Campagna globale e mercificazione del passato
La pandemia da Covid-19 ha amplificato una tendenza sociale già in atto prima del 2020: il desiderio di cercare nell’isolamento rurale, nell’idillio di una natura più o meno “selvaggia”, un ricovero dall’accelerazione produttiva della globalizzazione. Dei tratti contraddittori di tale tendenza si occupa, in un volume di Meltemi, Nostalgia rurale. Antropologia visiva di un immaginario contemporaneo, Pietro Meloni, antropologo dell’Università di Perugia (per ordini: redazione@meltemieditore.it, pp. 245, euro 22,00).
La nostalgia rurale ha determinato il ritorno di una minoranza di cittadini ai “borghi”e alla campagna. Il fenomeno è una: «“macchina del tempo”, dove il passato diventa una merce […] da rivendere» (p. 8). La ruralità, in tale modalità mercificata, è ben esemplificata dalle campagne del Chianti o della Val d’Orcia. In tali aree, il passato è stato letto in modalità monocorde, luogo storico di una “comunità” armonica, includente perfino i non-umani. Una lettura edulcorata della vita rurale, che non tiene conto delle lezioni di Walter Benjamin o di Carl Schmitt, indicanti il tratto frammentario e polemologico della modernità, dopo la quale il ritorno all’Ordnung rappresenta un’impossibilità. Il libro è il resoconto di un’indagine etnografica condotta, tra il 2012 e il 2022, dall’autore e da Valentina Lusini a Iesa, frazione del comune di Monticiano in Val di Merse, ubicato tra le provincie di Siena e Grosseto. Iesa è costituita da sei borghi: l’area ha subito, dopo il secondo conflitto mondiale, un forte spopolamento. Monticiano oggi conta la presenza di ben 18 nazionalità. La sua realtà culturale è stata ridefinita dai processi di globalizzazione, che hanno creato: «costanti polarizzazioni tra interno ed esterno, tra locali e stranieri, tra urbano e rurale» (p. 13).
Lo studio di Meloni è un’analisi dalla quale si comprendono le modalità di costruzione di tali spazi rurali: «che producono nuove relazioni e nuove ibridazioni» (p. 15). Il sogno neo-ruralista è segnato dalla polarizzazione sociale. L’autore muove dalla presentazione e dall’esegesi del quotidiano e degli aspetti marginali dell’esistenza delle popolazioni locali: la caccia, le abitazioni, l’amore per la natura. Avendo condotto la ricerca a “casa”, nei confronti degli interrogati (in numerose interviste) ha mantenuto un atteggiamento di “oggettivazione partecipante”. Il suo sforzo è stato quello: «di trovare una posizione che consenta (all’antropologo) di non essere né troppo distante né troppo vicino» (p. 25) al “mondo” dell’altro.
Oltre al resoconto scritto, strumento principe è stata la fotografia. Bourdieu, a riguardo, ha rilevato che: «la fotografia consente di equilibrare una relazione tra lo sguardo soggettivo del ricercatore e lo strumento oggettivo» (p. 28). Da foto e video emerge l’imponderabile della vita reale, l’inconscio fotografico, che sfugge al discorso verbale e si mostra, nei particolari delle immagini. La fotografia stimola, a posteriori, la riflessività critica del ricercatore. I due antropologi, durante il primo soggiorno, notarono che, nelle strade, erano affisse foto che ritraevano scene di vita quotidiana. Si trattava del repertorio fotografico di Piero Rosi, recuperato e selezionato per una mostra locale da Daniela, giornalista tedesca trasferitasi da qualche tempo in paese. A un primo approccio, queste foto, in forza dell’evocatività, sembravano presentare la “comunità” iesattola nel suo “farsi”. Le foto suscitavano due tipologie diverse di nostalgia: «quella provata dalle persone che hanno vissuto il passato di cui si parla e quella provata dalle persone che questo passato non lo hanno vissuto» (p. 65). L’ultima tipologia era proprio degli alloctoni, trasferitisi per sfuggire alla modernità. Le loro azioni miravano a tutelare il paese dal possibile sviluppo turistico. Essi incarnavano la tuscanopia, mirata alla tutela di una “toscanità” mitizzata e non reale. Nostalgia strutturale, in cui il passato, inalterato ma irrecuperabile: «definisce i comportamenti odierni […] incorniciandoli nella “rappresentazione collettiva di un ordine paradisiaco”» (p. 72).
Etimologicamente il temine “nostalgia”, oltre al “ritorno”, ha in sé il riferimento al dolore. È la nostalgia degli autoctoni, ben rappresentata dalla testimonianza di Giordano Bruno, orgoglioso della propria eredità “etrusca”. Essa è costruita su un ambiguo sentimento di odio-amore e di rivalsa nei confronti del paese natale. Giordano Bruno definisce “tragici” i boschi che circondano Iesa. Ha contezza del duro lavoro, delle sofferenze che la vita contadina impone, sa della dicotomia tra racconto pubblico e privato nelle famiglie, riconosce l’asprezza e la sottomissione, anche violenta, della donna e dei bimbi in quel mondo. Dall’intervista a Enrico, invece, emerge una nostalgia nella quale il dolore è legato a qualcosa di irrimediabilmente perduto, una nostalgia riflessiva, consapevole della dialettica storica. Nonostante ciò, essa fa aggio sulla speranza che l’identità futura possa essere scritta in termini d’incontro tra autoctoni e alloctoni.
Meloni partecipò, nella ricerca sul campo, alle attività più rilevanti della vita sociale a Iesa: alle battute di caccia e alle occasioni conviviali. Descrive le abitazioni locali, le loro ristrutturazioni, gli oggetti e gli utensili esposti in esse. Giunge alla conclusione che: «la nostalgia locale, per quanto faccia leva sul desiderio di rievocare una continuità tra passato e presente, mostra nette cesure e ancor più evidenti risemantizzazioni» (p. 110). I trofei di caccia esposti nelle case della Val di Merse, richiamano la distanza tra spazio domestico e naturale: il selvatico ha accesso ai luoghi dell’umano, solo se “trasformato”, negato. Anche i trofei di caccia possono produrre polarizzazioni. L’intera valle, si configura quale territorio che: «rifugge il facile dell’ideale paesaggio turistico toscano» (p. 143). Il bosco di quest’area lo si può guardare: «come […] spazio di conoscenze e di relazioni, dove umani e non umani si incontrano riconoscendosi e contrapponendosi» (p. 154). Lo si evince dall’esercizio venatorio e dalle attività boschive dei carbonai, dei cavatori di ciocco, dei taglialegna: latori di vita sofferta, espressioni del “verde tragico”. Questi boschi vantavano la presenza massiva di castagni e querce, oggi sono infestati dal pino marittimo, segno tangibile dei nuovi tempi. Come i paesi sono ripopolati dai nuovi residenti, allo stesso modo si trasformano i boschi per la presenza del Pinus pinaster.
I due antropologi hanno preso atto che la “comunità”, pur agognata, in termini diversi, dai residenti, risultava di fatto inesistente e produttrice di divisioni. Essa è sempre in fieri, appesa al precario equilibrio della mediazione dialogica e relazionale: «di differenti immaginari oggettivati che si costruiscono vicendevolmente» (p. 212). Gli immaginari sono il prodotto delle modalità di relazione che instauriamo con gli altri e la natura. L’uomo e la comunità sono “accidenti culturali”.
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