La fine dell’Occidente

Una raccolta di scritti di Carroll Quigley

Usciamo dalla lettura di un volume interessante, La fine dell’Occidente. Trame segrete del mondo a due blocchi di Carroll Quigley, pubblicato da Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 283, euro 20,00). Il volume è curato da Spartaco Pupo, studioso del pensiero conservatore e docente dell’Università della Calabria. Il nome dell’autore è pressoché sconosciuto al grande pubblico in Italia, eppure, proprio grazie ai suoi studi: «si sono definitivamente superate le ricostruzioni teleologiche e deterministiche per far posto a una prospettiva della storia globale basata sull’analisi realistica e anti-ideologica degli eventi» (p. 7). Tale affermazione di Pupo accompagna, in modo diretto, il lettore nel mondo ideale dell’autore. Il volume è una silloge di saggi, interviste e conferenze di Quigley, i cui contenuti sono di stringente attualità.

Chi era costui, si chiederà il lettore? Lo storico nacque a Boston in una famiglia di origini irlandesi. Educato in istituti cattolici, si laureò ad Harvard. Presto si trasferì in Europa assieme a una collega, Lillian Fox, che divenne, in seguito, sua moglie. A Milano scrisse la tesi di dottorato, rimasta inedita, inerente la pubblica amministrazione durante il Regno d’Italia napoleonico. In quelle pagine Quigley sosteneva una tesi che metteva in scacco la vulgata storiografica in tema: Napoleone non impose ai paesi conquistati metodologie di sviluppo avanzate ma, al contrario, innestò, nel sistema francese, modalità amministrative e di bilancio già sperimentate in Piemonte e nel Ducato di Milano. Nel 1941 fu chiamato alla School of Foreign Service presso la Georgetown University di Washington, dove rimase per un quarantennio quale apprezzato e appassionato docente. Nel 1961 dette alle stampe la prima delle sue monumentali opere, The Evolution of Civilizations, nella quale presentò il proprio approccio olistico agli eventi storici. In un’intervista rilasciata al Washington Post, raccolta nel volume, si legge: «Noi olisti usiamo il pensiero come rete o matrice delle cose. I riduzionisti usano l’etica assoluta: le cose sono giuste o sbagliate; gli olisti usano l’etica situazionale» (p. 11). A suo dire, la civiltà rappresenta: «l’entità intelligibile dei cambiamenti sociali da un’epoca all’altra» (p. 11). La storia si sviluppa, in tale prospettiva, per fasi “espansive” e di “conflitto”. L’organizzazione militare, politica, religiosa ed economica è il volano dell’espansione che produce “eccedenze” di
diversa natura. Esse, da un lato, sono strumento di stabilità politica, dall’altro vengono “consumate” dai popoli fino alla “spreco”, che induce il “declino” di un dato assetto storico. Da tale condizione riparte ciclicamente una nuova fase della civiltà, come avrebbe notato, sia pure in diversa modalità esegetica, Toynbee.

Nel 1966, con il volume Tragedy and Hope, Quiegly attirò su di sé gli strali dell’“intellettualmente corretto”. Di fatto, in quelle pagine, nota il curatore, elaborò un’inedita ed: «eterodossa disanima storico-politica del mondo istituzionale angloamericano, fatta di trame segrete e intrecci complessi, messi in luce con rara lucidità» (pp. 12-13). Tra il XIX e il XX secolo l’Occidente vide sorgere la propria “tragedia”, gettò le basi di una sua possibile fine, subordinando la politica al potere finanziario. Fu un’oligarchia di origine britannica, di orientamento liberale e socialista, facente capo al Royal Institute of International Affairs, i cui gangli giungevano a controllare l’informazione di massa e il mondo accademico, a realizzare tale progetto. Allo scopo, fu creata un’associazione segreta, The Round Table Group, i cui adepti si sentivano i difensori: «della bellezza e della civilizzazione nel mondo moderno», per questo, avrebbero voluto diffondere: «libertà e luce […] non solo in Asia ma perfino nell’Europa Centrale» (p. 14). Questa rete britannica ebbe importanti corrispondenti oltre Atlantico: i Rockefeller, i Morgan e i
Lazard. Quigley non scrisse mai della presunta attività complottista di questo gruppo ma, alla luce dei documenti, svelò i canali di reclutamento di tale oligarchia e le sue modalità di infiltrazione nei potentati politici e culturali. In un capitolo de La fine dell’Occidente si legge: «la rete segreta è descritta come un sodalizio di entusiasti imperialisti rimasto in piedi fino a ben oltre il secondo dopoguerra» (p. 15). Per tale ragione le sue opere furono screditate, ritirate dal circuito librario e riproposte da case editrici della destra americana. Del resto, lo studioso collaborò con le più note testate del conservatorismo americano.

Il tema più rilevante, che emerge dalle conferenze, è l’idea che l’origine dei conflitti sia da individuarsi nella volontà, non di distruggere il nemico, ma di costruire un duraturo periodo di pace. Inoltre, lo storico fa rilevare che l’economia non può essere elevata a deus ex machina della esegesi storica, in quanto tale posizione induce una sottovalutazione della “complessità” degli eventi. Più in particolare, egli sostiene che la democrazia USA: «si è definitivamente affermata solo intorno al 1880, quando la distribuzione delle armi nella società era tale che nessuna minoranza fosse in grado di assoggettare con la forza la maggioranza» (pp. 20-21).

Dirimente risulta la lettura che lo studioso propose del mondo diviso in blocchi L’instabilità occidentale era data dall’ipertrofia assunta dal mondo finanziario e dalla mastodontica burocrazia. Gli occidentali continuano, anche oggi, a subire un continuo “lavaggio del cervello” che passa dalla Neo Lingua: «La certezza di poter cambiare la realtà modificando il significato delle parole» (p. 22), esito estremo del neo-gnosticismo. Il centralismo sovietico è letto da Quigley quale esito della storia russa, centrata sull’uso privatistico e semi divino del potere. Modello non esportabile in Occidente, come avrebbero preteso i teorici della contestazione. Il problema occidentale andava individuato nell’accelerazione comunicativa e nella distruzione delle comunità, dei corpi intermedi, realizzato attraverso: «la commercializzazione delle relazioni umane», atta a rendere gli uomini atomi.

Un mese dopo la sua ultima conferenza, il professore morì improvvisamente. Pertanto, alcuni dei testi contenuti nel volume, possono essere considerati il suo testamento spirituale. La fine dell’Occidente è un libro che riporta l’attenzione su un pensatore che, come si è visto, meriterebbe maggiore considerazione.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

  1. Antonio
    | Rispondi

    Come sempre ottimi consigli di lettura, grazie.

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