Un libro di Riccardo Rosati
Sono trascorsi più di cinquant’anni dal 25 Novembre 1970. Quel giorno, lo scrittore Yukio Mishima, dopo ave occupato a Tōkyō l’ufficio di un alto ufficiale nel Quartier Generale delle «Forze di Autodifesa Giapponesi» (sic!), accompagnato da quattro giovani del Tatenokai, organizzazione militare non armata da lui stesso fondata, mise in atto il seppuku, il suicido rituale proprio degli antichi samurai. Il gesto, vera e propria messa in scena della morte, realizzato dopo aver arringato una folla di soldati increduli, che stettero ad ascoltarlo senza poterlo realmente capire, voleva essere un urlo di protesta contro il degrado morale e spirituale del paese del Sol Levante. Mishima inscenò, in tal modo, il più radicale rifiuto della modernità che la storia recente ricordi. Riccardo Rosati, orientalista, nel suo ultimo libro, Mishima. Acciaio, sole ed estetica pubblicato da Cinabro Edizioni (per ordini: info@cinabroedizioni.it, pp. 103, euro 10,00), sostiene che il seppuku fu lungamente meditato e preparato negli ultimi dieci anni di vita dello scrittore. Il volume è arricchito dalla prefazione di Mario Michele Merlino e da un interessante repertorio fotografico.
Per troppo tempo, riferisce Rosati, l’esegesi dell’opera-vita del grande giapponese è stata letta, sic et simpliciter, in termini meramente politici, quale espressione dell’acceso nazionalismo maturato, nel corso del tempo, da Mishima. Al contrario, l’autore, in queste pagine, si fa latore di una lettura eminentemente estetica della creatività e delle scelte dello scrittore. All’interno della Tatenokai, la scelta di indossare un’uniforme, come Mishima spiegò in, Sole e acciaio: «non avvenne per banali ragioni politiche, quanto piuttosto perché era degna di un corpo perfetto» (p. 16). Nell’intellettuale nipponico trovarono splendida sintesi le istanze del tradizionalismo e quelle proprie del ribelle, categoria antropologica, questa, che ha, eminentemente, un riferimento spirituale. Per Henry Miller sono i ribelli: «che salvaguardano la Tradizione, non quelli che lottano per conservarla e così facendo la soffocano sotto dottrine schematiche» (p. 17). Questi fu il Nostro, la cui vita intellettuale fu spesa alla ricerca di un gesto estetico atto: «a ridonare ordine e morale al Giappone moderno» (p. 18). Un gesto di bellezza apollinea sotto il quale pulsava, nella sua integrità, la potenza dionisiaca. Mishima, stanco del sedentarismo intellettuale, abbandonò, dopo la scoperta del lucore mattutino, la vita notturna novalisiana, le nebbie cariche di parole tra le quali era fino allora vissuto e scoprì il corpo forgiato dal Sole invitto.
La scoperta, con il correlato incipit vita nova, si evince dalle pagine di Sole e acciaio. Mishima, da quel momento, di dedicò alla pratica delle arti marziali e, in particolare, del kendo, in quanto in esse, la dimensione spirituale si realizza nel e attraverso il corpo. In lui si affermò una vera e propria mistica della corporeità, esemplarmente simbolizzata dal San Sebastiano di Guido Reni. Nel corpo violato del martire emerge, non semplicemente, il tratto apollineo della corporeità, ma il suo correlato tragico: l’estinzione, il dolore, la sofferenza. Pertanto, nell’estetica mishimiana: «bellezza e distruzione, corporeità e annichilimento camminano di pari passo» (p. 29). Non è casuale che, durante un viaggio giovanile in Europa, lo scrittore rimanesse abbagliato dai marmi rilucenti sotto il sole della statuaria greca. L’attrazione per il vigore dei corpi si evince anche in Taccuini olimpici, silloge degli scritti giornalistici, redatti in occasione delle Olimpiadi del 1964. Il tema della decadenza della bellezza e del suo svanire è, invece, tratto costitutivo del romanzo Il Padiglione d’oro.
Il monaco, protagonista del narrato: «riesce ad amare il Padiglione d’oro, in tutto il suo sfolgorante splendore, solo nell’attimo in cui questo rischia di essere distrutto dall’incendio che egli stesso appicca» (pp. 37-38). E’, quindi, evidente che l’intera estetica mishimiana si muove all’interno della dualità bellezza-distruzione, amore-morte. La cosa emerge con chiarezza indubitabile nel racconto, Patriottismo, che successivamente, avrà una versione cinematografica per la regia dello stesso autore. L’apice della narrazione è data dal seppuku della coppia dei protagonisti, l’ufficiale Takeyama, incaricato di guidare il reggimento che avrebbe dovuto sterminare dei commilitoni condannati a morte per un tentativo fallito di colpo di Stato, e sua moglie Reiko: «L’uomo riponeva piena fiducia in lei, sapeva che la donna non avrebbe temuto alcun sacrificio […] affinché l’ultimo atto eroico del marito fosse degno di stima e rispetto» (p. 39). Mishima, nella descrizione, riesce a sublimare il doppio suicidio in una scena di amore intensamente vissuto, da cui si evince come la dissipazione di ciò che è bello e giovane possa suscitare ammirazione. Un notissimo motto nipponico recita: «Fra i fiori il ciliegio, fra gli uomini il guerriero»: gli uni e gli altri non fanno che testimoniare il tratto entropico, dissipativo della vita. Il guerriero, nello spendersi incondizionato, dissolve la propria possente natura nella morte, come accade al fiore del ciliegio primaverile, disperso al suolo dal primo alito di vento.
Un’estetica volutamente eccessiva, provocatoria, antiborghese quella mishimiana. Essa, ricorda Rosati, ha avuto un antecedente in Tanizaki. Al centro delle narrazioni di quest’ultimo sta la donna, bella ma crudele. Egli sa dosare, nel narrato: «bellezza e raccapriccio» (p. 46), esimendosi da qualsiasi giudizio morale nei confronti dei personaggi. Canta il dolore dell’animo, anche se, in alcuni contesti, non rifugge dal presentare l’amore quale forza dissolvitrice e produttrice di dolore fisico. Inoltre, il romanziere è solito porre, al fianco della bella donna, un uomo anziano, il cui corpo è decrepito. E’ tale tratto dualista dell’estetica di Tanizaki che ha agito su Mishima. Entrambi hanno trattato della crudeltà sia per propensione etnica, quanto per la concezione fatalista dell’esistenza, ma anche: «per un marcato disprezzo per il pavido attaccamento alla vita» (p. 50). I due scrittori hanno narrato lo snaturamento del Giappone moderno. Conclusivamente, Mishima si fa latore di una filosofia dell’azione, nella convinzione che solo la sintesi di pensiero e atto possa realizzare la vera conoscenza: «L’azione è […] sopra ogni altra cosa movimento, il gesto in opposizione alla noia […] e soprattutto la ricerca di una purezza scevra da qualsiasi attaccamento» (p. 64) mondano. Da ciò discende l’attrazione, ricambiata, di Mishima nei confronti dei giovani e della giovinezza.
Lo scrittore fu sempre alla ricerca della forza. Forse sarebbe meglio dire della fortezza in senso greco (andreia), vale a dire di quella qualità che pone in uno, spirito, pensiero e corpo, e che diviene la spinta anagogica dell’animo nobile verso l’assoluto. Sotto il profilo culturale, pertanto, Mishima si attesta: «in una scomoda “Terra di Mezzo”, a metà strada tra Oriente e Occidente» (p. 70). A lui, riconoscenza e pieno apprezzamento.
Lascia un commento