Digiti “Romain Gary” su google e le prime foto che appaiono ritraggono lo scrittore francese d’origine ebreo-russa accanto a una graziosa biondina, visibilmente più giovane di lui. L’impressione è di averla già vista. Ma sì, è Jean Seberg, l’adolescente malinconica di Bonjour tristesse, l’icona che meglio di altri ha incarnato sul grande schermo lo smarrimento della gioventù borghese del secondo dopoguerra. Si erano sposati nel ’62 – 24 anni lei, il doppio lui – per poi separarsi otto anni dopo e infine ritrovarsi in un comune tragico destino: quando entrambi sono stati sconfitti e – per dirla con una battuta di Patricia, la protagonista di À bout de souffle interpretata dalla Seberg nel ’60 – «ormai è troppo tardi per avere paura». Se lei nel settembre del ’79, appena quarantenne ma sempre più instabile psicologicamente, era stata trovata morta in una automobile parcheggiata alla periferia di Parigi, l’anno successivo – il 3 dicembre del ’80, giusto trent’anni fa – fu Gary stesso a scrivere la sceneggiatura del proprio congedo dal mondo. Curandone ogni dettaglio: la pistola con cui bruciarsi il cervello e la vestaglia di seta rossa, comprata e indossata per l’occasione affinché nell’appartamento di rue du Bac il sangue si notasse meno. Un biglietto d’addio lasciato per eliminare sin troppo facili interpretazioni, prendere le distanze dalla ex moglie, la cui militanza nelle Pantere nere s’era fatta via via più imbarazzante, e ristabilire così davanti all’eternità chi fosse l’unico protagonista della scena: «Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove».
Il colpo di scena, tuttavia, non arrivò del tutto inaspettato. Malgrado l’invidiabile palmarès – in cui fa bella mostra il sia pur impolverato Goncourt del ’56 per Le radici del cielo, forse il primo romanzo autenticamente ecologista – la critica militante lo considerava un autore a fine carriera, un vecchio “trombone” che ancora parlava di onore e fedeltà, col gusto dannunziano del gran gesto e prigioniero del proprio personaggio fino a morirne. In fondo la sinistra non l’aveva mai amato, nonostante Sartre avesse giudicato il suo Educazione europea – il libro che nel ’45 lo fece conoscere al grande pubblico, in cui racconta la storia di un gruppo di resistenti polacchi attraverso gli occhi di Janek, orfano quattordicenne – il miglior testo sulla resistenza.
Lo guardavano con diffidenza, ritenendolo un autore reazionario per il suo passato di eroe di guerra e poi di diplomatico gollista. E lui – che pure aveva rischiato la morte per disertare e aderire all’appello lanciato il 18 giugno del ’40 da De Gaulle a Londra di continuare la lotta contro i nazisti – non perdeva occasione per esprimere la delusione in quelle forze con cui durante la guerra si era trovato a «essere così spesso dalla stessa parte che non posso più perdonargli niente». Tradite le speranze del dopoguerra «dalle idee che si comportano in maniera sbagliata», scelse di chiamarsi fuori dalla logica dei blocchi contrapposti: «Non accetto nessuna crociata – spiegò – perché non accetto nessuna fede e rifiuto d’essere convertito. Non conosco certezze e il solo bene che difendo è il diritto al dubbio». Senza mai riuscire a diventare un cinico: «Sono quarant’anni che trascino intatte per il mondo le mie illusioni, nonostante tutti gli sforzi per sbarazzarmene e per riuscire, una volta per sempre, a non sperare più». Se non nella politica, almeno nella letteratura intesa come nascondiglio: «Vorrei che i miei libri fossero rifugi e che aprendoli gli uomini ritrovassero i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare».
Quando la contestazione giovanile cerca nuovi riferimenti intellettuali, l’immagine di Gary sembra coincidere con la vecchia Francia “coccardiera”, compromessa con quel sistema di potere gollista che si vorrebbe spazzare via. I suoi libri continuano a vendere ma i salotti lo trattano come un appestato e Gary – per aggirare il muro di reticenza che gli avevano costruito attorno o per dedicare loro un vero e proprio sberleffo – s’inventa Emile Ajar. E miracolosamente gli stessi che lo stroncavano immediatamente salutarono lo sconosciuto Ajar come «lo scrittore più promettente degli anni Settanta» senza sapere che si trattava della stessa persona. Qualche indizio c’era: Ajair in russo indica la “brace” e Gari significa “brucia”. Eppure nessuno sospetta nulla, tanto che nel ’75 Ajar si aggiudica il Goncourt per La vita davanti a sé, riconoscimento che non potrebbe essere assegnato allo stesso autore per due volte.
Quel che conquista critica e pubblico, decine di migliaia le copie vendute, è il linguaggio gergale e poetico al tempo stesso con cui viene tratteggiato – vent’anni prima che lo faccia Daniel Pennac – il mondo delle banlieu e la trasformazione che già dagli anni Quaranta stava colorando il volto di interi quartieri parigini. Una narrazione dal basso fatta attraverso la lente della quotidianità, che ha per protagonisti gli ultimi, gli innocenti, i reietti che ancora non sanno di esserlo. Come Momo, la voce narrante, che scoprirà solo crescendo il razzismo, «perché i neri finché sono bambini non dispiacciono a nessuno». Momo, infatti, è algerino e insieme ad altri “nati di traverso” – figli di prostitute – vive nel “pensionato” di Madame Rosa, a sua volta ex prostituta ebrea che sopravvive offrendo loro ospitalità in cambio di una pigione (magistrale l’interpretazione che nel film tratto dal libro nel ’78 fruttò a Rosa/Simone Signoret un César come migliore attrice).
Chi avrebbe potuto immaginare che quel “socialismo dal volto umano” applicato alla letteratura – «un romanzo toccato dalla grazia» lo ha definito Stenio Solinas – potesse essere opera di uno scrittore conservatore ormai prestato alla diplomazia e apparentemente interessato più alle frequentazioni del jet set internazionale e alle sue amanti che non a farsi cantore della società multietnica? Sarà la pubblicazione (postuma) di Vie et mort di Emile Ajar a rivelare la vera identità dell’autore, sino a quel momento attribuita al nipote di Gary.
«Per essere qualcuno bisogna essere molti», fa dire a Momo e Ajar non era certo l’unico degli pseudonimi di Romain Gary, il cui vero nome peraltro è Roman Kacew. Non a caso il titolo della biografia dedicatagli da Myriam Anissimov, ancora non disponibile in lingua italiana, è proprio Il camaleonte. Per lunghi anni assente dalle nostre librerie, grazie alle edizioni Neri Pozza le opere di Romain Gary nell’ultimo lustro sono tornate disponibili.
L’ultima in ordine di tempo, fresco di tipografia, è Mio caro Pitone (pp. 238, € 12,50), la prima, nel ’74, a firma di Emile Ajar, vera e propria denuncia dell’incomunicabilità del mondo moderno (come suggerisce il titolo, il protagonista, per lenire la propria solitudine finirà per accompagnarsi a un pitone). Con una rapida visita in libreria e a prezzi contenuti si possono portare a casa, oltre ai titoli già citati, gli altri romanzi recentemente ristampati dalla casa editrice milanese, tra cui Cane bianco (2009, pp. 238, € 12,50) – in cui Gary, convinto che «scopo della democrazia sia far accedere ogni uomo alla nobiltà», mette alla berlina la «democrazia americana» in bilico tra il razzismo della destra e l’ipocrisia delle anime belle democratiche – e Biglietto scaduto (2008, pp. 223, € 12).
In quest’ultimo più che in altri si rivelano i motivi reali della fatica di vivere dello scrittore. La molla che fa scattare il malessere è data dal comparire sulla scena di un amico del protagonista. L’uomo che ha di fronte sembra solo l’ombra del milionario brillante e circondato di donne che dieci anni prima aveva ammirato con un pizzico di invidia. Che delusione rivederlo irrimediabilmente invecchiato e alle prese con l’impotenza, lui che – come Gary, del resto – era un vero playboy. E il declino della virilità – descritto con cruda (auto?)ironia – in questo “romanzo della decadenza” non rappresenta soltanto l’ossessione principale del protagonista ma anche la metafora del declino di un’Europa che non crede più a se stessa. «Pagheremo l’aver perso in creatività – scrive Gary – il non avere più orgoglio, l’aver delegato alle multinazionali, il confondere l’economia con la politica, il pensare che gli sfruttati se ne staranno tranquilli al loro posto».
Guardarsi indietro non dà alcun sollievo: «Cerco di calmarmi chiudendo gli occhi e facendo il conto di tutti i nazisti che ho ucciso durante la guerra – scrive – ma questo non fa che deprimermi ulteriormente perché vorresti ammazzare l’ingiustizia eppure finisci sempre per ammazzare degli uomini». In tempo di pace – diceva Nietzsche – l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso e Gary, alla fine dei conti, aveva nostalgia del ragazzo guerriero che era stato tanti anni prima, quello che tra un’impresa estrema e l’altra, tra una missione di guerra in terra d’Africa e un duello per salvare l’onore, aveva finito per cedere il passo al borghese che mai avrebbe pensato di diventare. «I borghesi – fa dire a Pech in Educazione europea (ristampato da Neri Pozza nel 2006) – sono uguali dappertutto e mandano la stessa puzza in tutti i paesi del mondo». C’era forse del rimpianto quando Gary rivolgeva (a se stesso?) il seguente avvertimento: «Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità».
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Tratto dal Secolo d’Italia di venerdì 29 ottobre 2010.
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