Resta da dire qualcosa circa l’«arianità» della dottrina buddhista. Il nostro uso del termine «ario» in ordine a tale dottrina si giustifica anzitutto direttamente con i testi. Nel canone, ricorre dovunque il termine ariya (in sanscrito âriya), che vuole appunto dire «ario». Aria è detta la via del risveglio – ariya magga; arie sono le quattro verità fondamentali – ariya saccâni; ario il metodo di conoscenza – ariya-naya; ariya è detto l’insegnamento – in prima linea quello che accusa la contingenza del mondo – il quale a sua volta si rivolge agli ariya: si parla della dottrina, come di quella che non al volgare, ma solo agli ariya è accessibile ed intelligibile. Vi è chi ha voluto tradurre il termine ariya con «santo». Ma questa è una traduzione imperfetta, anzi sfasata, data la divergenza effettiva esistente fra ciò di cui si tratta, e tutto quello a cui sùbito si pensa in Occidente quando si parla di «santità». Anche la traduzione di ariya con «nobile» o «sublime» è poco adeguata. Si tratta di significati successivi assunti dal termine, i quali non corrispondono alla pienezza di quello originario, ad un tempo spirituale, aristocratico e razziale, significato che, malgrado tutto, nel buddhismo si è conservato in larga misura. È così che orientalisti, come per es. il Rhys Davids e lo Woodward, hanno ritenuto che sia meglio non tradurre affatto il termine ed hanno lasciato ariya dovunque ricorre nei testi, sia come aggettivo, sia come sostantivo designante una determinata classe di esseri. Gli ariya sono, nei testi del canone, lo Svegliato, gli svegliati e coloro che ad essi sono uniti perché intendono, accettano e seguono la dottrina ariya del risveglio.
È opportuno sottolineare l’arianità della dottrina buddhista per varie ragioni. In primo luogo, per prevenire chi, contro di essa, volesse avanzare la pregiudiziale dell’esotismo e dell’asiatismo, e parlasse di una sua estraneità rispetto alle «nostre» tradizioni e alle «nostre» razze. Ebbene, va ricordato che l’unità primordiale di sangue e di spirito delle razze bianche che crearono le massime civiltà d’Oriente e d’Occidente, quella irànica e indù non meno di quelle ellenica, romana antica, germanica, è una realtà. Il buddhismo ha il diritto di dirsi ario, perché riflette in alto grado lo spirito delle comuni origini, perché ha conservato parti notevoli di un retaggio che, come si è già detto, gli Occidentali hanno invece via via dimenticato, sia per opera di processi involutivi endogeni, sia perché proprio essi – assai più che non gli Arii d’Oriente – hanno soggiaciuto, specie nel campo religioso, ad influenze estranee. Come si è accennato, tolti alcuni elementi periferici, l’ascesi del primo buddhismo nella sua chiarezza, nel suo realismo, nella sua precisione e nella sua salda e ben articolata struttura, ha effettivamente del «classico», riflette cioè il più elevato stile dell’antico mondo ario-mediterraneo.
E non è soltanto quistione di forma. Una intima congenialità si palesa fra lo spirito dell’ascesi annunciata dal principe Siddharta e quell’accentuazione dell’elemento intellettuale e olimpico, che contrassegna il platonismo, il neoplatonismo e lo stesso stoicismo romano. Altri punti di contatto si riscontrano là dove il cristianesimo fu rettificato appunto da un sangue ario conservatosi maggiormente puro, intendiamo nella cosidetta mistica germanica: si ricordi il Meister Eckhart della predica sul distacco, sull’Abgeschiedenheit, o della teoria dell’«anima nobile»; si ricordi anche un Tauler e un Silesio. Qui, come in ogni altro campo, l’insistere sull’antitesi di Oriente ed Occidente è frivolo. L’opposizione vera è in primo luogo quella che esiste fra le concezioni di tipo moderno e le concezioni di tipo tradizionale, siano, queste ultime, occidentali o orientali; in secondo luogo, è quella che esiste fra le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che, invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie. Come è stato giustamente rilevato dal Dahlke, fra le tradizioni più grandi e più antiche il buddhismo è quella che piú si può dire di pura origine aria.
E ciò vale anche in un senso specifico. Se il termine ario, generalizzando, lo si può applicare all’insieme delle razze indoeuropee con riguardo alla loro comune origine (la patria originaria di tali razze, l’airyanem-vaêjô, secondo il ricordo distintamente conservatosi nell’antica tradizione irànica, fu una regione iperborea o, piú genericamente, nordico-occidentale), pure in seguito esso è stato una designazione di casta. Come ârya valse essenzialmente una aristocrazia, opposta, nello spirito e nel corpo, sia a razze primitive, ibride e «demoniche» quali quelle delle popolazioni kosaliane e dravidiche trovate nei territori asiatici conquistati; sia, più in genere, al substrato corrispondente a quel che oggi si chiamerebbe probabilmente la massa proletaria e plebea, nata, in via normale, per servire, la quale, in India come nel mondo greco-romano, fu esclusa dai culti luminosi caratterizzanti le caste superiori, patrizie, guerriere e sacerdotali.
Ebbene, il buddhismo è da dirsi ario anche in questo senso quasi castale, malgrado l’attitudine, di cui diremo in séguito, da esso assunto di fronte al sistema delle caste dei suoi tempi. Chi poi venne chiamato lo Svegliato, cioè il Buddha, era il principe Siddharta, secondo alcuni figlio di re, secondo altri, almeno della più pura ed antica nobiltà guerriera della stirpe dei Çâkya, proverbiale per la sua fierezza – era un modo di dire: «fiero come un Çâkya». Questa schiatta, a sua volta, come le piú illustri ed antiche dinastie indú, si rifaceva alla cosidetta «stirpe solare» – sûrya vamça – e all’antichissimo re Ikçvâku. «Lui, di stirpe solare» – si legge, circa il Buddha. Ed egli lo dichiara: «Discendo dalla dinastia solare e sono di nascita un Çâkya» ed anche come asceta che ha rinunciato al mondo rivendica la dignità regale, la dignità di un re ariya. La tradizione vuole che in lui si ammirasse «una forma adorna di tutti i segni della bellezza e cinta da una aureola radiosa». Ad un sovrano che, senza conoscerlo, l’incontra, egli dà subito l’impressione di un suo pari: «Hai un corpo perfetto, sei risplendente, ben nato, di nobile aspetto, hai un colorito dorato, candidada dentatura, sei forte. Tutti i segni che sei di nobile nascita sono nella tua forma, tutti i segni dell’uomo superiore». Un temutissimo bandito si chiede stupefatto, incontrandolo, chi sia «questo asceta che viene solo, senza compagni, come un conquistatore». Non solo nel corpo e nella tenuta sono in lui palesi le caratteristiche di un kshatriya, di un nobile guerriero di alto lignaggio, ma la tradizione vuole che egli presentasse appunto i «trentadue attributi» che secondo un’antica dottrina brahmanica contrassegnerebbero l’«uomo superiore» – mahâpurisa-lakkhânâni – colui, per il quale «esistono soltanto due possibilità, senza una terza»: o, restando nel mondo, divenire un cakravatin, cioè un re dei re, un «sovrano universale», il prototipo ario del «Signore del mondo», ovvero rinunciando al mondo, divenire un perfetto svegliato, il Sambuddha, «colui che ha rimosso il velo». La leggenda vuole che al principe Siddharta si fosse già preannunciato, nella visione fatidica di una ruota turbinosa, un destino d’impero, da lui però respinto in nome dell’altra via, della via verso la pura trascendenza. Ed è parimenti significativo che, secondo la tradizione, il rito funerario per il Buddha, conformemente alla sua volontà, non sarebbe stato quello di un asceta, ma quello di un sovrano imperiale, di un cakravartin. Malgrado l’attitudine assunta dal buddhismo di fronte al problema delle caste, si vuole, del resto, che in genere i bodhisattva, coloro che potranno un giorno divenire degli Svegliati, non nascano mai in una casta contadinesca o servile, ma o in quella guerriera o in quella brahmana, cioè nelle due più alte caste della gerarchia aria: anzi si dice, in relazione ai tempi, essenzialmente in quella guerriera, fra i kshatriya.
Ora questa nobiltà aria e questo spirito guerriero si riflettono nella stessa dottrina del risveglio. L’assimilazione della ascesi buddhista alla guerra e delle qualità dell’asceta alle virtù del guerriero e dell’eroe sono ricorrentissime nei testi canonici: «lottante asceta con petto pugnante», «avanzata con i passi del combattente», «eroe vincitore della battaglia», «supremo trionfo della battaglia», «condizioni favorevoli pel combattimento», qualità di «un guerriero buono per il re, ben degno del re, che è un ornamento del re», ecc. – fino a massime, come questa: «morte in battaglia è pur meglio che vivere sconfitti». Quanto alla «nobiltà», essa qui si lega all’aspirazione verso una libertà sovrannaturalmente potenziata. «Come toro, ho spezzato ogni laccio» – dice lo stesso principe Siddharta. «Scaricato dal peso, ha distrutto i vincoli dell’esistenza» – è il tema ricorrente di continuo nei testi con riferimento a chi ne segue la via. Come «sommi di difficile accesso, simili a leoni solitari» sono designati i Compiuti. Lo Svegliato, quale «santo superbo è salito sulle cime piú eccelse dei monti, si è spinto nelle selve piú lontane, è disceso in abissi profondi». Egli può dire: «Non servo nessuno, non ho bisogno di servire nessuno», idea, che fa ricordare quella «razza autonoma e immateriale», «senza re» perché è essa stessa regale, di cui si ebbe a parlare anche in Occidente. È «asceta, puro, conoscitore, libero, sovrano».
Questi sono alcuni degli attributi che vedremo ricorrere già nei testi più antichi sia per il Buddha, sia per coloro che procedono sulla sua stessa via. La parte che in tali attributi ha l’abituale esagerazione di ogni glorificazione, non pregiudica il loro significato, almeno, di testimonianze in ordine alla idea generale che sempre si ebbe sia della via e dell’ideale indicati dal principe Siddharta, sia della di lui razza spirituale. Il Buddha è eminentemente il tipo dell’asceta regale e la sua naturale controparte, come dignità, è colui che, come un Cesare, poté dire comprendere, la propria stirpe, la maestà dei re cosí come la sacrità degli dèi, nel potere dei quali stanno anche coloro, che sono dominatori di uomini. Si è visto or ora che proprio questo senso ha, del resto, l’antica tradizione relativa all’essenziale identità della natura di colui che può essere soltanto o figura imperiale, o perfetto Svegliato. Ci troviamo presso gli àpici del mondo spirituale ario.
Per l’arianità dell’insegnamento buddhistico originario, una particolare caratteristica è l’assenza di quelle manie proselitarie, che quasi senza eccezione sono in ragione diretta col carattere plebeo, antiaristocratico, di una credenza. Uno spirito ario ha troppo rispetto per l’altrui persona e troppo spiccato il senso della propria dignità per cercar di imporre ad altri le proprie idee, anche quando sa che esse sono giuste. E non è senza relazione a ciò che nel ciclo originario delle civiltà arie, sia d’Oriente, sia d’Occidente, non troviamo nemmeno figure divine che si preoccupino troppo degli uomini, che quasi corrano dietro ad essi per attirarli e «salvarli». Le cosiddette religioni di salvazione – le Erlosungsreligionen, come si dice in tedesco – non appaiono, in Oriente come in Occidente, che tardivamente, presso ad un allentamento della tensione spirituale originaria, ad un offuscamento della coscienza olimpica e, non per ultimo, ad influssi di elementi etnico-sociali inferiori. Che le divinità poco possano per gli uomini, che sia fondamentalmente l’uomo l’artefice del proprio destino in ordine agli stessi sviluppi oltremondani di esso – questa veduta caratteristica del buddhismo originario ne mette bene in luce la diversità rispetto a molte forme tarde, soprattutto mahayâniche, nelle quali trovò modo di infiltrarsi il motivo di esseri mitici affaccendantisi intorno agli uomini per condurli tutti alla salvezza.
In fatto di metodo e di insegnamento, nei testi originari vediamo dunque che il Buddha espone la verità come egli l’ha scoperta, senza imporsi a nessuno né ricorrere a mezzi estrinseci per persuadere o «convertire». «Chi ha occhi, vedrà le cose» – è la formula sempre ricorrente nei testi. «Venga da me un uomo intelligente – è scritto – non tortuoso, non simulatore, un uomo dritto: io l’istruisco, gli espongo la dottrina. Seguendo l’istruzione, dopo non molto tempo egli stesso riconoscerà, egli stesso vedrà, che così invero ci si libera completamente dai vincoli: dai vincoli, cioè, dell’ignoranza». Segue il paragone del bambino che si libera gradamente dagli impedimenti, paragone del tutto corrispondente a quello della «maieutica» platonica, dell’arte di aiutare le nascite. Ed ancora: «Io non vi sforzerò, come il vasaio con la creta cruda. Riprendendo riprendendo, io parlerò, premendo premendo. Chi è sano resisterà». Del resto, l’originaria intenzione del principe Siddharta, una volta conseguita la conoscenza della verità, era di non comunicarla a nessuno, non per malanimo, ma riconoscendone la profondità e prevedendo l’incomprensione dei più. Venuto poi a riconoscere che in fondo vi sono anche più nobili nature, menti meno offuscate, per compassione espone la dottrina, mantenendo però sempre distanza, distacco e rispetto. Che i discepoli vengano o meno a lui, che seguano o no i precetti ascetici, «sempre lo stesso egli rimane». Ecco il suo stile: «Conoscere la persuasione e conoscere la dissuasione; conoscendo la persuasione e conoscendo la dissuasione non persuadere e non dissuadere: esporre solo la realtà». «È mirabile – viene anche detto – è straordinario come nessuno esalti la propria e disprezzi l’altrui dottrina in un Ordine, in cui pur vi son tanti guidatori per mostrarla».
Anche questo è stile ario. Certo, la potenza spirituale vivente nel Buddha non poté non manifestarsi, talvolta, in modo quasi automatico, affermandosi direttamente e imponendo un riconoscimento. Perciò come «prima orma dell’elefante» viene per esempio indicato il fatto che dotti, esperti dialettici i quali aspettavano al guado il Buddha per stroncarlo con i loro argomenti, al suo apparire chiedono solo di udire la dottrina, o quello che, quando il Buddha affronta una discussione, la sua parola non può fare a meno di agire «come un furioso elefante o una fiammeggiante vampa». O si ha il caso dei suoi antichi compagni che, credendo che avesse abbandonata la via dell’ascetismo, si proponevano di non accoglierlo, ma poi sùbito gli vanno incontro; o quello del feroce bandito Angulimâyo al quale la figura maestosa del Buddha s’impone. Certo è tuttavia, che il Buddha, nella sua superiorità, si è sempre astenuto dall’usare mezzi indiretti di persuasione e, in ogni caso, mai di quelli che fanno leva sulla parte irrazionale, sentimentale o emotiva dell’essere umano. Anche questa regola è importante: «Voi non dovete, o discepoli, mostrare ai laici il miracolo dei poteri supernormali. Chi farà ciò è colpevole di una cattiva azione». Ciò comporta la rinuncia al «miracolo» come mezzo estrinseco per suscitare una «fede». La propria persona va messa da parte: «In verità, i nobili figli espongono le loro conoscenze superiori in modo simile, presentando la verità, senza riferirsi come che sia allo lora persona». «Che dunque? – dice il Buddha a chi da tempo anelava di vederlo – Chi vede la legge vede me e chi vede me vede la legge. In verità, vedendo la legge si vede me e vedendo me si vede la legge». Svegliato egli stesso, il Buddha vuole solamente propiziare il risveglio in chi ne è capace: risveglio, in primo luogo, di una dignità e di una vocazione, in secondo luogo, risveglio di una intuizione intellettuale. Chi è capace d’intuire – è detto – non può non approvare. Il miracolo nobile, «conforme alla natura aria» – ariyaiddhi – opposto a quello che si basa su di una fenomenologia estranormale e che vien giudicato non ario – anariyaiddhi – si riferisce proprio al primo punto, è il «miracolo dell’insegnamento» che desta la facoltà di discernere, che fornisce una nuova, giusta misura per tutti i valori, per la quale la formula canonica più tipica è: «Così è – egli intende – Vi è il nobile e vi è il volgare, e vi è una libertà più alta di questa percezione dei sensi». Per il secondo punto, ecco un passo caratteristico: «Il suo cuore [quello del discepolo] si sentì ad un tratto pervaso di sacro entusiasmo e tutta la sua mente si dischiuse pura, chiara, splendente come il disco luminoso della luna: e gli apparve intera la verità». Tale è la base dell’unica «fede», dell’unica «retta fiducia», che nell’ordine degli aríya è tenuta in conto: «fiducia motivata, radicata nella visione, salda», tale che «nessun penitente o sacerdote, nessun dio o diavolo, nessun angelo o chi altri nel mondo può distruggerla».
Forse ad un ultimo punto vale la pena di accennare brevemente. Il fatto che il Buddha nei testi pâli non appare come un essere sovrannaturale sceso in terra a diffondere una «rivelazione», ma come colui che espone una verità da lui stesso veduta e indica una via che lui stesso si è aperta, come colui che, giunto egli stesso all’altra riva, aiuta altri a passarvi, una tale traversata avendola compiuta con le proprie forze, senza un maestro che abbia dovuto illuminarlo – questo fatto non deve condurre ad umanizzare oltre misura la figura del Buddha. Anche a prescindere dalla teoria dei bodhisattva, la quale troppo spesso risente di un elemento fiabesco e si è definita solo in un periodo posteriore, nei testi originari la concezione del cosiddetto kolankola ci rende sempre possibile d’intendere nel Buddha la riemergenza di un principio luminoso già accesosi in precedenti generazioni: cosa che si accorderebbe con quanto diremo sul significato storico della dottrina buddhista del risveglio. In ogni caso, quali pur siano gli antecedenti, è arduo tracciare un limite fra quel che è umano e quel che non lo è più, quando si tratta di essere che ha realizzato in sé l’elemento libero da morte – amata -, che si presenta come incarnazione viva di una legge centrata in ciò che è assolutamente trascendente e che da nulla può esser «incluso» – apariyâ-pannam. Anche qui si può fare una quistione di differenza di natura. Dipende dalla distanza che i vari esseri sentono fra sé e la realtà metafisica il fatto, che una forza venga vissuta come «grazia», che una conoscenza si presenti con carattere di «rivelazione» nel senso divenuto prevalente in Occidente a partire dal profetismo ebraico, che l’annunciatore di una legge assuma tratti «divini» anziché presentarsi come colui che ha distrutto l’ignoranza e si è «ridestato». Questo divario non dice, in sé, assolutamente nulla in ordine alla dignità e al livello spirituale di un insegnamento, come pure della stessa persona del suo annunciatore. Certo è solo, che il primo caso – quello delle «rivelazioni» e degli dèi-uomini – non può non dare un senso di estraneità ad uno spirito ario, ad un «nobile figlio» – kula-putta – specie in una epoca in cui nell’umanità non si era ancor del tutto offuscato il ricordo delle origini.
Infine, una breve considerazione sul Buddha storico come modello. Se egli non si presenta dunque come un dio, pure, come si è detto, da tutta la tradizione originaria egli è stato considerato come un uomo giunto con le sue sole forze al risveglio, quindi al superamento del limite individuale. Come kshatriya, il principe Siddharta ebbe naturalmente la usuale iniziazione di casta, ma non è attestato nessun suo collegamento con qualche organizzazione esistente quale condizione per la sua realizzazione. Devesi dunque pensare ad uno di quei casi eccezionali nei quali un superamento della condizione umana e lo sbocco nella trascendenza sono avvenuti per via autonoma. Ci si potrebbe riferire alla violenza che, secondo il detto evangelico, la porta dei Cieli può subire, o anche al Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Dal Buddha è nata una tradizione e probabilmente sono nate anche linee di trasmissione iniziatica fuor dalle semplici scritture. Ma se ci si riferisce al Buddha, la verità è quella ora accennata: egli fu principio a sé e attesta la possibilità di una ascesa autonoma, presso la quale una possibile, contemporanea discesa di forze superiori, dall’alto, fino ad una unità, deve essere considerata come da essa condizionata.
Avendo accennato all’eccezionalità di una simile congiuntura, l’esempio del Buddha non deve andar incontro alle fisime di «autoiniziazione» di certi spiritualisti moderni ma, nel contempo, deve porre anche un limite all’insistere, da parte di alcuni elementi tradizionalisti, sull’imprescindibilità di un collegamento «regolare» e quasi burocratico con organizzazioni per chiunque aspiri al superamento dell’esistenza condizionata. Il fatto è che un tale collegamento potrà essere per molti necessario, ma per un numero ancor più grande di persone esso è così poco sufficiente, da rendere legittima la domanda della misura in cui sia, dopo tutto, anche necessario. Qualcosa come lo spirito e l’atteggiamento del Buddha storico è una qualificazione essenziale per qualsiasi vera realizzazione iniziatica, cioè analoga a quella della via buddhista del risveglio.
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Il presente scritto costituisce il capitolo II del libro di Julius Evola La dottrina del risveglio. Saggio sull’ascesi buddhista, Edizioni Mediterranee (IV), 1995, pp. 29-37 (nella presente versione è stato pubblicato privo delle note a piè di pagina). Tratto da una e-mail della newsletter “FT” (http://groups.yahoo.com/group/Bollettino_FT) in data 7.IV.2004.
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