Di fronte alle varie e spesso contradittorie interpretazioni del personaggio di Amleto, diceva Oscar Wilde a proposito di una cosi sfuggevole e multiforme personalità, che vi sono tanti Amleti quante melanconie.
Lo stesso si può ripetere, ad ogni tentativo di tradurre in formula l’essenza della passione alpina, e ciò per l’esorbitante numero di variabili che concorrono nella complessa equazione. Una lunga, minuziosa, difficilissima indagine scioglierebbe solo in parte il groviglio dei motivi che spingono l’uomo alla montagna: il bisogno di moto, di vita primitiva e libera, il godimento delle altezze e dei vasti panorami, il fascino della solitudine e del silenzio; la curiosità artistica e scientifica; lo spirito d’avventura, che consiste nel piacere della lotta con gli elementi, nella tensione nervosa del rischio, nell’ebbrezza della vittoria; il piacere turistico e sportivo, l’ambizione dei «records», e infine il culto di potenza, sorta di «yoga», disciplinato esercizio di sviluppo di facoltà subconscie e volitive mediante l’imperio sul mondo alpestre.
Culto di potenza che si fa creatore di leggendarie anime insottomesse le quali, non già condotte da quell’«amor fati» che Nietzche tanto ammirava negli eroi greci, lo recano in sè come necessità interiore, come fatalità psicologica.
Esiste dunque una serie svariatissima di alpinisti: scienziati, esploratori, avventurieri, sportsmen, solitari o collettivisti, edonisti o asceti, contemplatori o sacerdoti della potenza, di quella «virtus» che Plinio lodava negli atleti.
Così pure prendendo per criterio una scala animica si va dai velleitari, snobs e tartarins, agli autentici eroi dell’azione, assertori della vita pericolosa, come Mummery, Lammer, Zsigmondy, Preuss, Dulfer: con tutte le sfumature intermedie e le combinazioni dei vari tipi. Limitandoci al solo campo estetico, vediamo che la montagna può presentare mille aspetti diversi alla predilezione dei suol ferventi adoratori: dalla bellezza idilliaca all’orrore glaciale e rupestre; può assumere mille volti, da quello sereno di Rachele contemplativa, o radioso di Beatrice che trae con sè all’Empireo, a quello enigmatico della Sibilla, o impietrante della Furia anguicrinita, o della Parca messaggera di morte.
Si può dunque affermare che ogni scorridore di montagne si foggi il suo speciale alpinismo.
Da questa massa variegata il Lammer, grande astrattore di quintessenze alpestri, e per proprio conto incarnazione genuina e cospicua di quello che gli Inglesi chiamano il «mountain spirit», il dèmone della montagna, estrasse a suo tempo due tipi fondamentali: l’estetico e il cavalleresco, ossia il contemplatore che si appaga di sedere «seous pedes Domini», ad piedi del Signore, come la Maria del Vangelo, e l’eroe sportivo, nato per l’avventura, per l’azione di pericolo e di conquista, e che invece del verbo religioso ama ascoltare, dalle eccelse rupi, il canto solenne della Valchiria, che gli annuncia essere forse egli la vittima designata. Spirito leonino, «quaerens quem devoret», cerca senza tregua la lotta coi suol pari, come il vecchio Ulisse. I salti vertiginosi, gli orridi strapiombi, le voragini azzurrastre dei crepacci, sono il soffio stesso della vita del suo essere.
A questo eroe sportivo si contrappone oggi, riconnettendosi al tipo estetico del Lammer, l’alpinista «classico», cosi detto perchè la maggioranza dei teorici ammette come canone alpinistico essenziale lo spirito d’avventura, per costituzione romantico.
Con ciò non è da inferire che i classici dell’alpinismo avversino lo spirito d’avventura: gli danno anzi pieno diritto di cittadinanza nella teorica dell’alpinismo, ma per fonderlo armonicamente con gli altri fattori della passione per la montagna.
Gli eroico-sportivi, cioè la quasi totalità degli arrampicatori della «scuola di Monaco», del Karwendel, del Kaisergebirge e delle nostre Dolomiti, tendono invece a stabilire una assoluta preminenza dell’azione sulla contemplazione. Giungono persino ad elevare il concetto di sport ad elemento chiarificatore della coscienza eroica mediante la misura esatta delle forze fisiche e delle energie psichiche dello scalatore.
Il Lammer stesso dichiara che soltanto nell’arrampicata e nella vittoria sui pericoli è sempre consistito per lui il fascino supremo dell’alpinismo. Egli rispetta, però, la concezione nettamente antipodica del grande Kugy, per la cui anima musicale ciò che conta è il trovarsi in cospetto del sublime, l’errare sugli alti nevaii avvolto da vapori silenziosi, o colpito dai raggi rutilanti di un sole che declina. Gli epigoni del Lammer ostentano un certo disdegno, quasi un pudore rovesciato, per tutto ciò che va sotto la denominazione generica di «romantico», e che ha sempre avuto così gran peso nel formarsi e nell’evolvere della passione per i monti; cioè le prerogative estetiche della montagna: « purezza e limpidità cristallina dell’atmosfera, incanto magico delle albe e dei tramonti, colori vivacissimi dei fiori alpini, scintillio delle corazze ghiacciate, pallore lunare delle coltri nevose, murmure delle cascatelle e dei torrenti, basse note pedali del fondo valle, quasi respiro del paesaggio, creanti uno di quegli stati di fascinazione alliterativa da cui sgorga spontaneo «il cantar che ne l’anima si sente».
Sensazioni e sentimenti di cui troviamo validissime testimonianze e conferme nella poesia popolare, nelle favole, nelle saghe, nei miti, le cui figure, silfidi, ondine, fate, maghi, dragoni, gnomi, coboldi, nani, giganti, sono il riflesso di una natura romantica in un «medium» spirituale, sorta di amplificatore di luci e di suoni, di fantasmi e di voci, che si giova della personificazione come strumento espressivo.
Oggi la mentalità prevalentemente tecnica degli audacissimi arrampicatori monachesi, viennesi e di un ristretto gruppo di trentini e di cadorini respinge tutta questa trasfigurazione e animazione mitologica della natura. Questi uomini soprattutto fattivi e dinamici sono attratti, più che altro, dalla dimensione verticale e dalla massa delle montagne, da ciò che chiamiamo «grandiosità»; e la loro sensibilità estetica è sollecitata quasi esclusivamente dal sublime terribile, dagli a picchi rocciosi, dai paradossali strapiombi, dai bizzarri seracchi che si inclinano, perplessi, sulle grandi cascate di ghiaccio, dalle guglie che si slanciano vertiginosamente verso il cielo come immani jaculatorie pietrificate.
E allora il senso evidente della propria piccolezza e impotenza, anziché assumere la forma di timore reverenziale e di smarrimento pànico, si aderge con impulso affettivo irresistibile a sopraffare quella sgradevole constatazione di insufficienza, e quindi a tentar di abbassare ciò che è grande per innalzare il proprio «io».
Ma su ciò ritorneremo in dettaglio, e non mancherà l’occasione di chiarire come questo curioso e ben delimitato antiromanticlsmo si ricolleghi, in sede filosofica, al sistema della «persuasione» di Michelstaedter, pensatore geniale morto, ahimè, giovanissimo; e come si volga anche, nel suoi ultimi atteggiamenti, verso l’«idealismo magico» di Evola.
In rapida sintesi, la «persuasione» consiste nel concepire un uomo che, ripudiate le illusioni in cui altri ripone la sua felicità, non ne insegue, nel futuro, il fantasma fuggevole, ma vive concentrato nel presente, bastando a se stesso, «autarca persuaso».
Analoga posizione nel pensiero dell’Evola; ma con forte impronta sportiva. L’esoterismo orientale diviene in lui tecnica magica ed è elaborato dalla sua lucida mente senza effusioni mistiche alla Novalis, ma con freddo e preciso spirito scientifico.
Vedremo come si tratti di una filosofia atletica, agonistica, atea, antisentimentale, come ha già rilevato, da par suo, il Tilgher.
Quando, per esempio, gli arrampicatori «al limite del possibile» affermano che al di sopra della sfera della «potenza» non vi è nulla, essi concepiscono implicitamente la vita intera come campo di forze che cospirano e si scompongono in un sempre risorgente equilibrio, senza alcuna legge occulta che ne controlli e regoli, dal di fuori, il libero giuoco. Mostreremo quali punti di attacco abbia questa concezione con l’«eterno ritorno» di Nietzsche e, ciò che può essere di pregnante attualità, con le ultimissime ipotesi cosmiche di Eddington, di Sturmer, di James Jeans, per i quali, nell’Universo, la materia sarebbe, in alcuni punti, raffinatamente organizzata, mentre in altri, a miliardi di anni-luce, si troverebbe allo stato caotico originario. Materia, cioè, allo stato nascente.
Con un non lieve divario, però, fra le estreme conseguenze logiche della «Persuasione» e dell’«Idealismo magico» e quelle di dette ipotesi cosmiche: cioè che le premesse sentimentali su cui poggiano (come tutte le filosofie sistematiche) anche le teorie di Michelstaedter e di Evola, rivelano nei due filosofi un temperamento «monistico» ben accentuato. Invece gli astronomi fisico-matematici summenzionati, gente che passa la vita ad indagare la natura degli «oggetti» celesti, pianeti, aeroliti, comete, soli, stelle, costellazioni, ammassi stellari, nebulose, non hanno la mentalità, denunciata da Kant, dell’uomo dagli occhiali azzurri, che vede solamente un mondo azzurro.
È certo che i vari modi di percezione per cui la mente umana prende conoscenza del reale rendon l’uomo incline a veder la natura attraverso gli occhiali del matematico.
Ma queste vaste menti di scienziati-poeti sanno anzitutto che i nostri remoti antenati fallirono tentando di interpretare la natura con concetti antropomorfi; che anche gli stampi meccanici più recenti dovettero esser spezzati. Ma cosi forte è in loro l’imperativo categorico della probità intellettuale, che quando constatano il successo delle interpretazioni con concetti puramente matematici, non ne inferiscono più di quanto significar volesse Galileo quando diceva che il linguaggio dell’Universo era fatto di circoli e di triangoli, o Platone quando usava ripeterà che Dio «geometrizza» sempre.
Al di là dunque delle ultime «nebule» essi concedono ulteriori interminati spazi, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, alla ragione del primo motore, del «movens non motum» (come chiamano Dio i tomisti), la cui gloria «per l’Universo penetra e risplende», — in una parte più e meno altrove.
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Tratto da La Stampa del 13 novembre 1933.
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