentler, che vive con la moglie Karin in cima a un poggio nei pressi di Monte Antico, nella campagna grossetana, dove ha trasformato un antico casale ricavandovi anche una saletta per concerti. Vi è giunto quindici anni fa dalla Germania dove aveva cominciato a suonare come violoncellista. Ha conosciuto Jünger negli anni Sessanta grazie alla madre che ne era amica e poi lo ha seguito spesso nei suoi viaggi in Europa e in altri continenti, come quello in Grecia citato nel diario. Salendo verso la cima del poggio mi vengono incontro festosamente sette asini insieme con i padroni. “I due più anziani, la prima coppia, da cui sono nati tutti gli altri”, mi dice Karin, “si chiamano Filemone e Bauci”. Un tempo, narra una leggenda greca, Zeus ed Ermes scesero sulla terra nelle sembianze di due viandanti per mettere alla prova l’ospitalità degli uomini. Nessuno volle accoglierli finché giunsero alla capanna di Filemone e Bauci che li accolsero con amore e generosità rifocillandoli. Per punire l’umanità le divinità scatenarono un diluvio su quel luogo, risparmiando la capanna dei due vecchi che fu trasformata in uno splendido tempio, dove la coppia trascorse il resto della vita.
Dopo la morte Filemone e Bauci, secondo il loro desiderio, furono trasformati in due alberi, una quercia e un tiglio, che crebbero uno di fronte all’altro di fronte al tempio. “Jünger“, mi riferisce Dentler, “sapendo delle mie ricerche sui rapporti fra i pitagorici e Bach mi scrisse questo pensiero: “Per i pitagorici la divinità dei numeri era quella proprietà intrinseca, impossibile da misurare matematicamente o da ponderare fisicamente, che la musica più di ogni altra cosa è in grado di avvicinare ai sensi, e che può manifestarsi solo nell’effetto… Per questo essa fu pure, da sempre, un arcano contro la paura della morte”. Mentre camminiamo si avvicina a Karin uno degli asini, anzi un’asinella che si strofina affettuosamente alla padrona: “È Cordula”, mi dice, “l’ha battezzata così Ernst Jünger nel giorno del suo centoduesimo compleanno. Chiamatela Cordula, mi rispose al telefono, quando gli chiesi un nome”.
Ho conosciuto per la prima volta Dentler quando venne al teatro dell’Unione di Viterbo per suonare col suo quintetto l’Arte della fuga in una interpretazione fino ad allora inedita, con violino, viola, violoncello, fagotto e contrabbasso. Si pensava che il musicista tedesco l’avesse scritta per tastiera sebbene il manoscritto non desse enigmaticamente alcuna indicazione. Fu Dentler, come spiega nel suo libro L’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach pubblicato da Skira, a scoprire che una fedele esecuzione non era possibile con la tastiera e che occorrevano strumenti a corda. Così venne interpretata per la prima volta dal suo ensemble nel 1996 a Grosseto, nella chiesa di San Francesco, e poi all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, dove Alberto Basso, uno dei nostri maggiori musicologi, si convinse della tesi di Dentler invitandolo a scrivere questo saggio che fa parte della collana “L’arte armonica” sponsorizzata proprio dall’Accademia.
Ma L’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach è un saggio di importanza straordinaria perché, come spiega il sottotitolo, “Un’opera pitagorica e la sua realizzazione”, ricostruisce il clima spirituale in cui maturò il capolavoro del musicista.
A Lipsia uno degli amici di Bach, Johann Matthias Gesner (1671-1761), rettore della Thomasschule negli anni 1730-1734, aveva inserito nelle norme che la reggevano addirittura dei brani della Vita di Pitagora di Giamblico. In quelle norme scolastiche si raccomandava fra l’altro la musica, oltre che per le occasioni obbligatorie, come il servizio divino, le onoranze funebri, le lectiones, anche per la ricreazione. “Un vecchio insegnante di chiesa”, scriveva Gesner, “giustamente chiamava gli angeli creature razionali che trovano costantemente il loro massimo piacere nel cantare le lodi a Dio”. Fra le tante prove che Dentler porta in questo saggio, che sta suscitando l’interesse di tutti i musicologi, è l’amicizia fra Bach e un suo allievo, Lorenz Christoph Mizler il quale, dopo la laurea a Lipsia, fondò la Societät der musikalischen Wissenschaften, in cui il musicista sarebbe entrato nel 1747 quale quattordicesimo membro e alla quale avrebbe consegnato come “ultimo contributo obbligatorio” per i soci proprio L’arte della fuga. Nello statuto si colgono molte norme di tipica ispirazione pitagorica: si dice ad esempio che la Società è fondata “per onorare Iddio” e per “l’utilità della Repubblica”; e nel primo paragrafo si legge: “Nell’accogliere i membri si dovrà tenere conto sia del loro carattere che della loro abilità”. Inoltre nella premessa Mizler esigeva per i soci, oltre alla conoscenza storica della musica, “una competenza filosofica e, cosa che sinora ben pochi conoscono, una competenza matematica che nella musica dev’essere assolutamente unita a quella filosofica”. Mizler, che si definiva spesso “Pitagora”, scriveva che “poiché la musica è l’ordine migliore che l’intelletto umano può rappresentarsi, rispecchiato nella dimensione del piccolo, gli antichi affermano del tutto a ragione che essa rappresenta l’armonia dell’intero edificio del cosmo”.
Dentler, dopo avere accumulato tutti questi indizi collegandoli sapientemente ai testi antichi, esamina poi la partitura dell’opera cogliendovi molti principi pitagorici, da quello dell’enigma al principio dualistico, rispecchiato nel “contrappunto”, dal principio dello specchio alla tetraktys, dal numero quattro, come principio fondatore dell’ordine, al principio della monade, dalla tonalità dorica, il re minore, alle orbite sonore come musica delle sfere. La sua tesi non è soltanto quella di un musicologo ma anche di un concertista che mette alla prova la sua tesi eseguendo la partitura.
Dopo un lungo pomeriggio trascorso a conversare e ad ascoltare alcune esecuzioni del suo ensemble che, diretto da Franco Petracchi, eseguirà la primavera prossima l’opera di Bach nell’ambito dei milanesi “Concerti del Quartetto”, ci avviamo verso casa. Il sole è appena tramontato, gli asini si stagliano sulla vallata sottostante. Uno di loro si avvicina a noi giocoso con le lunghe orecchie che per gli Antichi furono simboli sia di umiltà sia di sapienza.
“Si chiama Platero”, mi dice Karin, “in onore dell’asino di Juan Ramón Jiménez”.
* * *
Tratto da Avvenire del 5 dicembre 2000.
Lascia un commento