La questione bulgara
Il problema delle origini dei primi stati russi, da Grande Novgorod alla Rus’ di Kiev, oggi che ritornano a disposizione della comunità degli studiosi le vecchie cronache “tatare” in parte distrutte dalla cecità politica sovietica, mostra la sua enormità e denuncia le difficoltà a mettere in luce le grossolane manipolazioni e le leggende sulla steppa europea e sui popoli turchi che si leggono nelle Cronache Russe dopo tanti secoli. Le Cronache avevano un proprio punto di vista ideologico, ossia quello di provare l’indipendenza russa nell’ambito di un disegno divino di dominio universale affidato a Mosca e alla sua dinastia al potere nella costruzione del primo stato russo, santo e cristiano, legittimo occupante della grande Pianura Nordorientale Europea. Quanto agli stati turchi o d’altra etnia non russa che esistevano e esistono ancora sullo stesso territorio, essi non avevano che un’esistenza provvisoria e la loro cultura, le loro vicende non potevano trovar posto nella storia antico-russa. Questa storia viene “venduta” come la vera visto che l’unica storia accettata è quella messa insieme dai grandi storici russi, comprese le correzioni, le aggiunte e le interpolazioni nei documenti (denunciate da una vita di accurato studio da D. S. Likhaciov) fatte per ordine “russo-moscovita” in combutta con il neo-patriarcato moscovita. Così, nel confronto con le informazioni ricavabili dai documenti di parte “turco-tatara” (naturalmente anch’essi manipolati e interpolati e ancora privi di una buona critica storica) si disegna un nuovo quadro storico in cui lo stato bulgaro del Volga è di gran lunga più antico di qualsiasi altro stato russo e ne ha influenzato pesantemente lo sviluppo.
© 2010 di Aldo C. Marturano
1. Nella steppa europea
Sin dal primo Medioevo la steppa e i suoi popoli ebbero un ruolo sconvolgente in Europa con i loro transiti sia perché dal IV sec. d.C. sollecitarono lo sfaldamento dell’Impero Romano a cui seguì la costituzione dei primi nuovi stati europei – cristiani, musulmani, giudaici e pagani – sia perché influirono, a quanto pare migliorandole in maniera positiva, sulle comunicazioni fra Asia Centrale e Occidente. E non solo s’intensificò la reciproca conoscenza fra genti lontane o l’adozione di innovazioni tecniche o di prodotti perfezionati nel mondo della steppa come la staffa, i cavalli e gli arcieri montati, ma pure la possibilità di sfruttare risorse forestali e agricole finora rimaste in parte accessibili e di cui l’Occidente (rilievo economico molto importante) sentiva estremo bisogno.
In realtà le cosiddette “invasioni barbariche” (in tedesco Völkerwanderungen e Pereselenie Narodov in russo) non erano né eventi improvvisi né inaspettati. Il massiccio e continuo fluire di varia umanità, di idee e di oggetti materiali era qualcosa già d’antico in Europa così come le mescolanze di sangue, senza mai dimenticare che neanche i “barbari” erano molto omogenei dal punto di vista etnico e culturale. A questo punto è logico riconoscere alla Pianura Europea Nordorientale (o Pianura Russa) il ruolo, fra il 1° millennio a.C. e il seguente, di essere l’area geografica mediatrice più esposta al passaggio di merci e di uomini e a nuovi usi e costumi. Riconosciuto ciò, per quel che ci riguarda è utilissimo studiare modi e tempi con cui questo ambiente fisico e antropico fu coinvolto e influì nelle vicende storiche dal IX sec. d.C. in poi in special modo. Infatti giusto adesso inizia la Storia Russa documentata con la redazione delle Cronache Russe da parte dei monaci e le osservazioni degli autori musulmani. Sono i primi scritti di interesse storico per le genti della Pianura, sebbene in verità le Cronache Russe lascino trapelare la ricerca spasmodica di motivi cristiani che potessero giustificare l’esistenza del primo stato “russo”, identificato e idealizzato nella Rus’ di Kiev. La Rus’ altro non era che una federazione di città-fortini sotto l’egida armata dell’élite slavo-svedese-kieviana (costretta in seguito a convertirsi al Cristianesimo), ma a suo fondamento c’era il concetto che, per essere civile e organizzata secondo il modello divino, non potesse mai essere perfetta senza la Croce in un paesaggio desolato come la steppa o oscuro e insidioso come la foresta boreale, appena più a nord, zeppa di pagani.
Un tale costrutto storico naturalmente è infondato, se si pensa che nel sudest della Pianura Russa era nato (~VIII sec. d.C.) e stava crescendo il potente Impero Cazaro che non era uno stato cristiano perché sceglierà presto il Giudaismo, ma che raggiungerà un enorme rilievo politico e un grande splendore culturale nel X sec. d.C., mentre la povera futura Rus di Kiev sta ancora a pagargli tributo. Un altro degli stati pre-russi di altrettanta levatura è la Bulgaria del Volga che più o meno negli stessi anni manterrà alle sue dipendenze non soltanto il nord della Pianura dove si vanno coagulando etnie slavo-baltico-russe anche prima di essere sottomesse dalle armi slavo-svedesi (dei Variaghi), ma tiene in mano, secondo le Cronache Tatare, addirittura il controllo politico di Kiev per conto dei Cazari!
Da queste premesse è scaturito il presente tentativo di ripercorrere una storia dei Bulgari del Volga e, in parte, delle sue relazioni con la Rus di Kiev come esempio sui generis di esperienza storica del mondo turco della steppa da sempre intimamente collegato al mondo slavo orientale.
Ci siamo fissati dei limiti cronologici che vanno dal VII-VIII sec. d.C. quando si fonda Grande Bolgar (o Bolgar Vecchia) fino al sec. XVI d.C quando Bolgar Nuova (oggi Kazan’) cade in mano russa. Non solo! Bolgar e Kazan’ sopravvissero a lungo alla Rus’ e solo nel XVI sec., con la conquista e l’incorporazione delle due dette città nel novello Impero Russo da parte di Giovanni IV (Ivan il Terribile), si pose la parola fine a quella specie di ossessione culturale e religiosa negativa che la loro esistenza aveva procurato all’élite moscovita.
Sappiamo bene che nominando i Bulgari lo sguardo si volge subito ai Balcani e al Danubio dove c’è la Bulgaria… slava oggi, ma fondata dai Bulgari turchi ieri. Non è però ad essa che ci riferiamo, ma ad un’altra che non c’è sulla carta geografica della Federazione Russa e non c’è mai stata neppure nell’URSS! Eppure nel secolo scorso si costituirono partiti “bulgaristi” a Kazan’ e a C’eboksary, in Ciuvascia, i cui esponenti con vari tentativi operarono per ripristinare (legittimo punto di vista storico!) il toponimo Bulgaria per farne uno stato confederale sovietico! Non è nostro compito soffermarci su quelle lotte che oggi riemergono nella politica attuale, ma sottolineiamo che la salomonica soluzione delle liti nazionali, pericolose per un’ideologia antinazionalista, negli anni sovietici fu di includere Bolgar e Kazan’… nel Tatarstan ossia nella Terra dei Tatari!
Si dirà: che c’entrano i Tatari? L’etnonimo “tataro” fu attribuito probabilmente per la prima volta dai cinesi alle armate genghiscanidi (così Rasc’id ed-din informa nel XIV sec.) mentre nelle Cronache Russe si appiccicò sugli abitanti di Bolgar già dal 1236 quando vi s’insediarono i Tataro-mongoli da conquistatori e la città diventò un avamposto della nuova potenza chiamata Ulus G’öc’i o Orda d’Oro.
Non solo. Un tale ruolo militare forzosamente attribuito dall’invasore genghiscanide all’élite bulgara non fu ben accetto e numerose furono le rivolte tanto che presto Bolgar fu lasciata al suo destino e una nuova capitale tataro-mongola, Sarai Batu, fu fondata più a sud, sempre lungo il grande fiume. Si riconfermò così la cultura mercantile, più che militare, dei Bulgari del Volga e la loro opportunistica politica di pace con tutti onde poter trafficare in tranquillità e in autonomia.
Qui si capisce che il Volga è il cuore della nostra storia, essendo la “strada” più frequentata e più conosciuta della Pianura e dove appunto la prosperità di Bolgar nasce e si culla per secoli. Volga però è il nome dato alla corrente da chi viene dal nordovest che la vede scaturire nei dintorni del Valdai e confluire nell’Okà e poi nel Kama più a valle. Per i rivieraschi ugro-finnici invece la corrente maggiore è giusto il Kama che viene dagli Urali. La prima denominazione, dal Valdai al Caspio, oggi prevale e il Volga può perciò essere classificato come il più lungo d’Europa. L’idronimo è di etimologia ugro-finnica (forse da Volkea ossia Bianco, che ne indica la posizione geografica nordica che non il colore delle acque) ed è passato da una lingua locale nel russo, soppiantando il più antico e misterioso nome Ra. Gli Ugro-finni tuttavia, come gli Udmurti, continuano a chiamarlo Kama fino alla confluenza. Dopodiché diventa Bydz’ym Kam o Grande Kama fino alla foce. Lo stesso è per i Bulgari che lo chiamavano il Grande Fiume o Idi El e Itil/Adil a seconda del dialetto a partire dall’ansa di Bolgar. Niccolò e Matteo Polo (nel XIII sec. d.C.), impressionati dall’enormità della corrente che stavano attraversando, lo chiamarono Tigri quasi fosse uno dei 4 fiumi del Paradiso Terrestre!
E’ bene dire che non sono semplici nomi dati all’acqua, ma dei punti di vista storici rispettabili, poiché qui si viveva della gestione dei tanti centri-mercati fluviali e dominare la grande corrente era la chiave di volta dell’organizzazione economica d’allora.
Senza voler anticipare la nostra storia, aggiungiamo che quest’ultima condizione (dominare il corso inferiore del fiume) non fu né tanto semplice né tanto felice da mantenere sia per Bolgar che per Kiev finché la presenza del potente Impero Cazaro a sud controllò il Volga inferiore e fissò le relazioni interetniche tramite la religione o tramite le armi. Tutto si complicò ulteriormente nel XIII sec. con i Tataro-mongoli, il cui dominio durò fino al XV sec. e notiamo che da quel momento Mosca, attribuendosi il ruolo di unica riunificatrice della scomparsa Rus’ di Kiev, risolse il problema della propria convivenza con i nuovi e i vecchi venuti adoperandosi (senza riuscirci) con la forza della conquista alla loro “russificazione”. Fu il momento in cui il Volga si popolò di fortini e città nuove a dominanza russa e in cui si usarono le lapidi dei cimiteri islamici per pavimentare le strade e le chiese ortodosse. Addirittura, per obliterare la storia e la cultura dei popoli locali, l’etnonimo tataro si applicò ad ogni suddito dell’Impero che non fosse ancora “russificato”. Con tali politiche Mosca confessava al mondo che gran parte della sua esistenza la doveva proprio a questi nuovi sudditi…
Nomadi e sedentari, tatari e mongoli, bulgari, cazari, russi e ugro-finnici erano per davvero etnie con abitudini e costumi talmente opposti da impedire una coabitazione “pacifica”? Dai documenti non risulta che gli stati sorti nella Pianura Russa prima del Medioevo fossero ingovernabili a causa della loro multietnicità. In nessun luogo al mondo peraltro sono esistite realtà statali di una certa estensione che non inglobassero più etnie. E inoltre, se le genti non “russe” sono riuscite ad oggi a conservare un’individualità propria più o meno ancora riconoscibile nelle stesse sedi occupate da secoli a nord e a sudest di Mosca contro il logorio dei secoli e l’oppressione delle dinastie imperiali succedutesi, vuol dire che il loro contributo alla “cultura russa” è stato prolifico e che le ragioni di tal successo devono esser meglio conosciute e raccontate.
La questione spinosa è che gli storici russi e ucraini con educazione eurocentrica spesso negano un seppur parziale ruolo innovativo della steppa sulla civiltà sedentaria agricola. Per costoro dai nomadi è venuta solo devastazione e distruzione e sempre dal lato asiatico. Allora ampliamo l’orizzonte e chiediamo: è possibile che genericamente si parli di acculturazione dei nomadi nelle società sedentarie e mai del contrario? E che cosa distingue il nomade dal sedentario? E il nomadismo è una categoria culturale o solo una specie di ostracismo ideologico? E la steppa, luogo di intensa vita umana, non ha giocato una parte preponderante per aver favorito il libero incontro e la commistione delle genti dell’Europa? Le risposte sono naturalmente già di fronte a noi nella realtà moderna delle nazioni, ma non si può dire come s’arrivò a questa realtà, se non si ha idea di che cosa significhino campi coltivati, foresta, steppa e paludi, magari recandovisi a visitarli per capirli dal punto di vista umano e non soltanto paesaggistico. Soltanto dopo appare più facile convincersi che alla fin fine la steppa non è un posto maledetto o abbandonato, ma abitato da uomini e da donne, da vecchi e da bambini in comunità (è vero!) gelose delle proprie tradizioni, eppure di per sé aperto e portatore di libertà assoluta.
Nella storia russa in particolare si legge di fortificate città nella foresta da cui mercanti e principi gestivano il commercio con la steppa, benché temessero attraversarla. Si viaggiava (in gruppo e armati!) per migliaia di chilometri lungo i fiumi superando pericolose cataratte, con acque che gelavano d’inverno e sulla cui superficie ghiacciata si poteva andare a piedi e quando finalmente si raggiungeva la steppa ci si aspettava di poter essere derubati o uccisi o rivenduti come schiavi. Ma, conoscendoli, i nomadi fornivano prodotti importanti per l’economia di quel tempo. Certe volte si percorrevano lunghi tratti di cammino senza vedere una città, ma poi s’indovinava la presenza del nomade non appena si vedevano in lontananza le tende rotonde o si sentiva il nitrire dei suoi focosi cavalli… E’ una visione caricata di contraddizioni, a volte troppo di parte perché, come vedremo, anche i Bulgari avevano città fortificate (e persino prima degli Slavi) e si occupavano di trafficare con la steppa pur non appartenendovi culturalmente.
Certo! Era difficile far lega permanente con certi nomadi visto che i contatti si prendevano ogni volta con capi sempre diversi, ma non è in ciò il nocciolo della questione “steppa” e “nomadi”, colorata tanto negativamente nelle cronache di penna cristiana, russa e non.
Comunque sia, ecco le parole di I. Lebedynsky, uno studioso della steppa: “All’inizio del primo millennio a.C. l’intera immensa steppa eurasiatica fra il delta del Danubio e la Cina settentrionale conosce una rivoluzione culturale profonda: L’apparizione del nomadismo pastorale, sotto la forma che doveva diventare classica in quelle regioni e costituire il modo di vivere dominante fino all’epoca moderna. Questo cambiamento è opera di popolazioni precedentemente sedentarie che, dopo aver accordato un posto crescente nella loro economia all’allevamento, passano al nomadismo per meglio sfruttare lo spazio steppico”. Continua ancora il nostro autore: “Il nomadismo nelle steppe eurasiatiche non è una sopravvivenza arcaica o un ritardo evolutivo, ma un adattamento all’ambiente o, più esattamente, ad un certo modo di sfruttare quell’ambiente”. Sono parole lapidarie e assolutamente condivisibili perché già si afferma che non è vero che i nomadi fossero selvaggi e intrattabili. Tale fama è piuttosto frutto d’una propaganda inscenata nei tempi andati per mettere in cattiva luce e senza distinguere il “pastore” dal “nomade”. Certo, si potrebbe obiettare a queste parole per i contenuti troppo eurocentrici perché considerano i nomadi esclusivamente di provenienza asiatica e quindi da respingere o colonizzare, ma chi aveva interesse a spargere nel passato tali notizie, comunque le si voglia giudicare?
Dunque gl’interrogativi sono numerosi, più intriganti e più complicati e occorre delimitare il teatro geografico e non solo storico a cui ci riferiamo. Lasciamo allora il Tatarstan e andiamo più a sud verso il Caspio, il Caucaso e il Mar Nero. Dal punto di vista antropico, l’area è notevole e non tanto per la sua estensione quanto per la sua intricatissima stratificazione etnica. Ciò pone un problema in più alla presente ricerca giacché col passar dei secoli e con l’avvicendarsi di popoli diversi su uno stesso territorio è difficile individuare delle tracce sicure per stabilire quale etnia precedesse e quale altra seguisse onde dedurne le successive influenze storiche. I popoli turchi e iranici che oggi sono qui non “si trovano in patria” da tanto tempo, ma sono venuti da lontano da poco più (o meno) di un millennio e sicuramente la steppa asiatica è uno dei loro luoghi d’origine. E questa temporalità, ricordiamolo, è la medesima dei cosiddetti Slavi Orientali.
Come noi sappiamo, la sussistenza di una comunità basata sull’agricoltura o sull’allevamento del bestiame o su altri sistemi di raccolta e produzione del cibo è strettamente dipendente dall’alternarsi delle stagioni, dalla qualità delle terre coltivabili o da pascolo, dall’insolazione, dalle piogge, dalle temperature circadiane etc. e gli uomini, pena la distruzione o il disfacimento delle loro società, devono adattarsi in ogni momento alle vicissitudini locali del clima. I fattori climatici perciò (tutti, benché qualcuno sia di minor importanza storica) condizionano pesantemente l’esistenza degli esseri che vivono in simbiosi con l’uomo o da prede libere o da bestie d’allevamento giacché l’ambiente nella sua interezza può mettere le risorse alimentari di base a disposizione di tutti oppure no… a seconda di come è andata l’annata climatica! Non solo. Nella steppa si sente, nel vero senso della parola, il ruolo vitale del clima molto di più che in altre ecologie e ogni suo variare sconvolge gli eventi perché detta le condizioni per favorire o scoraggiare gl’insediamenti. E’ un ambiente dove più che in ogni altro luogo del mondo, non è possibile agire per mantenerlo costante e legarlo ai propri bisogni e l’uomo è costretto per sopravvivere, persino, a lotte fratricide. La nostra storia va dunque raccontata in questo variabilissimo scenario benché a volte gli eventi non sono tanto evidenti da essere stati considerati degni di qualche riga scritta nelle cronache contemporanee. E’ un guaio per chi cerca documenti…
Sulla relazione clima-uomo-fauna-flora-steppa nel 1963 una spedizione dell’Università di San Pietroburgo (allora Leningrado), condotta da L. N. Gumiljòv lungo le rive del Volga e la costa settentrionale del Caspio, mise bene in evidenza come gli aspetti climatici dipendessero dalle forze cicloniche che si generavano a una decina di migliaia di km da qui e come esse avessero influito e lasciato tracce delle loro interazioni nella steppa russa e nei suoi abitanti. La spedizione multidisciplinare si proponeva di provare, e fra l’altro lo provò, che una civiltà intera, cioè l’Impero Cazaro, aveva dovuto cedere ad un’aberrazione del clima non più favorevole per un ulteriore sviluppo e soccombere. Noi ci rifaremo a questa esperienza (i particolari tecnici si traggano direttamente dalla relazione scientifica!) perché la storia dei Bulgari è legata ai Cazari…
La steppa di cui vogliamo parlare perciò è quella che il compianto L.N. Gumiljòv chiamava la Grande Steppa e che si divide in una parte asiatica e in una parte europea. Per quanto riguarda la parte europea, essa si situa fra il 52.mo e il 48.mo parallelo Nord e si estende dal 60.mo fino al 15.mo meridiano Est cioè dagli Urali al Danubio fino in Ungheria dove è detta puszta (leggi pùsta!). Uno spazio enorme! Su una così grande estensione aspettarsi un clima dominante unico è inutile ed è più logico al contrario notare tutta la serie di microclimi regionali abbastanza distinti.
Le situazioni climatiche, sottolineiamolo, non restano immutate nel tempo, ma seguono la storia geofisica locale per cui, a seconda dei periodi considerati, gli uomini e gli altri gli altri esseri viventi si trovano di volta in volta davanti a delle aree da sfruttare e da difendere con risorse cambiate e con nuovi e inaspettati commensali. Le piante che hanno colonizzato la steppa in particolare mostrano il loro evidente adattamento non solo ai fattori ambientali esterni, ma pure alla composizione (edafica) del suolo e lo fanno vedere nei colori e nelle forme tipiche e sono la prima impressione di grande meraviglia per chi viene fuori dal più maestoso ambiente della foresta. Ci s’imbatte in una vegetazione la cui altezza non va oltre quella del basso arbusto, verdissima nella buona stagione e ondeggiante come un vero “mare d’erba” che poi però secca con i primi freddi passando al marrone scuro… Naturalmente la nostra descrizione è molto schematica e non è riconoscibile con facilità nel paesaggio attuale, sebbene dagli studi dei climatologhi russi sovietici e postsovietici, americani etc. sia possibile immaginare che il clima dei secoli passati non sia cambiato moltissimo rispetto all’oggi e che, sempre evitando fuorvianti semplificazioni, la steppa odierna – salvo variazioni intervenute più marcate – può essere considerata molto simile a quella raccontata nelle cronache medievali.
Nel linguaggio comune si distingue una steppa erbosa di solito coperta d’erbacee che crescono in piano fittamente l’una vicina all’altra, una steppa arida anche questa giacente in piano, ma con specie vegetali diverse e adattate alla penuria d’acqua e dunque molto più rade, e infine c’è una steppa di montagna sui declivi delle alture che ha un manto vegetale pure distinto dai precedenti.
Portiamoci allora sulla parte meridionale del Bassopiano Sarmatico (chiamare così la Pianura Orientale Europea e le antiche Terre Russe è tradizionale, benché il toponimo risulti ambiguo) la cui parte stepposa o Steppa Ucraina era la più frequentata e costituiva (ed è ancora così!) un fattore economico importante per i suoi frequentatori. E’ un’area variopinta nei suoi paesaggi ed inizia in pratica dagli Urali meridionali, segue la riva destra del fiume Ural (anticamente chiamato Jàik), s’interrompe nella Depressione Caspica e nell’Anticaucaso e ingloba i bacini inferiori del Volga e del Don, quelli del Terek e del Kuban. Dalle rive del Mare d’Azov e del Mar Nero (Ponto o Ponto Eussino per i greci) si estende a sud di città storicamente importanti come Kiev e Cernìgov. Molti sono i fiumi che la tagliano nel senso nord-sud e partendo dal Volga possiamo enumerare i maggiori: il Don, il Dnepr, il Bug, il Dnestr, il Prut (quest’ultimo è un affluente del Danubio).
L’inverno qui termina ad aprile-maggio ed è solitamente molto freddo con punte fino a –5 °C mentre, al contrario, l’estate è caldissima con punte fino a +30 °C. I problemi si creano però, a parte la stagione, quando d’estate ci sono improvvisi e inaspettati cali di temperatura con escursioni di ben 20-25 gradi. Le piogge invece cadono nei primi mesi dell’estate per poi cessare del tutto prima della fine della stagione e così si finisce nella siccità ove verso la fine di settembre la vegetazione secca inesorabilmente e, se qualche pioggia cade ancora, è sotto forma di acquazzoni improvvisi la cui umidità evapora rapidamente dalla superficie fogliare senza riuscire a impregnare il suolo (l’esigua isoieta media annuale è di 500 mm!).
La steppa erbosa ucraina col suo spazio coperto da un fitto tappeto verde, senza alberi o alti cespugli è ancora godibile in Crimea e, malgrado la bassa vegetazione, è uno spartivento fra il nord e il sud della Pianura Russa per la sua posizione rispetto alle basse correnti d’aria calda che vengono dalle consistenti (ma inadeguate dal punto di vista termostatico) distese d’acqua del Mar Nero, Mar Caspio e Mare d’Azov e genera delle zone semidesertiche intermedie prima della foresta settentrionale.
Le cadenze climatiche, è bene notarlo, non scivolano dolcemente l’una nell’altra come per i climi mediterranei più miti, ma sono nette e improvvise mentre l’intera steppa va alfine in quiescenza.
Ad ovest di Kiev s’incontrano i Carpazi e i Balcani, massicci montagnosi che dividono i bacini misti del Dnepr, Dnestr e Danubio da una parte e della Vistola, dell’Elba e dell’Oder dall’altra e, allungandosi praticamente fino al Mar Nero, rappresentano un collo di bottiglia per tutte le migrazioni est-ovest di nomadi e sedentari, comprese quelle più famose già nominate Invasioni Barbariche. Al confine fra Ungheria e Ucraina odierne ci sono infatti passi montagnosi dove è possibile incontrare resti di genti che non passarono mai al di là e che oggi vivono lungo i declivi conservando lingue (moltissime di ceppo turco) e costumi caratteristici diversi.
Lasciando quei monti dietro di noi e proseguendo verso Nord, i confini più naturali scompaiono e passiamo nella cosiddetta Mitteleuropa dove è stato fissato artificiosamente un confine più politico che storico allungato fino alle rive del Baltico lungo l’affluente di destra della Vistola, il Bug, (omonimo dell’altro che scorre invece verso il Mar Nero, detto prima) fra Slavi Occidentali e Slavi Orientali, fra Polacchi e Lituani…
Stiamo ora attraversando la foresta europea boreale fra numerose polle gorgoglianti dal suolo da cui scaturiscono correnti e fiumi numerosi che col loro corso lento – siamo in una pianura quasi priva di accentuate pendenze – indugiano spesso in piccoli e numerosi laghi, paludi e marcite o confluiscono le une nelle altre in fiumi di più notevole portata. L’area più tipica è il bacino del Pripjat (affluente di destra del Dnepr) a nordovest di Kiev (quasi al centro della regione che stiamo descrivendo). Questo territorio (Polesje) in pratica trasforma la Bielorussia in una delle più grandi paludi del mondo (ca. 110 mila kmq) mista alla fitta foresta perlopiù a latifoglie (per l’85 % conservatasi fino ad oggi e chiamata a volte taigà) che nel passato copriva fittamente tutta la parte centrale e settentrionale delle Terre Russe.
La selva s’estende fin sotto gli Urali mutandosi in tundra man mano che si va verso l’estremo Nord ossia sulle rive del Mar Glaciale Artico, mare poco conosciuto nel passato. Seppur chiamato Mare dell’Oscurità (Morje Mraka) a causa della sua posizione oltre il Circolo Polare con sei mesi di notte artica, più pittorescamente lo si chiamava Mare che respira o Dysc’ajusc’ee Morje per le sue spettacolari maree!
Se ammettiamo l’importanza economica della foresta nel Medioevo, facendo un confronto con i giacimenti di materie prime d’oggi, possiamo dire che la selva boreale europea costituiva il giacimento maggiore di ogni materia prima occorrente alla cultura materiale medievale per svilupparsi come la conosciamo oggi.
Per ritornare da qui verso sud abbiamo un’ampia scelta di vie d’acqua, badando di lasciare ad est i Monti Urali sui bordi più esterni della Pianura Russa. Queste cime sono la continuazione geologica sul continente dell’arcipelago di Terranova Russa (Nòvaja Zemljà) distesa di traverso nel Mar Glaciale Artico mentre sfilano in direzione nord-sud più o meno lungo il 60.mo meridiano Est di Greenwich. Gli Urali non sono molto alti (hanno picchi non oltre i 1800 m e in passato erano chiamati I Sassi o in russo Kamen’), ma costituiscono comunque una barriera per l’aria fredda che soffia dal Polo Nord e che incontra l’umidità che giunge dall’Anticiclone delle Azzorre. In questo modo l’umidità utile per la maturazione delle piante alimentari viene soffiata via da qui e, senza irrigazione, i campi languono provocando carestie rimaste famose nelle Cronache. I pochi rilievi esistenti in Bielorussia o presso Grande Novgorod o Mosca sono colline di altezza irrilevante (sotto i 400 m) e non pongono ostacoli al gelido soffio che s’incanala in superficie facendo “il bello e il cattivo tempo” su tutto il territorio! L’umidità infatti è così raffreddata e cade sotto forma di abbondante neve sulla pianura. A qualche migliaio di km dal Caspio gli Urali s’interrompono, lasciando che il corso dell’Ural (le cui sorgenti si trovano proprio nella parte meridionale della detta catena) completi la linea di confine ideale orientale della Pianura Russa. Ed ecco il Volga, il fiume enorme che percorre migliaia di km e che, man mano che si avvicina alla foce sul litorale caspico, varia pure di alveo. Scorre lontano abbastanza dall’attuale Mosca, serpeggia nell’area della regione dei Bulgari dove ci sono le cosiddette fertili Terre Nere o Cernozjòm, lascia a monte la foresta attraversando la cosiddetta steppa boscosa decidua o lesostep’. Già qui il Volga “sta scivolando” verso il Caspio dove scenderà ad una quota molto al di sotto del livello del mare perché entra nella cosiddetta Depressione Caspica. A causa della maggiore pendenza acquisita improvvisamente il corso meridionale scorre quasi tumultuoso. Da queste parti, per un buon tratto lungo la riva destra e non lontano dalla foce, il suo alveo è contenuto da un basso massiccio poco arenoso (Jar) prima che si smisti in correnti parallele (la maggiore è l’Akhtuba) e prima che la riva sinistra si muti in un deserto sabbioso. Alla fine si fraziona in più bracci disposti a raggiera e siamo sull’amplissimo delta! Il Caspio, il più grande lago del mondo, è alimentato giusto dal Volga e dall’Ural oltre che da correnti d’acqua minori e per questo diventa un problema per l’uomo e per le sue attività quando la portata degli immissari varia e causa le cosiddette trasgressioni e regressioni cioè oscillazioni del livello locale delle acque caspiche (alle volte sono talmente lente da durare decenni e persino secoli!) simili alle sesse dei laghi alpini dovute al vento. Le acque decrescono, lasciano libera la terra fertile per il limo apportato oppure, crescendo, sommergono tutto. Nel passato, se da un lato ciò permise di coltivare il riso in piano o la vite lungo i declivi del limitrofo Caucaso, dall’altro, se l’acqua saliva, la gente era costretta a migrare verso Nord abbandonando dighe, campi e intere città.
Quanto al Caucaso, esso si trova sul lato occidentale del grande lago e si allunga (più o meno) in diagonale fra i paralleli 40.mo e 45.mo Nord fra Baku, da un lato, e Kerc’ (presso l’antica Samkerc’ o Tmutarakan), dall’altro, ossia fra le rive occidentali del Mar Caspio e quelle orientali del Mar Nero e del Mare d’Azov. Sono montagne altissime (picchi oltre i 4000 m con le cime più alte d’Europa) e costituiscono una barriera per l’aria fredda che qui addirittura turbina lungo i declivi provocando inverni freddissimi sul lato nord e proteggendo il clima subtropicale del lato sud (Georgia).
Se il Caspio domina da un lato il sistema idrografico riuscendo a regolare il clima di questa parte della steppa e segnandolo tipicamente, a sinistra del Volga/Ural il regime climatico è altro e distingue abbastanza nettamente la steppa asiatica. Gran parte di quest’ultima, dopo la fascia desertica che precede il Mare d’Aral, è “tagliata” in senso nord-sud da fiumi ricchi d’acqua in varie oasi distribuite lungo tutta la sua estensione nelle quali è possibile trovare erba fresca per gli animali tutto l’anno pur con brevi transumanze.
La steppa asiatica inoltre, al di là della climatologia, ha un aspetto fissatosi ormai da millenni nell’immaginazione collettiva europea. La si vede come una distesa pianeggiante che consente al cavaliere aggressivo e attrezzato di coprire grandi spazi in groppa al meraviglioso cavallo in tempi relativamente brevi. Come si capisce, è un luogo frequentato in tutte le stagioni e ce ne dà un’idea l’efficace e rassicurante servizio di Posta Militare (scompigliato, ma poi ripristinato di notte e di giorno da Genghiz Khan nel XIII sec.) lungo le strade che univano il Volga al resto dell’Asia (dal Pacifico al Mar Nero). Qui le distanze si misuravano con il tempo per percorrerle a cavallo ossia, come le calcolavano i persiani, in parasanghe cioè ca. 6 km da percorrere in un’ora e il servizio non soltanto portava messaggi e informazioni ai centri del potere, ma agiva da deterrente contro banditi e grassatori. Era detto in mongolo yam, ma era ben noto e in funzione già dai tempi d’Erodoto e, come questo storico ci riferisce, gestito tradizionalmente dai turco-sciti, Khangar (i famosi Peceneghi delle Cronache Russe).
La letteratura occidentale è piena di viaggi avventurosi o di personaggi famosi vaganti nella steppa e romanticamente vi si descrivono le vie e i camminamenti che si snodavano in paesaggi deserti e infiniti. Si parla di carovane di uomini e di bestie che si muovono verso lontanissime e misteriose destinazioni…
Ad esempio, nella Steppa Ucraina che interessa di più la nostra storia, il romantico poeta russo Pusc’kin viveva l’inverno rigido che costringeva i pastori a spartizioni dolorose di territorio o a indesiderate migrazioni. Descriveva come, se si doveva svernare e si voleva sopravvivere, gli unici ripari dal freddo fossero ancora le tende di feltro riscaldate con lo sterco secco dei propri animali o, per chi restava all’alpeggio, la lunga burka di feltro.
E che dire del poema russo Il Canto della Schiera di Igor che agita sentimenti di grande intensità proprio perché tutto si svolge nella steppa del Don? Certo, è letteratura, ma anche i poeti talvolta scrivono la storia.
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