Io terrò duro, qualunque cosa accada

Di seguito pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Giovanni Sessa al volume di Otto Braun, “Io terrò duro, qualunque cosa accada”. Diario e lettere di un giovane volontario di guerra, OAKS editrice (pp. 255, euro 20,00).

Il libro che il lettore sta per leggere, Io terrò duro, qualunque cosa accada. Diario e lettere di un giovane volontario di guerra di Otto Braun, uscì in prima edizione italiana nel 1923 con il titolo di Diario e lettere, per la cura del filosofo politico Enrico Ruta. Attrasse l’attenzione di uno sparuto gruppo di intellettuali tra cui Benedetto Croce e Julius Evola. L’idealista magico, tra i primi, colse l’eccezionalità di questa silloge, individuando nel giovane autore un tedoforo ante litteram delle proprie posizioni speculative.

[…] La pubblicazione di questo testo ha a che fare […] con un ricordo di chi scrive. Nel 2008 contattai telefonicamente […] il filosofo Franco Volpi. Qualche anno prima aveva scritto la prefazione ai Saggi sull’idealismo magico di Evola: gli chiesi se fosse disponibile a rispondere a mie domande relative al suo percorso intellettuale, […] alla Rivoluzione conservatrice e a Evola. […] Fu molto gentile, ma declinò l’invito. Durante la conversazione […] dialogammo a lungo di idealismo magico. Mi disse: «Le consiglio vivamente di occuparsi di Otto Braun. È un autore davvero straordinario, di cui si sa poco. […] in fondo la parte più importante della sua opera è rappresentata da Diario e lettere. Si prodighi, se possibile, per farne una nuova edizione perché, finalmente, se ne torni a discutere». Ho raccolto il suo invito.

[…] Otto Braun nacque a Berlino il 27 giugno del 1897. Figlio del dottor Enrico Braun e di Lily von Kretschmann, autrice delle Memorien einer Sozialistin […] nota negli ambienti del socialismo tedesco per aver avuto parte attiva nella controversia teorico-politica tra l’ortodossia di Bebel e il revisionismo di Bernestein. Il giovane […] fu sensibile all’amor di patria, che visse in modo entusiasta, senza mai giungere al nazionalismo sciovinista. Al divampare del conflitto tentò di arruolarsi volontario, ma non vi riuscì. Chiese aiuto a un generale amico di famiglia e riuscì ad imbracciare il moschetto: fu ferito più volte e cadde al fronte combattendo eroicamente nel 1918, poco più che ventenne. Per aver contezza della valenza teorico-esistenziale dell’esperienza di questo enfant prodige, è ben tener conto che la sua epoca vide il condensarsi di tensioni inesplicabili, che agirono prepotentemente tanto a livello individuale, quanto collettivo in Europa, più in particolare nella Mitteleuropa.  E’ necessario collocare le pagine di Io terrò duro, qualunque cosa accada, accanto alle coeve esperienze, di vita e di pensiero, di Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, segnate profondamente dal riemergere del tragismo. I tre autori afferiscono a quel vasto movimento intellettuale che trascrisse nelle proprie produzioni, tanto i segni tangibili della fine di un mondo, quello borghese-cristiano, quanto la possibilità del realizzarsi di un Nuovo Inizio della storia europea. Ci riferiamo a quella congerie di pensiero che Massimo Cacciari ha definito “metafisica della gioventù”.

Per dirlo con le parole di Cacciari, l’“eroismo” teoretico-pratico cui si votarono: «consiste […] nell’impedirci ogni illusione e, in questo stato dell’anima, mirare a dar-forma al nostro in-dividuo, come se si vivesse in una Cultura, come-se quell’individuo fosse davvero simbolo». […] Bene, il giovane Otto, come testimoniano le pagine appassionate di questo volume, tese a realizzare in sé l’egemonikon, il Centro interiore atto a fornire al nostro percorso esistenziale direzione iperbolica […].  Egli era certo che l’incipit vita nova avrebbe avuto lo stigma della civiltà ellenica […].  Non auspicava un ritorno al passato, nulla a che vedere con prospettive regressive. Nella nuova civiltà avrebbero palpitato assieme le conquiste della modernità e quelle degli Antichi. Il Nuovo Inizio avrebbe visto configurarsi un mondo antico-moderno.  Della Grecia il nostro apprezzava, in ogni sua creazione, la superba sintesi di dionisiaco e apollineo.

[…] Di qui, l’esplicito dichiararsi “politeista”, “pagano”, “fedele alla vita”. […] Si è cennato all’interesse di Evola per Braun. Nel momento in cui il filosofo romano era intento, dopo l’esperienza dadaista, a rintracciare le coordinate teoretiche sulle quali costruire l’idealismo magico, guardò con ammirazione a Braun, la cui opera lesse nell’edizione tedesca del 1921. Il pensatore tradizionalista pone Braun al fianco di altri “spiriti della vigilia”, quali Weininger, Michelstaedter, Gentile, Hamelin e Keyserling […]. In Braun, […] non si tratterebbe di filosofia in senso scolastico, della elaborazione di un sistema, perché ciò che interessava realmente al giovane tedesco era: «lo spettacolo grandioso dell’autocrearsi di una volontà titanica, di una fede incrollabile, di una potenza demiurgica onde il valore divenga vita, realtà assoluta». […] Pertanto, alla luce dell’ “evangelo della volontà”, nucleo vitale della visione del mondo di Otto, è necessario trasformare ciò che il vivere ci offre, conformandolo al nostro scopo.

Evola non può non apprezzare, nel giovane, la “fedeltà alla vita”, l’approdo greco implicante il recupero della physis e l’attribuzione all’arte di un ruolo essenziale lungo la via della realizzazione. Inoltre, riconosce il tratto carlyliano dell’eroismo politico di Braun, della sua valorizzazione dell’uomo di Stato […]. Era consapevole che la “dominazione” reale, su di sé e la realtà, si trasformava in dato reale solo per quanti avessero risolto la corporeità nella libertà, come accade lungo le vie iniziatiche, ma la sua fu solo un’intuizione lungo tale percorso. Il limite della proposta di Braun è da rintracciarsi, per Evola, nel fatto che esperì la volontà dell’uomo come subordinata: «ad una superiore doverosità, egli umiliava l’Io nella sussunzione ad un compito, ad una missione che pareva procedergli quasi da un demone, da una potenza superiore». Il “porsi al servizio di un dio”, avrebbe distolto Braun dalla realizzazione nella pura immanenza: il daimon in tal prospettiva rappresentando una realtà trascendente.

[…] In realtà, […] nonostante qualche ambiguità teorica, legata alla trattazione del dovere da perseguire risolutamente, che rischiava di vincolare l’Io, non rendendolo assoluto […] Braun rimanga, a proposito del daimon, all’interno della prospettiva ellenica della trascendenza immanente, propria anche della visione evoliana. Stante la lezione di Gian Franco Lami, vivere “al servizio di un dio”, non implica l’abbandono mistico al Principio, ma risulta momento essenziale del percorso virtuoso, anagogico, del filo-sofo.

Una ragione in più per tornare a leggere, Io terrò duro, qualunque cosa accada.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

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