Il barone Ungern. Una biografia del Khan delle steppe

La storia esalta o denigra le azioni degli uomini d’eccezione. A volte capita che, uomini considerati nella loro epoca personaggi di primo piano, vedano il loro nome, con il trascorrere degli anni, perdersi nelle nebbie del ricordo. Altri personaggi, al contrario, praticamente misconosciuti in vita o il cui nome era caro esclusivamente ad una minoranza di accoliti, assurgono ad una celebrità insperata. Tra questi ultimi va sicuramente annoverato il Barone von Ungern-Ŝternberg, che fu fatto conoscere ai lettori occidentali  nel 1922 dal libro di Ferdinand Ossendowski, Bestie, uomini e dei. Da allora, il personaggio ha acquisito tratti leggendari, mitici, divenendo simbolo di un’intera epoca e di un progetto politico di tipo tradizionale, oltre che paradigma del guerriero e del suo ‘cuore avventuroso’. Delle sue gesta e della sua vita straordinaria si sono occupati in molti. Tra essi non possiamo dimenticare il romanziere Valdimir Pozner, francese di origini russe, che scrisse Il barone sanguinario, o Jean Mabire, al quale si deve Il dio della guerra. Nell’ultimo periodo è a disposizione del lettore italiano, una biografia, ricchissima di dati e notizie e costruita con metodo rigoroso, senza che ciò comprometta il fascino della lettura. Ci riferiamo a Il barone Ungern. Vita del khan delle steppe, dello storico e romanziere russo Leonid Juzefovic, nelle librerie per le Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433; ordinipvdizionimediterranee.net, euro 34,50). Il volume beneficia della prefazione di Gianfranco de Turris, mirata a contestualizzare storicamente e letterariamente l’azione del Barone delle steppe.

Il volume è una puntuale ricostruzione della vita e delle vicende in cui fu coinvolto Ungern. In esso compaiono testimonianze, leggende, storie, lettere di persone i cui antenati intrattennero rapporti con il dio della guerra. L’autore, con Erodoto, è fermamente convinto che lo storico di vaglia abbia come “dovere riferire tutto, ma non credere a tutto” (p. 14). Il narrato si apre con una testimonianza, raccolta in prima persona da Juzefovic nell’estate del 1971, di un pastore mongolo, Bol’ži, il quale gli confidò la convinzione che Ungern fosse ancora vivo. Il che la dice lunga sulla centralità che l’epopea guerriera da questi incarnata continuava a svolgere nell’immaginario dei popoli dell’Asia Centrale. Ma chi era realmente von Ungern, la cui eccentricità, lo ricorda de Turris, colpì il disegnatore Hugo Pratt, sensibile alla letteratura esoterica, che fece incontrare la sua creatura, il marinaio Corto Maltese, con quest’eroe d’Oriente? Fu innanzitutto un combattente anti bolscevico di grande tempra e coraggio, al quale fu vaticinato, per ben due volte, da autentici sciamani, una morte sicura e prossima. Per quali ideali combatteva? Egli si spendeva contro la depravazione rivoluzionaria, negante il tratto divino dell’uomo e della natura, in nome dei valori del Buddhismo. Allo scopo, si prodigò nel tentativo di costituire l’Ordine Militare Buddhista, nel quale vedeva ben conciliate le Vie della sua vita, guerriera e contemplativa. La sua lunga contesa contro i Rossi e i Cinesi, che lo vide protagonista di imprese terribili e mirabolanti, non era che l’esteriorizzazione del combattimento interiore che in lui avveniva tra Luce e Tenebre.

Egli mirava a costituire, a partire dalla Mongolia, uno Stato asiatico, che avrebbe dovuto rappresentare il primo tassello di un Impero universale. L’intento di Ungern era “sollevare tutta l’Asia e col suo aiuto riportare sulla terra la pace di Dio. Io voglio aver la coscienza di aver lavorato per la grande idea col liberare la Mongolia” (p 10).  Il Barone non faceva che riproporre le idee sulla centralità della Mongolia proprie di Volosovyč: era  certo che soltanto un’invasione asiatica dell’Europa, in nome del pan-mongolismo buddhista, avrebbe determinato una rigenerazione delle forze spirituali del Vecchio Continente. Causa della decadenza dell’uomo bianco veniva individuata nel trionfo dei valori mercantilistici della borghesia. La dottrina aveva rilevanza geopolitica, in quanto si saldava con le tesi di Haushofer, che aveva individuato nell’Asia centrale l’Urheimat degli Arii, ma era, altresì, pregna di richiami tradizionali, non ultimo il mito di Shambhala, realtà sotterranea abitata dai giusti. Il suo sovrano, il Re del Mondo, di cui diranno Ossendowski e Guénon, “conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino” (p. 26). Tale popolo misterioso venne così identificato dal Barone, con i pastori nomadi dell’Asia centrale, custodi della Tradizione. Ungern si convinse che il ‘destino’ lo aveva condotto in Mongolia per porlo a capo delle orde anti rivoluzionarie che avrebbero diffuso nel mondo “il fuoco del cielo devastatore e purificatore” (p. 29).

Inviò, su questi temi, una serie di lettere da Urga, l’odierna Ulàn Bàtor, città che aveva conquistato nel febbraio del 1921, ad alcuni militari e politici asiatici, nella speranza di farli partecipi del progetto imperiale. Non ottenne risposta. Suo testamento spirituale può essere considerato l’Ordine n. 15, diffuso e stampato a grande tiratura, in cui affermava di combattere per una Russia unita sotto le insegne del legittimo sovrano, lo zar, ordinava ai suoi di eliminare i commissari bolscevichi e ribadiva di voler sradicare il materialismo dal mondo. Alla fine dovette cedere, “sconfitto sul campo, tradito dai suoi […] nel tardo pomeriggio del 17 agosto […] viene consegnato a Shetinkin, membro del Soviet Militare” (p. 11). Il Tribunale rivoluzionario siberiano il 15 settembre lo condannò a morte. La sentenza venne eseguita il giorno successivo a Novo-Nikolaevsk, centro trenta giorni dopo il vaticinio di morte di uno sciamano. Il Barone von Ungern, come testimoniato dalla fucilazione cui fu sottoposto, fu l’incarnazione, fugace e tragica, della figura del ‘Capo’. In altre circostanze politico-spirituali avrebbe potuto ‘fare’ storia. Nel contesto drammatico della Rivoluzione d’Ottobre, di cui da poco si sono celebrati i cento anni, le sue gesta e la sua figura divennero leggenda. La cosa non poteva non colpire la sensibilità di un personaggio quale Julius Evola, che di Urgern si occupò in due articoli del 1938 e del 1939, soffermandosi sulla sua via ascetica.

Il comunismo e i suoi falsi miti sono implosi. Ungern, al contrario, vive nella memoria dei popoli per i quali si spese. Il suo nome e la sua epopea sono narrati dal vento che batte la steppa “La U di Ungern, Junker del Baltico e Khan di Mongolia” (p. 12), per sempre sarà impressa nel verde terreno dagli zoccoli dei cavalli, a ricordo di un eroe della Tradizione.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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