Il mondo arabo, tutt’altro che marginale rispetto agli influssi delle dottrine greche, aveva già assimilato molto prima del XII secolo la scienza dell’Ellade e la sua filosofia, speculazioni che per il resto dell’occidente continuavano ad essere sconosciute perché dimenticate per mancanza di trascrizioni dal greco delle opere antiche. La filosofia araba appariva ai pensatori occidentali come la manifestazione stessa della ragione, e quindi una chiave nuova (ma che si ancorava a principi eterni e immanenti) per l’interpretazione del mondo nella sua totalità. La filosofia occidentale aveva in comune molti tratti con l’approccio metodologico del mondo arabo, ma in special modo la natura stessa del suo problema di origine: anche la filosofia araba infatti era una scolastica. Vi era cioè il tentativo di trovare una via d’accesso razionale (e quindi umana, terrestre) alla verità rivelata (uranica, superna), e la verità di cui si parlava nel Corano aveva molti tratti in comune con quella cristiana; per di più, come nell’ambito cristiano, la filosofia araba si nutrì e visse in seno al neoplatonismo e all’aristotelismo[1]. Il principio di necessità sarà basilare per le idee e la visione del mondo arabo: Al Farabi, Avicenna e Averroè sono tutti devoti aristotelisti. La necessità (anankè, presente già nel dramma e nell’epos teatrale greco) domina il mondo divino e quello mortale, e ad essa non sfugge il mondo delle cose finite che è necessario non di per sé ma per la sua dipendenza da Dio; né gli sfugge la volontà umana, dominata da una catena causale. Una volta che la scolastica latina riceverà ed assimilerà la lezione araba sull’aristotelismo, dovrà effettuare il principio di sottrarlo al principio di necessità, sostituendo ad esso il principio di contingenza che permetta di comprendere e motivare la libertà creativa di Dio e il libero arbitrio dell’uomo.
Le prime traduzioni arabe delle opere di Aristotele furono dovute però a dotti cristiani siriani o caldei, che praticavano la medicina e la chirurgia con la stessa devozione con la quale componevano inni all’amore filosofico e mappavano precisissime carte stellari, adottate nella tecnica per le navigazioni e l’architettura, e che vivevano come medici alle corti dei califfi; il precursore fu il grande Haroun El Rashid (785-809), amico[2] di Carlo Magno e dell’impero dei franchi, mecenate dell’opera “Le mille e una notte”; da lui in poi si diffondono i Mutakallimum (‘disputanti’). L’affermazione fondamentale di questi filosofi fu la novità e la discontinuità del mondo, che rende necessaria la presenza di un Dio creatore. Essi adotteranno la dottrina atomica di Democrito, che conoscono dalla esposizione che ne fa Aristotele. Gli atomi, essi dicono, non hanno né quantità né estensione, e sono creati da Dio sempre che egli lo voglia. Le cose dunque risultano dall’aggregazione degli atomi e le loro qualità non dovrebbero poter durare in due istanti, cioè in due atomi di tempo, se Dio non intervenisse continuamente a crearle. Quando Dio cessa di creare le cose, le loro qualità e gli atomi stessi cessano di essere semplicemente. La discontinuità dunque rende possibile e necessaria l’incessante azione creatrice del superiore garantendo la libertà stessa della creazione ovvero dell’inferiore e materico. A rafforzo di questa tesi i Mutakallimum negavano la relazione di casualità tra le cose. Le cose create non hanno tra loro relazione di causa né di effetto. Il fuoco ha l’abitudine di allontanarsi dal centro della terra e di produrre calore; ma la ragione non si limita di ammettere che il fuoco potrebbe muoversi verso il centro e produrre freddo, pur restando fuoco. I nessi causali non hanno alcuna necessità intrinseca, poiché stabiliti unicamente da Dio, che può essere causa prima e causa agente ed efficiente, producendo direttamente tutti gli effetti nel creato. Un altro filosofo che visse alla corte di Bagdad ove morì nell’anno 873[3] fu Al Kindi, autore di numerosi commenti aristotelici. Segue da vicino le dottrine dell’aristotelico Alessandro di Afrodisia[4], che enumera in quattro intelletti:
- il primo intelletto è quello sempre in atto;
- il secondo è potenza nell’anima;
- il terzo è quello che nell’anima passa dalla potenza alla realtà effettiva;
- il quarto è intelletto dimostrativo (per Aristotele assimilato ai sensi, poiché il senso più vicino alla verità e in comunicazione costante con essa).
L’aristotelismo arabo che porta avanti Al Kindi attribuisce a Dio e all’intelletto l’iniziativa di conoscenza dell’uomo. Egli scrive che “L’anima è intelligenza in potenza: diviene intelligente in modo effettivo per l’azione del primo intelletto, quando volge il suo sguardo verso di esso. Quando una forma intellegibile si unisce all’anima, questa forma e l’intelligenza dell’anima divengono una sola e medesima cosa, che è nello stesso tempo ciò che conosce e ciò che è conosciuto. L’intelletto è però sempre in atto[5]”. La suddivisione tra l’intelletto attivo (il divino) e quello in potenza (umano) è tipica e diverrà comune nel pensiero arabo successivo.
Al Farabi fu invece il filosofo peripatetico, matematico e medico; morì nella città della pace (traduzione per Bagdad) nel 950; egli perpetua un discorso sull’essenza e l’esistenza che ritroveremo anche in San Tommaso. L’esistenza, si chiede Farabi, è forse il substrato ricettivo della forma, e quindi la possibilità della forma stessa? Forse, si risponderà, l’esistenza funzionerà semmai da materia per l’essenza, essendo mirabile dimostrazione del divino nel contingente. Quindi una cosa in funzione dell’altra, necessità intrinseca di sé stessa. Quindi, in seconda analisi, tutto ciò che esiste è o possibile o necessario. Se si afferma che una cosa dotata di esistenza possibile non esiste, non si enuncia un’assurdità, poiché per ricevere l’esistenza essa necessita di una causa prima (il motore immobile). L’essere necessario è unico e nessun altro all’infuori di lui possiede vera sostanza, poiché esso sfugge a tutte le categorie e a tutte le distinzioni. Esso non è né forma né essenza, ma le comprende entrambe. È l’atto più puro del pensiero, nella sua purezza, come oggetto pensante. Distinguerà inoltre tra essere necessario ed essere possibile, concetto duale fondamentale per tutto il pensiero successivo anche scolastico. Dall’essere necessario e precisamente dall’atto con cui l’essere necessario pensa se stesso (secondo lo schema plotiniano) nascono, secondo Al Farabi, i vari intelletti, che stanno fra loro come la materia -forma-potenza-atto. Vediamoli brevemente:
- Dall’essere necessario nasce il primo intelletto (il quale conosce se stesso e il necessario)
- In ragione del fatto che conosce se stesso, produce un secondo intelletto;
- Conoscendo se stesso (si potrebbe dire elevato alla seconda) crea il primo cielo, che è l’anima.
In questo modo, via via la creazione e la stessa consapevolezza di sé si va via via dipanando e prendendo forma; la consapevolezza dell’essere che conosce se stesso sarà fondamentale per la formulazione del concetto stesso di superiore e di oltre[6].
Avicenna (Ibn Sina) nacque in Persia, ad Asfana nel 980. Giovane precoce e geniale, a diciassette anni era già medico personale del principe di Bokhara, che fu da lui guarito e da quest’ultimo colmato di favori. Si racconta che alla domanda riguardo la ricompensa desiderata, che poteva comprendere ricchezze immense e cariche politiche, egli rispose che desiderava soltanto l’accesso illimitato alla biblioteca reale, tra le più grandi dell’Asia.
Il suo Canone[7] fu il libro più studiato dai medici di tutta l’Europa medievale; tramite il suo lavoro di commentario e di traduzione, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo l’opera di Aristotele fu rapidamente conosciuta nel continente europeo[8]. Il principio della speculazione di Avicenna è, come quella di Al Farabi, la necessità dell’essere; tutto l’essere, in quanto tale, è necessario. Nella Metafisica scrive “Se una cosa non è necessaria in rapporto a se stessa, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma necessaria in rapporto ad una cosa diversa[9]”. L’esistenza in atto è quindi sempre necessità; il possibile rimane tale fino a quando non ha esistenza in atto: quando la riceve, riceve al tempo stesso la necessità. Ciò implica che ogni possibile esige e richiamo essere necessario alla sua esistenza attuale. L’essere è necesse-este, ‘necessario’ precipuamente, ed è alla base della distinzione di Avicenna tra il reale dell’essenza e l’esistenza (concetto cardine della scolastica e del tomismo). Egli fu anche il filosofo della necessità assoluta; nulla per lui si sottrae al principio che ogni essere è necessario: neppure la volontà umana. Le decisioni della nostra volontà devono avere una causa, come tutto ciò che passa dall’essere dalla semplice possibilità. Gli avvenimenti celesti sono chiaramente interconnessi a quelli terrestri, e i secondi guidati dai primi, senza possibilità di scambio di ruoli.
Nel campo poi dell’antropologia scrisse che ciò che distingue gli animali dotati di ragione da quelli che ne sono privi è il potere di conoscere le forme intelligibili. Questo potere è l’anima razionale che si può chiamare anche intelletto materiale, perché vincolata al corpo; esso è detto anche intelletto in potenza, proprio perché limitato e non ancora sviluppato dalla consistenza materica. L’intelligenza in potenza sarebbe riscontrabile soltanto nei bambini, che ancora non hanno sviluppato strutture complesse di ragionamento; tali principi sarebbero le verità elementari come ‘il tutto è maggiore della parte’ e ‘due contrari non possono simultaneamente appartenere ad un’unica cosa’. Da queste semplici considerazioni, il pensiero inizierebbe la sua conoscenza diacronica delle cose, in modo perenne e costante per velocità e volontà di immedesimazione con il mondo fenomenico.
Avicenna si avvicinerà al Neoplatonismo riguardo l’immortalità dell’anima; scrive infatti che “quando l’anima sarà separata dal corpo, la continuità che unisce l’anima con l’essere che la perfeziona e da cui essa dipende non sarà soppressa. L’unione continua con la realtà, da cui essa deriva la sua perfezione e da cui dipende, mettendo l’anima al sicuro da ogni corruzione. L’anima rimane dunque dopo la morte immortale, costantemente, dipendendo da quell’altra sostanza che si chiama Intelletto Universale e che i dottori delle diverse religioni chiamano sapienza di Dio[10]” Riporta così l’immortalità, come la santità e la sapienza alla diretta azione dell’intelletto divino, e cioè dell’essere necessario. Poiché l’essere è necessario lo è anche il bene, e la felicità dell’uomo consisterebbe nella contemplazione dell’essere necessario. Avicenna parla poi frequentemente dei un amore che, in conformità alle concezioni aristoteliche, tende al fine supremo, contemplazione nel saggio dell’essere necessario. In ultima analisi, Avicenna specificherà che sia la via mistica che quella filosofica inseguono lo stesso obiettivo (ovvero la conoscenza dell’essere in quanto motore primo), ma entrambe si oppongono alle forme popolari del culto religioso, che tuttavia è dovere morale del sapiente non disprezzare[11].
Ebbe una vita molto avventurosa e travagliata, scampando a tumulti scoppiati nella città dove insegnava e dove aveva iniziato a scrivere il suo Canone di Medicina. Dopo aver influenzato pesantemente l’interpretazione filosofica degli successivi[12] cinque secoli, morì nel 1037. Cadde ammalato durante una campagna militare nelle province remote, al seguito del suo mecenate il principe di Hamadan, che lo aveva nominato Gran Vizir, dopo una breve ma intensa vita fatta di studio forsennato, dedizione al sapere, e uno spassionato amore per le donne ed il vino.
Note
[1] N.Abbagnano, Storia della Filosofia. La filosofia antica, la patristica e la scolastica, Utet, Torino 1993, pag.483.
[2] F. Prinz, Da Costantino a Carlo Magno, la nascita dell’Europa, Salerno Editrice, Roma 2004.
[3] E fu anche matematico, astronomo, medico, musicista e teorico politico.
[4]Alessandro discernerà tra le altre cose l’intuizione stoica della penetrazione dei corpi gli uni negli altri, specie riguardo alla divinità, il fuoco eterno che penetra e avviva il mondo intero, a differenza del νοῦς (“intelletto”) aristotelico, separato da questo e immobile. Andrà a riaffermare la libertà del volere, insegnata da Aristotele, contro la necessità degli stoici e degli atomisti, che comunque nel campo puramente etico ammettono anch’essi una certa libertà d’azione. Egli, tuttavia, è soprattutto l’esegeta per eccellenza di Aristotele, uno dei primi commentatori in assoluto. Dei suoi commentarî genuini si conservano quelli al I libro degli Analytica priora, alla Topica, alla Metereologia, al De sensu, ai libri I-V della Metafisica. L’interpretazione da lui data dell'”intelletto” aristotelico, gli ha assicurato un posto considerevole nella storia della filosofia, e ha dato origine alla scuola degli Alessandristi (v.).
[5] Citato in H.Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1991.
[6] Si pensi soltanto all’importanza data in ambito orientale- Buddhista alla conoscenza del Sè, il Sè che incontra Sè stesso, o in oppositorum nel tantrismo il Sè che uccide il Sè. La conoscenza dell’essere in quanto essere è centrale nelle concezioni tradizionali dell’esistenza; ricordo in ultima analisi Meister Eckhart, che in un dialogo si chiedeva la differenza ontologica tra sé stesso ed una pietra. La risposta era sempre di tipo conoscitivo: Anche la pietra è Dio. Ma essa non sa di essere Dio. Pertanto rimane un sasso, un divino sasso ma pur sempre sasso.
[7] Stampato in italiano con il nome di ‘Libro della guarigione’, in realtà sottocapitolo al canone; Avicenna, Libro della guarigione, Utet, Torino 2015.
[8] Gerardo di Cremona tradusse il Canone, mentre Domenico Gundisalvi e il rabbi Avendeath tradussero la Logica, la Fisica, la Metafisica, arrivando così al nocciolo delle disquisizioni aristoteliche.
[9] Avicenna, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, II, 1-2.
[10][10] N.Abbagnano, Storia della Filosofia. La filosofia antica, la patristica e la scolastica, Utet, Torino 1993, pagg.493-494.
[11] Chiara allusione alla distinzione aristotelica del sapere, in dottrine esoteriche ed exoteriche: due cose distinte per due auditori distinti.
[12] Citato sempre da tutti i dotti del medioevo cristiano compresi i padri della chiesa; fu indicato come ‘L’Aristotele arabo’.
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