La filosofia contemporanea – non questo o quello specifico indirizzo di pensiero, ma la filosofia contemporanea nel suo insieme – si caratterizza in primo luogo per la svolta relativistica che ne segna l’impostazione generale e ne condiziona possibilità, prospettive e risultati, nonché per una complessiva perdita di certezza che la differenzia nettamente dalla filosofia delle età precedenti. Pertanto essa si può identificare, di contro – ad esempio – all’idea platonica di una ricerca della verità oggettiva e stabile, come una scienza mancata (un pensiero debole?) o, meglio, come ciò che oggi rimane di un sapere perduto.
La filosofia antica, come spiega Aristotele nell’Etica Nicomachea, non mirava al conseguimento di una semplice saggezza (phrónesis), relativa alle cose mutevoli e contingenti, ma a una suprema sapienza (sophía), contemplazione delle cose eterne e, quindi, capace di rendere quasi divini coloro che la raggiungevano. Platone, dal canto suo, opera una distinzione netta fra scienza (epistéme) e opinione (dòxa): la prima che, essendo conoscenza delle idee universali, è vera e logicamente immutabile (epistéme deriva dal verbo epistamai, che significa “stare fermo”); la seconda che riguarda le realtà soggettive, mutevoli e contingenti. L’opinione può corrispondere a un dato reale ed esatto, tuttavia rimane ontologicamente diversa dalla scienza, perché quest’ultima non concerne soltanto le “cose vere”, ma la sfera di ciò che è vero in quanto immutabile, ossia la sfera dell’Essere in sé. Per Platone l’unica vera scienza è la filosofia e, più precisamente, quella parte della filosofia che corrisponde alla dialettica.
Questo quadro concettuale è stato sottoposto a critiche già nell’antichità, tuttavia la maggior parte dei pensatori lo ha sostanzialmente accettato fino a tutto il Medioevo e allo stesso Rinascimento. È solo con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo che la cultura occidentale si allontana decisamente sia dall’idea aristotelica della filosofia come ricerca della sophía, della sapienza suprema come contemplazione delle coste eterne, sia dall’idea platonica della scienza come epistéme, conoscenza certa e immutabile delle idee universali che “stanno ferme e salde” al di là della contingenza che caratterizza il mondo fenomenico.
Questo avviene perché Galilei, Cartesio, Newton, esaltati dalle scoperte fatte nel campo del mondo fisico mediante il ragionamento induttivo e la “sensata esperienza”, elaborano un nuovo concetto di scienza, che non è più la filosofia e neppure quella parte della filosofia che si occupava dei fenomeni fisici, la filosofia naturale di Aristotele. Partendo dal principio di intersoggettività, secondo il quale le affermazioni della scienza non sono credenze individuali, bensì devono essere condivise da chiunque sia dotato di ragione e sia intellettualmente onesto, viene elaborato un nuovo modello di “sapere scientifico” che risponde a due criteri fondamentali: soddisfare le caratteristiche del ragionamento logico-matematico e consentire una verifica sperimentale dei fenomeni.
Scrive Silvano Fuso nel suo articolo Scienza, pluralismo culturale, metafisica (sulla rivista Iter. Scuola, cultura, società, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002, n. 16-17, p. 94):
«Il primo criterio di intersoggettività a emergere è stato il ragionamento logico-matematico: il concetto greco di ‘dimostrazione’. Se si assumono per veri certi presupposti e si attua un procedimento deduttivo corretto, non si può non essere d’accordo con le conclusioni raggiunte. È questa l’essenza del cosiddetto metodo assiomatico, mirabilmente codificato in ambito logico da Aristotele e rigorosamente applicato in campo matematico da Euclide nei suoi celebri Elementi. Il secondo criterio di intersoggettività storicamente fondato riguarda l’osservazione sperimentale dei fenomeni. Com’è noto, esso venne introdotto in modo sistematico nel Seicento da Galileo Galilei. Di fronte a un’evidenza concretamente rilevabile, non si può non essere d’accordo con i fatti osservati. Malgrado si tratti di una constatazione così palese da apparire banale, è sufficiente ripercorrere la biografia di Galileo per rendersi conto delle difficoltà che questo secondo criterio di intersoggettività ha dovuto affrontare prima di riuscire a imporsi. C’è da notare che l’accordo intersoggettivo non garantisce in modo assoluto la verità di un’affermazione (può benissimo accadere che tutti quanti ci si stia sbagliando), ma è un buon indizio del fatto che l’affermazione in questione ha un’elevata probabilità di essere vera».
E subito dopo aggiunge, con ingenua assiomaticità:
«Questa mancanza di assolutezza non soddisfa molti oppositori della scienza, che vedono in essa soltanto un sapere relativo e provvisorio. Tuttavia, l’umanità non sa fare di meglio: l’oggettività, ammesso che tale concetto abbia senso, rimane inaccessibile».
Da parte nostra, lasciamo all’Autore la responsabilità di quest’ultimo apprezzamento, che ci sembra a dir poco temerario. Prendiamo atto, in ogni caso, del fatto che, per la scienza moderna (galileiana, quantitativa, meccanicista e riduzionista),”l’oggettività, ammesso che tale concetto abbia senso, rimane inaccessibile”; e che, per quanto “può benissimo accadere che tutti quanti ci si stia sbagliando”, il fatto che diversi scienziati affermino la stessa cosa la rende, molto probabilmente, vera, a dispetto del fatto che “l’accordo intersoggettivo non garantisce in modo assoluto la verità di un’affermazione”.
Come si vede, non si parla più di un sapere stabile e definitivo; le verità della scienza divengono oggetto di periodici, radicali aggiornamenti: i famosi “paradigmi” di cui parlava l’epistemologo Thomas Kuhn, che oggi sono veri e domani vengono totalmente abbandonati (come il modello geocentrico dell’universo rispetto a quello eliocentrico). Inoltre, non si parla più di verità assolute e immutabili; o, se se ne parla, esse vengono relegate in un ambito extra-scientifico; la scienza, infatti, nella nuova prospettiva indicata da Galilei, non si occupa che del mondo fisico e dei fenomeni relativi alla materia. Su di essi, però, essa si reputa capace di raggiungere un grado di certezza che, intensive si non extensive (qualitativamente se non quantitativamente) è esattamente lo stesso di Dio.
Questo è ritenuto possibile perché l’universo, secondo Galilei e i suoi continuatori, è un grande libro scritto in caratteri matematici; e la matematica non lascia spazio a margini di errore, ma solo a verità certe e inconfutabili. La somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo, ad esempio, è uguale a un angolo piatto; e ciò è vero per gli uomini come “deve” esserlo per Dio (meno male che, a quel tempo, nessuno ancora sospettava l’esistenza di geometrie non euclidee, ove la somma degli angoli interni di un triangolo può essere maggiore o minore di un angolo piatto).
Galileo Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, stampato a Firenze nel 1632, faceva dire da Salviati a Simplicio che
“l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinito è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcune proposizioni, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione aguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la qual non par che possa esser sicurezza maggiore”.
Ed al povero Simplicio – che ovviamene rappresenta (fin dal nome che Galilei gli ha appioppato) la magra parte dell’oscurantista pedante e limitato – il quale gli obietta, invero timidamente, che «questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito», Salviati (ossia, in realtà, lo stesso Galilei) ribatte con perfetta sicurezza:
“Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sì come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è un semplice intuito (…)”.
Galilei, astutamente, si serve di una famosa dimostrazione filosofica di San Tommaso d’Aquino che, nella Summa theologiae, aveva sostenuto non potere Iddio far sì che le cose accadute non siano accadute, nonostante la sua onnipotenza (perché ciò implicherebbe, secondo l’aquinate, contraddizione logica), per accostarla al suo ragionamento sulla perfezione delle leggi matematiche e ribadire che, in fatto di geometria, l’essere umano è in grado di sapere alcune cose esattamente con lo stesso grado di chiarezza con cui le conosce Dio.
Ad ogni modo, il nuovo concetto di scienza che si viene delineando nel corso degli ultimi quattro secoli finisce per accogliere l’idea di un relativismo storico delle verità scientifiche, ossia l’idea che nessuna verità scientifica deve ritenersi assolutamente e definitivamente vera, ma che ciascuna verità scientifica è solo provvisoriamente vera, sino a quando non giungerà qualcuno in grado di confutarla. Anzi, non solo le singole verità, ma gli stessi panorami generali della scienza (termodinamico, elettromagnetico, cosmologico e via dicendo) possono essere soggetti a un’opera di periodica, radicale confutazione, sulla base di nuove scoperte e di nuove teorie più soddisfacenti, cioè capaci di spiegare la realtà in modo più semplice e lasciando il minor numero di elementi d’incertezza o di mancata spiegazione.
Questa impostazione del concetto di scienza riceve un autorevole avallo dalla stessa filosofia per opera di Kant che, in polemica con i “sogni” di una personalità di studioso (e di scienziato!) come quella di Emanuel Swedenborg, che aveva il torto di coltivare un’altra idea della scienza, respinse definitivamente la metafisica nell’ambito incerto del noumeno, ossia della ‘cosa in sé’ che, come tale, non può essere osservata e sperimentata (cfr. il nostro articolo su Kant e l’autocastrazione del pensiero moderno). Pertanto, nella cultura dell’Occidente si afferma definitivamente l’idea che vera scienza è solo quella che studia il fenomeno, essendo ilnoumeno (le idee universali di Platone e le cose eterne di Aristotele) definitivamente tramontato sul suo orizzonte speculativo.
Eppure, non tutti gli scienziati si sono rassegnati a un simile ridimensionamento degli orizzonti di verità e di certezza della scienza, qualunque sia il sapere che con tale parola intendiamo designare (fisico, filosofico, teologico). Fra essi troviamo un fisico e matematico del calibro di Luigi Fantappié che, in pieno XX secolo, rivendicava un altro modello di verità scientifica, che non solo non escluda, ma che contempli l’esigenza di una integrazione con il principio metafisico dal quale la realtà materiale trae origine e sostegno ontologico. Come egli stesso affermava (vedi il nostro articolo Luigi Fantappié e l’altra idea della scienza), la scienza materialistica e antifinalistica affermatasi col positivismo è solo una forma degenerata della vera scienza, che è sempre ricerca pura e spassionata del vero.
Anzitutto è necessario distinguere subito la vera scienza, e cioè la disinteressata ricerca del vero, che ha continuato a svilupparsi ignota in generale al gran pubblico, da quella scienza di maniera del secolo passato [cioè l’Ottocento, nota bene], imbalsamata in tanti libri e libercoli di cosiddetta volgarizzazione, ridotta spesso a un’accozzaglia di luoghi comuni, e gonfiata poi con estrapolazioni ingiustificate fino a divenire, col positivismo, un sistema filosofico che si pretendeva di applicare in ogni campo, compreso quello umano e sociale, anche lontanissimo da quello in cui i risultati primitivamente ottenuti erano veramente giustificati e sicuri.
“Così si deve proprio a questo errato indirizzo, se, una volta riscontrato valido il principio di causalità meccanica nel campo dei fenomeni fisici, non si esitava poi a proclamarne la validità universale ed esclusiva anche nel campo della vita e soprattutto dell’uomo, escludendo di conseguenza dall’universo ogni tendenza finalistica, che si riteneva un errore o una superstizione pericolosa da combattersi con tutte le forze. E invano tanti pensatori si affannavano a richiamare gli uomini alla realtà delle loro stesse persone che sempre agiscono mosse da fini futuri, e non come automi mossi dalla pura causalità meccanica.
“Si può dire anzi che è appunto in questa cieca e ostinata pretesa di voler privare l’uomo e, in generale, l’universo, dei suoi fini, che culmina in sostanza l’errore della falsa scienza dell’ottocento, pretesa da cui forse sono effettivamente scaturiti gran parte dei mali che oggi ci affliggono ma che in ogni caso debbono rimproverarsi non alla scienza vera e propria, ma alle sue arbitrarie e arretrate superfetazioni nel campo sociale e morale.
“Ma v’ha di più! È infatti solo con questo pregiudizio antifinalistico, radicato in tutta la scienza positivista dell’ottocento, che si può spiegare un fatto altrimenti inesplicabile, senza il quale la scienza si sarebbe accorta già da più di mezzo secolo, e nello stesso campo fisico, della perfetta compatibilità logica del principio di causalità meccanica con quello di finalità”.
Parole che dovrebbero esserere lette, rilette e meditate a fondo da tutti quegli araldi di un concetto di scienza ormai datato, che ha fatto irrimediabilmente il suo tempo e che si arrocca su una inutile cittadella da difendere contro ogni “eresia”: forse perché non sono poi tanto sicuri come vorrebbero far credere, nonostante l’arroganza con la quale si presentano come i soli depositari della “verità” scientifica.
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