Da quando l’uomo pose la propria volontà titanica come orizzonte ultimo di senso, il razionalismo elaborò le basi filosofiche per l’avvento di un individuo “astratto” (de-storicizzato e de-socializzato), atomo attorniato da una massa informe di esseri senza volto, pronto a rispecchiare passivamente la realtà; la quale, del resto, andrà sempre più identificandosi con la nuova economia di mercato e i molteplici e cangianti desideri di consumo connessi.
Con riferimento a questo tema, Bietti ha recentemente proposto al pubblico italiano Minima moralia, saggio a firma del filosofo francese Alain de Benoist pubblicato in due puntate sulla rivista Krisis nel 1991.
Benché sia trascorso un quarto di secolo da quando apparve per la prima volta ai lettori d’oltralpe, il saggio conserva una freschezza sorprendente, quasi che il nostro autore avesse percepito in anticipo gli sviluppi che avrebbero portato alla dissoluzione delle società occidentali nel globalismo mercificato. Il suo proposito è fornire punti di riferimento etici a chi voglia sottrarsi al gioco mortifero del consumismo.
Da quasi mezzo secolo, infatti, Alain de Benoist conduce sistematicamente un lavoro di analisi e riflessione sull’epoca presente. Rifiutando ogni forma d’intolleranza e settarismo, si caratterizza per un realismo che non vagheggia improbabili ritorni a mitiche età dell’oro, come giustificazioni al torpore di coloro che solo a parole si professano “ribelli”.
A emergere in Minima moralia è una critica all’individualismo prevaricatore e all’universalismo omologante, categorie in apparenza opposte, ma convergenti sul piano della massificazione; la decostruzione del mercatismo come nuova religione mondiale; infine, la lotta spirituale per il recupero dell’etica classica fondata sul concetto tradizionale di virtù.
Il volume si apre con un biasimo al regresso della morale in moralismo – di fronte alla costatazione che spesso, al giorno d’oggi, i discorsi altisonanti hanno come unico scopo quello di coprire le più ripugnanti malefatte. È a questo punto che inizia il percorso, che in questa sede vorremmo completare e ampliare, per comprendere a pieno la genesi dell’involuzione etica dell’uomo moderno. Se l’autore prende le mosse dalle filosofie utilitariste del Settecento, di cui Jeremy Bentham fu alfiere, è la riforma protestante a provocare la prima crepa nell’edificio.
Del resto, c’è una somiglianza sostanziale nel modo in cui è concepita la relazione tra morale e religione in Giovanni Duns Scoto (1266-1308) e Guglielmo di Ockham (1285-1347), da una parte, e nei riformatori Martin Lutero (1483-1546) e Giovanni Calvino (1509-1564), dall’altra, secondo la prevalenza di un volontarismo applicato alla teologia.
Appellandosi a un elemento di fondo del pensiero di Sant’Agostino, secondo cui il peccato originale non ha soltanto privato l’uomo del dono superiore della grazia, ma ne ha intaccato profondamente la natura, è sancito il primato della volontà sull’intelletto («è buono ciò che Dio vuole, perché Dio lo vuole»). Obbedire alla legge morale significa fare tutto ciò che è gradito all’Altissimo, soltanto perché Egli lo desidera. Il dibattito teologico concernente l’attributo biblico dell’onnipotenza divina – ovvero se sia da intendersi come potentia absoluta (potestà sciolta da vincoli) o come potentia ordinata (coerenza e prevedibilità dell’agire divino) – si risolve in favore della volontà incondizionata. La filosofia scolastica, nel suo tentativo di conciliare la fede con l’aristotelismo, affronta così uno scacco irreversibile.
Considerata sempre più oscura e impenetrabile, in corrispondenza con la radicalizzazione dell’antitesi fra Dio e le sue creature, la volontà divina verrà successivamente eliminata del tutto dal dibattito filosofico, e all’onnipotenza del Creatore si sostituirà prima quella di un sovrano assoluto, per finire nell’arbitrio delle assemblee “rivoluzionarie”.
La contro-riforma cattolica, dal canto suo, resta legata alla tradizione tomista. Francisco de Suarez (1548-1617) è ancora risoluto nell’affermare che i precetti della Legge Naturale sono conosciuti immediatamente e intuitivamente da tutti gli esseri umani che facciano retto uso della ragione.
I due secoli successivi della filosofia europea – a cominciare dalla scissione cartesiana dell’uomo in res cogitans (pensiero astratto e calcolante) e res extensa (materia inerte, piano liscio) – possono essere descritti con due linee di sviluppo: razionalismo ed empirismo, che hanno portato entrambi, in modi diversi, ad un distacco definitivo dell’etica dalla teologia.
La storia del razionalismo è un tentativo di ristabilire la conoscenza umana circa i fondamenti di una morale dopo che le guerre di religione e la nuova scienza avevano scosso i tradizionali fondamenti della filosofia classica e della dogmatica cattolica; senza negare la centralità di Dio nella vita morale, i razionalisti posero la loro enfasi sull’accesso alla conoscenza attraverso il “lume della ragione” – individuale – piuttosto che tramite il testo sacro o l’autorità religiosa.
La vicenda dell’empirismo in Gran Bretagna, invece, da Thomas Hobbes a David Hume, si articola nello sforzo di rifondare la conoscenza umana, anche morale, partendo non dall’alto (dai princìpi indubitabili della ragione) ma dal basso, dall’esperienza dei sensi. Hobbes afferma che tutta la realtà è “fisica” e tutti gli eventi, più o meno materiali, non sono che movimenti nello spazio. La volontà, allora, è un moto, ed è generata dal desiderio o dall’avversione. Ciò è così “naturale” e “ragionevole” perché gli uomini mirano esclusivamente alla propria conservazione e al raggiungimento del piacere.
In contrasto con l’etica comunitaria di Aristotele, Hobbes vede lo stato di natura come una condizione di guerra universale fra gli egoismi, che precede la costituzione in società. Essendo il primo precetto della legge di natura la tutela della vita e dei beni, gli uomini decidono di cedere i loro diritti originari su tutto e subordinarsi a un sovrano assoluto, il quale dovrà garantire coattivamente la pace e la convivenza.
Incontriamo quindi una figura emblematica dell’Illuminismo settecentesco: Immanuel Kant (1724-1804), punto di arrivo della speculazione razionalista e allo stesso tempo anticipatore del suo superamento nell’idealismo tedesco. Il razionalismo maturo di Kant fa derivare gli obblighi morali dal retto uso della ragion pratica individuale, da cui discendono la necessità e l’universalità degli stessi. La morale dell’uomo razionale è tale che egli obbedisce ad un comando che si è liberamente dato, in conformità alla sua natura. L’obbligo morale s’impone alla coscienza come un “imperativo categorico” (“tu devi”), una sorta di “legislazione morale universale” valida per ogni essere ragionevole.
La critica che de Benoist sferra al sistema kantiano riguarda proprio la sua astrattezza, il derivare da una ragione “a priori” priva di contatto con le situazioni concrete, producendo un sistema valido per ogni uomo.
Un passaggio di grande interesse nello studio del filosofo francese è la trattazione dell’ipotesi di fondare la morale sulle acquisizioni positive della scienza sperimentale, utilizzandone il metodo, a partire dagli accostamenti tra evoluzionismo darwinista e morale ad opera di Herbert Spencer. In questo senso, si attribuisce valore etico al processo di “selezione naturale” e la legge del successo, nella competizione concorrenziale, resta l’unico criterio di verità. Del resto, i sistemi morali fondati sulle teorie scientifiche non possono che avere una tenuta “provvisoria”, pronte a lasciar spazio alle novità.
L’opera si conclude con un richiamo all’etica classica delle virtù. Questa non mira ad individuare princìpi universali: in senso classico, il termine virtù (ἀρετή) indica la capacità di eccellere in un certo campo, e dunque di assolvere rettamente il proprio compito. Non designa il dovere, ma il “valore spirituale” – una forza d’animo e un vigore morale e fisico finalizzato alla realizzazione dell’essenza innata della persona – che si manifesta sul piano dello stile e del carattere.
Ed è il ritorno all’etica delle virtù, conclude de Benoist, che può salvare l’uomo moderno, ri-collocandolo nel solco della propria tradizione.
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Originariamente pubblicato su L’Intellettuale Dissidente il 14 giugno 2017.
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