Un tratto caratteristico dell’ “intellettualmente corretto” va individuato nello scoperto ostracismo verso tutto ciò che risulta essere “altro” dalla vulgata, creata ad hoc ed eterodiretta dal sistema comunicativo, fondata sui valori materialistici e utilitaristici. Ciò ha indotto, negli intellettuali d’apparato, un’evidente pigrizia mentale, un’incapacità a superare gli steccati ideologici marcati dall’industria culturale. Prendiamo il caso della critica letteraria nel Novecento, che ha manifestato una chiusura totale nei confronti delle espressioni letterarie non riducibili alla lettura “verista” del reale. Le cose sono cambiate a muovere dagli anni Settanta, grazie a due pionieri della letteratura fantastica e fantascientifica, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco. In quegli anni, i due autori presentarono, per la casa editrice Fanucci, opere rilevanti afferenti ai due generi letterari, in una veste editoriale impeccabile, con traduzioni affidabili, i cui testi erano preceduti da introduzioni mirate a contestualizzare il contenuto dell’opera e la figura dell’autore. E’ da poco nelle librerie, per i tipi di Jouvence, il volume di De Turris-Fusco, Nuove meraviglie dell’impossibile, per la cura di Luca Ortino, accompagnato dalla postfazione di Loris Pinzani (per ordini: 02/24411414, info@jouvence.it, pp. 335, euro 22,00).
Dopo l’uscita per Mimesis nel 2016 del libro Le meraviglie dell’impossibile, nel testo di cui qui si discute, compaiono altre 20 di quelle introduzioni. Perfino al lettore più superficiale, esse mostrano la sagacia esegetica degli autori: si tratta di veri e propri saggi chiarificatori. Dalla lettura si evince, innanzitutto, il lavoro di svecchiamento critico prodotto dai due, in quanto, negli anni Sessanta, la fantascienza: «era considerata un trastullo per ragazzini introversi o per adolescenti immaturi […] non era vera letteratura» (p. 11). Al contrario, essi rilevarono con forza il legame che stringeva in uno, tale genere letterario, con le fiabe e con il mito: tale genere, quindi, avrebbe meritato un’analisi critica pari a quella messa in atto nei confronti di fiaba e mito da Propp, Campbell ed Eliade. De Turris e Fusco hanno integrato la lezione di questi ultimi, con il riferimento al tradizionalismo di Evola e Guénon. Naturalmente, furono aspramente criticati: «quello che allora era insopportabile è che ci fosse una cultura diversa e alternativa a quella dominante, che si avessero come fondamenti pensatori fuori dal coro» (p. 13).
Nella prima parte del volume, gli scritti chiariscono, lo ricorda con pertinenza argomentativa il curatore, che cuore vitale di ogni letteratura, e a maggior ragione del fantasy e della fantascienza, è dato dagli archetipi dell’assedio alla cittadella interiore, tema ben esemplificato nell’Iliade, e dal viaggio epistrofico verso l’Origine, evidente nell’Odissea. De Turris e Fusco, nell’occuparsi della produzione scrittoria di Corwainer Smith, mostrano come mito, fiaba e letteratura fantastica siano collegate tra loro, opponendosi alla tesi delle “incerte” origini di tale genere letterario, sostenuta da Gernsback nel 1926. A dire di tale studioso, Verne sarebbe stato l’unico riferimento imprescindibile della fantascienza. L’impostazione metodologica dei due critici, la si evince nel saggio dedicato a Il popolo dell’ombra, di Margaret St. Clair. Questo romanzo vive sul contrasto: «tra il mondo fantascientifico (un’America del futuro prossimo cupa e disperata) […] e il mondo di fantasia: un universo sotterraneo in cui si muovono creature d’ombra e mostruosità senza nome» (p. 36), e soprattutto, nello scritto dedicato a, Re in Giallo di Robert W. Chambers. In esso, si affronta il fenomeno degli “pseudobiblia”, il più noto dei quali è il Necronomicon di Lovecraft.
Chambers, per collegare gli episodi che costituiscono l’insieme della sua opera, ipotizza l’esistenza di un “libro maledetto”: «la cui lettura porta invariabilmente la tragedia nelle vicende dei personaggi che casualmente […] ne aprono le pagine» (p. 64). Merito di De Turris e Fusco è quello di ricostruire l’intera storia degli “pseudobiblia”, a muovere dal Libro di Thoth, citato in diversi trattati ermetici. Nel Medio Evo ci furono molti libri “ipotetici”, attribuiti, di volta in volta, a questo o a quel sapiente. Nel campo dell’occultismo, opere di rilievo vennero attribuite a Re Salomone, a Enoch, a Ruggero Bacone. Per non parlare, tra i molti documenti pseudo-epigrafi, della lettera del Prete Gianni a Papa Alessandro III, a Federico Barbarossa e a Emanuele Comneno. La figura mitica del Prete Gianni, come fu notato da Evola e Bussagli, rinvia al “Re del mondo”, esemplificazione, dal punto di vista del pensiero di Tradizione, del Centro. I due autori, non trascurano di certo, nei loro attraversamenti letterari, la dimensione stilistica. Caso emblematico è rappresentato dal testo dedicato a Jack Vance. La migliore produzione di questo scrittore è quella del ciclo della “Terra morente”. In essa, lo stile nasce da un’attenta ricerca linguistica: «l’impiego di termini inconsueti serve […] ad ampliare la gamma dei colori e degli effetti» (p. 51), che Vance tratta con misura, consapevole che il valore effettistico è potenziato dai mutamenti: «improvvisi di vocabolario e di ritmo» (p. 53).
Scritto rilevante è, inoltre, quello inerente le origine della Heroic fantasy: «storie avventurose che si svolgono in mondi immaginari preistorici o medievali, in cui tutti gli uomini sono forti, tutte le donne belle, e la vita tutta un’avventura» (p. 103). Tale genere fu creato dalla fantasia di William Morris che, alla fine dell’Ottocento, scrisse otto romanzi che influenzarono Lord Dunsany. Questi: «concepì intere cosmogonie dando vita a differenti pantheon composti dalle divinità più assurde» (p. 104). Punto apicale dell’Heroic fantasy è da individuarsi nella trilogia di Tolkien e nell’opera di Mervyn Peake. La lettura di questo libro consente una ricostruzione a tutto tondo della letteratura fantascientifica del secolo scorso. Tra gli anni Venti e Trenta, questo genere letterario fu diffuso dalle riviste pulp americane. Poco alla volta, i cliché iniziali, attorno ai quali era stata costruita, furono superati in forza delle produzioni di Weinbaum, che rese vivi i personaggi e aprì il genere a tematiche d’attualità.
La fantascienza degli anni Quaranta registrò le angosce dell’epoca, prodotte dal dramma del conflitto mondiale e dal successivo terrore, indotto dalla possibile catastrofe nucleare. Lo si evince, tra gli altri, dal romanzo, Incidente nucleare di Lester del Rey. Sarà la scuola di John W. Campbell a rendere la fantascienza, narrativa di idee: «sviluppando e caratterizzando […] il genere tramite un affascinante amalgama fra speculazione scientifica e idee sempre nuove» (p. 149). Negli anni Cinquanta, connotati dalla produzione letteraria di Philip K. Dick, si consolidò l’innesto nella Science Fiction di tematiche sociali, politiche, economiche. L’aggiornamento letterario avvenne a muovere dal 1960, con la New Wave. De Turris e Fusco propongo l’analisi mirata delle opere di T. M. Dish, nel quale tale processo si compì in modalità definitiva. In realtà, va ascritto ai due studiosi un merito indiscutibile: hanno dato contezza delle origini del genere grazie all’approccio mitico-simbolico e hanno individuato nel fantastico una formidabile arma critica nei confronti del mondo contemporaneo, come si evince dalle pagine dedicate al romanzo di Damon Knight, Il lastrico dell’Inferno.
Nuove meraviglie dell’impossibile induce nel lettore una convinzione forte, da ciò la sua rilevanza: le cose non sono mai quello che dicono di essere, nel dato materiale, immediatamente reale, vive una realtà più profonda che la modernità ha obliato.
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