Le religioni dei Celti e dei popoli Balto-Slavi

Vittore Pisani, insigne studioso scomparso nel 1990, ha dato lustro alla tradizione degli studi filologici e storico-religiosi. Fu docente nelle Università di Firenze e Cagliari e, successivamente, nell’Ateneo milanese, che aveva già inglobato la Regia Accademia Scientifico-Letteraria, dove aveva svolto il proprio magistero il goriziano Graziadio Isaia Ascoli. L’illustre studioso isontino ebbe il merito di liberare la glottologia dai vincoli metodologici che fino ad allora l’avevano legata alla Storia comparata delle lingue. Pisani operò sulla scorta dell’intuizione di Ascoli. Lo ricorda Maurizio Pasquero nell’Introduzione a un’opera di rilievo del filologo, Le religioni dei Celti e dei Balto-Slavi nell’Europa precristiana. Il volume è da poco nelle librerie per i tipi di Iduna editrice (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 101, euro 12,00).

La prima edizione del libro uscì nel 1950. Si trattava della rielaborazione di una serie di scritti che l’autore aveva pubblicato sulla prestigiosa Storia delle religioni, edita da UTET e diretta da Pietro Tacchi Venturi, noto come “il gesuita di Mussolini”. Il testo ha il rigore dello studio accademico ma è in grado, al contempo, di coinvolgere il lettore non specialista. Il tratto che si evince immediatamente nelle opere del Pisani, è la dimensione affabulatoria, coinvolgente della prosa. Il volume in questione è aperto dalla trattazione della religione dei Celti. L’autore muove dalla presentazione dello stato “fluido” nel quale versava l’Europa dei primordi, sospesa tra i culti ctonio-femminili delle religioni indo-mediterranee e la nuova visione di cui furono latori gli invasori euroasiatici. Avevano, questi, una visione patrilineare e, pertanto, il loro mondo era: «socialmente stratificato, elevava […] nel proprio pantheon celeste figure in prevalenza maschili» (p. IV). Nell’esegesi dei culti dei popoli indagati emerge un rimescolamento delle due kultur. Sotto il profilo del metodo è necessario tener presente, precisa lo studioso, che le notizie a nostra disposizione sul periodo più arcaico delle religioni dei Celti e dei Balto-Slavi sono limitate e, in epoche più tarde, viziate dall’interpretatio romana e cristiana.

Al centro della religione celtica stava la casta sacerdotale dei Druidi, che trasmetteva oralmente il sapere sacro. La Keltiké delle origini aveva il volto di: «una religione omogenea, politeista, fortemente legata alle manifestazioni della natura» (p. V) ma, nel corso del tempo, andò trasformandosi. I Druidi svolgevano, al contempo,  funzioni sacerdotali, taumaturgiche, magiche e, stando alla lezione di Luciano: «impartivano la dottrina della trasmigrazione delle anime. Ma ciò […] non escludeva la credenza in “un mondo ultraterreno”» (pp. V-VI). I Druidi officiavano il rito, poiché erano gli intermediari della divinità suprema, che Cesare identificò con il Dis pater. A volte presiedevano a sacrifici  umani. Tali pratiche sono stigmatizzate negativamente dai commentatori greco-latini. In realtà, la pratica di: «decapitare i nemici non era un atto di crudeltà gratuita, il celta rendeva onore a un avversario valoroso e per celebrarne la memoria ne conservava e ne esponeva la testa» (p. VI). La Triade divina suprema era rappresentata da Taranis, “il fulminatore”, Teutates, il “dio degli eserciti”, Esus, dio “cinghiale”, seguiti da divinità minori quali Ogma, il dio “dell’eloquenza”, e Cernunnus, dio “cervo”, rinviante al Paśupati vedico, Signore degli animali. Non mancavano divinità femminili e uno stuolo di ninfe, cui si rendevano i dovuti onori nei santuari naturali a cielo aperto.

La religione degli Slavi, a dire di Pisani, era un sistema enoteistico caratterizzato da un assetto in cui primeggiava Perun, dio supremo, cui era consacrata la quercia. Spesso era rappresentato come fuoco, assumendo anche l’appellativo di “dio della calura estiva”. Vi erano, inoltre, dei antropomorfi ed altri con più busti o più braccia, caratteristiche da cui si evincono possibili influssi orientali. Assai diffusa tra gli Slavi era la divinizzazione dei fenomeni naturali: il fuoco, le sorgenti, i boschi, gli alberi, dove venivano venerati un numero considerevole di folletti rurali, spesso di indole maligna. Nel culto domestico avevano rilevanza divinità tutelari, simili ai Penati romani. I riti funerari contemplavano tanto la cremazione, quanto l’inumazione. In genere, la cremazione prevedeva la deposizione del cadavere su una imbarcazione che veniva data alle fiamme. Le donne potevano divenire sacerdotesse: ad esse era attribuita la pratica della mantica. I luoghi di culto erano costruzioni lignee, sul modello norreno, ma: «erano le selve l’ambito di culto prediletto, così come gli alberi la residenza degli dei» (p. X).

La religione dei Balti rivela, fin dalle origini, un’evidente sintonia con la religione primeva indoeuropea. Padre sommo era Perkúnas, divinità uranica avente per attributo la folgore e, spesso, identificato con il fuoco perpetuo, il Sole. Lo narra il mito di Teljavel, il fabbro che avrebbe forgiato il disco solare e lo avrebbe posto in cielo. La madre del dio supremo, Perkunatete, ogni notte lavava il Sole nell’Oceano affinché questi, il giorno successivo, rigenerato, tornasse a risplendere sul mondo. Tra le divinità telluriche, ruolo di rilievo era affidato a Kurkas, dio della fertilità. In suo onore, in Polonia, a metà del secolo scorso, veniva ancora eretto  l’ultimo covone della mietitura, a forma di fallo. Centrale la dea Pergrubias, che rinvia alla primavera, all’eterna rinascita della vita. Al suo culto si accompagnava quello di Pūšátis, Signore dei boschi che aveva dimora tra le radici di un sambuco e, al cui seguito, erano posti numerosi folletti. La triade suprema del Pantheon prussiano era rappresentata da Patelus, Perkúnas e Patrimpas. Patelus era venerato come anziano, mentre Patrimpas aveva le fattezze di un giovane. Il loro potere era contrastato dal malevolo dio ctonio, Vēlionis, custode delle anime e praticante la magia nera. Brughiere, acque e selve erano ritenute sacre: «I culti religiosi si svolgevano prevalentemente all’aperto e consistevano in sacrifici che […] contemplavano offerte vegetali e animali» (p. XIII). Il tempio più importante si trovava a Romowe e il culto era presieduto da un pontifex maximus.

Un libro importante quello che abbiamo presentato, in quanto porta alla luce gli aspetti essenziali di religioni arcaiche, ancora oggi, poco conosciute ma rilevanti per la definizione dell’ubi consistam della Tradizione europea.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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