Nota: la parte iniziale di questo articolo è pubblicata con il titolo I Bulgari del Volga. Parte 1. Nella steppa europea.
2. Il difficile passaggio a nordest
Mettiamo da parte per un momento la steppa e le sue vicissitudini, benché non abbandoneremo mai questo teatro indispensabile agli eventi che racconteremo, e volgiamoci ad una questione primaria, ma intricata: Quali stirpi arrivarono per prime sul Medio Volga e quali in tempi successivi? Di solito chi s’insedia per primo in un certo luogo è definito autoctono, ma per usare in modo giusto questa semplice parola occorre esser pure in grado di mettere una presenza umana in relazione temporale con la sua migrazione da un altro luogo del mondo. E’ poi necessario documentarne l’anteriorità di fronte alle altre stirpi che si trovano nello stesso posto nel momento storico sotto osservazione. A che serve tutto ciò? In parole più semplici, se la stirpe che noi consideriamo protagonista della nostra storia è autoctona, sarà l’ospite ospitante per le stirpi giunte successivamente e i processi di influenze culturali reciproche che creeranno gli eventi della storia che raccontiamo avranno un certo andamento. Se al contrario essa fosse immigrata, gli eventi potrebbero prendere un’altra direzione e così via. Siccome è nostro intento cogliere la misura delle interazioni fra le diverse etnie ugro-finniche e balto-slave della Pianura con quelle turco-bulgare per riconoscere loro un successo o una decadenza (naturalmente in confronto con la realtà odierna del Tatarstan), fissare una cronologia (o tentarla, vista la scarsezza dei documenti) degli spostamenti dei Bulgari sul territorio è molto importante per non correre il rischio di scivolare negli anacronismi e falsare il racconto.
Altro nodo da sciogliere è: Riconoscendo la multietnicità della Pianura, come si fa a distinguere una stirpe/etnia da un’altra? Il metodo più immediato e collaudato da secoli è di registrare la lingua che la gente usa “all’interno” (cioè con i familiari e con gli altri membri della propria comunità) e cogliere la diversità da quella usata “all’esterno” (cioè con le comunità vicine). I nostri referenti medievali, poliglotti di alto livello e studiosi attenti dei costumi altrui, prima di altri facevano l’esperimento auditivo suddetto giacché sapevano che la lingua è la porta che si apre sulla tradizione e sulla cultura delle stirpi e in tal maniera raccoglievano dai locali le informazioni che ci hanno tramandato e delle quali oggi ci serviamo. Non è l’unico criterio di differenziazione fra gli esseri umani, ma altri criteri che siano in netto contrasto col quello linguistico, lo diciamo subito, sono molto rischiosi e possono diventare discriminanti!
Nel secolo passato ci si illuse di poter classificare gli uomini e determinarne la provenienza geografica con grande precisione scientifica osservandone i tratti fisici (la razza!) in vivo o deducendoli dai resti ossei degli antenati esumati nelle necropoli. Gli antropologi M. Gerasimov, russo, e D. Sassoon, americano, diventarono famosi per le ricostruzioni (con metodi diversi) dei tratti del viso di uomini del passato partendo dai caratteristici segni d’usura lasciati sui teschi dalla muscolatura ormai scomparsa. I loro lavori misero in luce alcune volte certi errori interpretativi degli storici… Oggi però questi metodi insieme con il concetto di razza non hanno più il valore d’una volta e non servono più (per fortuna) a delimitare le aree geografiche da “assegnare” a una stirpe per cacciarne via un’altra, non considerata autoctona. Per i Bulgari le ricerche paleoantropologiche condotte finora lungo il Volga e nel resto della Pianura fra le tante incertezze sistematiche confermano che un tipo fisico puro e tipico “bulgaro” nei fatti non c’è. L’unica cosa che si può dire dai dati elaborati pure in altri campi disciplinari è che i Bulgari del Volga appartennero per cultura a un’etnia turco-cazara-alana formatasi al di qua degli Urali fra le rive settentrionali del Mar Caspio e quelle del Mar Nero e, oltremodo mescolata, solo sotto l’egida dell’Islam acquistò un aspetto più uniforme degno di nota dei nostri osservatori. Rifacendoci alle loro descrizioni quando s’interessarono di questi luoghi, ecco che a nordest di Mosca (la cosiddetta Suzdalia) troviamo una Bulgaria consolidata… ma soltanto nel XI sec. d.C.! A questo punto gli interrogativi sarebbero: Prima del IX-X sec. come mai la tradizione in certe fonti tace su Bolgar e invece parla di migrazioni? E allora chi fondò la città: gli epigoni dei Bulgari balcanici oppure i cosiddetti Bulgari Neri del Don-Dnepr, visto che questi due gruppi erano all’epoca due identità distinte? E come mai l’evento finì per essere dimenticato, sfuggendo all’attenta Costantinopoli che ben conosceva i Bulgari?
Le fonti più accreditate suggeriscono che il “trasloco” dei Bulgari ebbe luogo verso il IX sec. d.C. verso questo nord. Se così fosse, c’è il sospetto che l’impresa di mandarli dal Ponto sul Medio Volga fosse pilotata dai Cazari al fine di colonizzare gli Ugro-finni e monopolizzare meglio il traffico dei loro prodotti che in quegli anni rendevano molto bene. In tal caso i Bulgari non abbandonarono i “parenti” cazari (parlano la stessa lingua, avverte Ibn Hauqal, fine del X sec.) e migrarono in massa perché le acque caspiche avevano invaso le coltivazioni, ma sono semplicemente agenti con il mandato del Kaghan cazaro…
Malgrado quanto detto, dobbiamo registrare la sorpresa occidentale dei viaggiatori cristiani del passato nelle Terre Russe (come si chiamava la Pianura dal punto di vista della storia “russa”) i quali, sentendo parlare di uno stato bulgaro sul Volga, ancora nel XIII-XIV sec. erano increduli sulla sua reale esistenza. Eppure in ambito mediterraneo – Venezia e Genova dalle loro basi sul Mar Nero – e musulmano – dalla Spagna omayyade (al-Andalus) fino alla Persia di Baghdad e la Choresmia dei Samanidi – quel lontano stato era arcinoto (almeno per i suoi prodotti) anche prima e il suo ricordo cominciò a sfumare soltanto più tardi del XIV sec.! Insomma ci sono delle incongruenze…
Partiamo allora dalla prima questione, dalla lingua.
Cominciamo dicendo che il bulgaro dalla ricostruzione messa insieme dai filologi si può riconoscere in un bulgaro antico parlato nel IV-V sec. d.C. nella zona pontica e nella Depressione Caspica che, con la diaspora iniziata nel VII sec. d.C., si modificò da potersi riclassificare col nome di bulgaro medio. Di quest’ultimo non abbiamo molti riscontri sicuri nell’area del Medio Volga, ma possiamo presumere che dovesse essere parlato qui già dal X al XIII sec. benché sparso sul territorio e in concorrenza con le altre parlate turche, ugro-finniche e balto-slave pure presenti.
Nel XII sec. si hanno i primi scontri fra Bulgari del Volga e Genghiscanidi venuti dall’Asia Centrale, alleati degli Alani prima e dei Kipciaki poi. I Mongoli erano ai vertici dell’organizzazione militare attaccante (quella politica faceva capo al Gran Khan in Mongolia), mentre i Kipciaki ne diventarono presto la casta dominante dal punto di vista numerico e quindi è logico che il bulgaro medio dové confrontarsi col turco kipciako (o tataro). Stranamente però, dopo il ritiro dei Tataro-mongoli più a sud nella nuova capitale di Sarai Batu, notiamo che la denominazione lingua bulgara sparisce! Non immaginando affatto che cadesse in disuso all’improvviso, ci chiediamo: In quali altra lingua si trasformò, visto che nel Tatarstan e nelle repubbliche limitrofe sopravvivono ancor oggi più d’una varietà di turco insieme con numerose parlate ugro-finniche? E perché mai certi storici locali tentano di provare, rilevando tantissime eccezioni, che il bulgaro medio si sia trasformato nel ciuvascio e che il tataro invece non proceda dal bulgaro medio, supposto scomparso?
Non sembrino topiche secondarie, queste, per la nostra storia soprattutto perché gli unici resti di sicura identità bulgara nel Volga sono in primo luogo le lapidi delle tombe musulmane con le loro iscrizioni, tenendo presente che questi monumenti di pietra scolpita furono introdotti nell’uso funerario dai Tataro-mongoli e che all’esame le iscrizioni mostrano un’intensa penetrazione fra bulgaro e tataro-kipciako.
In realtà, quando Bolgar per ragioni storiche e fisiche (più in là le esamineremo) ha ormai perso molto del peso politico ed economico, i suoi cittadini lasciano la città e si trasferiscono nella nuova Bolgar situata un po’ più a nord sulla riva opposta dove domina la lingua kipciaka dei nuovi governanti tataro-mongoli. Kazan’ (così si chiama Bolgar Nuova) in quel momento è diventata una fortezza di confine con poca gente armata ed è chiaro che i bulgari di Bolgar in poco tempo diventano la maggioranza culturale cittadina. Ora dire che il bulgaro dei nuovi arrivati sarà sostituito dal tataro di Kazan’ è senz’altro esagerato. Le due lingue, per cause che tralasciamo, erano ancora poco differenziate fra loro e il bulgaro non fece altro che cambiare d’etichetta chiamandosi tataro, dovendo in certo qual modo riconoscere che questo era il “nome del potere” adesso.
Quanto al ciuvascio, è sicuramente una lingua turca, ma si sviluppa separatamente dal tataro-kipciako di Kazan’ dove appare come lingua a sé nel XVI sec. La tradizione indica che il popolo portatore C’uvasc’ venne moltissimi anni prima dal Ponto sul Volga superando i monti, ma in realtà è solo nel 1524 che appare nelle Cronache Russe e ancora una volta nel 1551. Certamente era già parlata prima delle dette menzioni, ma dove? E se accettassimo l’idea di chi suggerisce che i Ciuvasci fossero Ugro-finni che persero la propria lingua e adottarono una nuova varietà di bulgaro passando in parte all’Islam? In tal caso sarebbe una specie di lingua bulgaro-finnica parlata da genti acculturate nel IX sec. d.C. quando Bolgar prende il ruolo di guida politica del Medio Volga. La struttura e il lessico del ciuvascio permettono di accettare tale ipotesi.
Evitando tecnicismi, diciamo semplicemente che il ciuvascio è turco di tipo “r” diverso dal bulgaro medio che invece è turco di tipo “z”. Sebbene il ciuvascio appaia in modo chiaro anche nelle lapidi di cui parlavamo sopra, ma in poche di esse e come una variante dialettale, le scritte più numerose sono in turco di tipo “z”. Di qui, se il ciuvascio fosse la figlia diretta del bulgaro medio, come mai negli epitaffi sarebbe così poco diffusa? Certo! I resti documentari sono scarsi e a volte incerti nella lettura, ma la realtà è quella spiegata da M. Z. Zakiev che prende in considerazione altri reperti scritti del patrimonio archeologico del Volga, oltre le steli funerarie…
Ci scusiamo col nostro lettore per esserci soffermato sulla questione, ma purtroppo, dovendoci rifare alle ricerche degli studiosi locali, ogni speculazione sull’argomento è da evitare giacché l’eredità bulgara la una sua grande risonanza nel Tatarstan e nelle repubbliche limitrofe con minoranze o maggioranze turcofone che si riflette persino nelle ricerche scientifiche. Essa è un bene molto conteso e, se tante sono le ipotesi plausibili su quali etnie ne siano le eredi, tutti riconoscono che, una volta verificate, le ipotesi debbono armonizzarsi con la numismatica, con la toponomastica, con i reperti archeologici (anche linguistici). Noi in ragione di ciò ci siamo appellati alle ricerche di G. I. Tafaev, ciuvascio, e di M. Z. Zakiev, tataro, sebbene i due studiosi dibattano su sponde opposte, ciascuno geloso della propria identità etnica, e confessiamo che è stato difficile scegliere la verità, per noi più degna di fede.
A questo punto si può affermare che i Bulgari alla fine non sono Turchi “veraci” come quelli che la vecchia etnografia direbbe avere le radici nella steppa asiatica e perciò affondate nell’ethnos che ebbe i suoi primi successi nella lontana Mongolia! Anzi! Siamo obbligati ad accettare come dati più o meno sicuri, ma certamente provvisori, le presenze bulgare nell’ordine cronologico tradizionale. In altre parole, sono giuste le presenze 1. Prima nella Steppa Ucraina e Volga-Don 2. poi nei Balcani e infine 3. nella zona intorno all’Anticaucaso? O ci sono storie diverse?
Se quest’ultimo modo di vedere convince di più, allora dobbiamo anche accogliere la tradizione che vede i Turchi provenire dalla steppa asiatica ed è al di là degli Urali che si cercherà la prima patria bulgara. Di quale miglior fonte d’informazioni disporre, se non degli scavi archeologici, visto che i Turchi d’Asia hanno lasciato pochissime notizie scritte dirette?
Da quasi 150 anni sono state intraprese varie spedizioni ad est del Volga che hanno scavato con metodi sempre più raffinati necropoli e siti abbandonati. Moltissimo s’è scavato nel Turkestan e nelle regioni limitrofe a nord della Cina e si sono raccolti numerosi reperti quasi tutti ormai classificati e pubblicati. Sebbene alcuni grandi popoli, ora europei per geografia e per cultura, riconoscano le loro radici in quelle aree (sempre secondo la tradizione), per i Bulgari non è stata individuata alcuna cultura netta e distinta da quella degli altri nomadi o sedentari in antico contatto in Asia Centrale! Insomma, non esiste alcun oggetto (almeno finora, 2010) che si possa attribuire con convinzione ad un’ipotetica etnia bulgara… prima del X sec. d.C. e lontano dal bacino del Volga!
Ed ecco che lo studioso bulgaro (del Danubio) P. Dobrev in una cronaca anonima latina del 345 d.C. trova una strana toponomastica, sempre sulla questione dei Bulgari autoctoni: Le vicinanze del Pamir e dell’Hindu-Kush erano chiamate dai Sogdiani Terra di B’lgar, dagli Arabi Terra di Burgar e oggi ancora dagli afgani Falgar o Palgar! L’area in questione è più o meno l’antica Bactriana che non è lontana dal Volga né dalla Choresmia con cui Bolgar ebbe contatti costanti e stretti. Se teniamo presente che intorno al Mare d’Aral c’era persino una regione chiamata Balkh (senza la desinenza -ar che in turco significa “uomo”), non si può più negare, da un lato, la profonda antichità della gente bulgara sparsa su una vastissima area sia al di qua degli Urali fino al Danubio sia poco al di là e, dall’altro, l’inconsistenza di massicce migrazioni dall’Asia.
C’era già la nota Cronaca Sira dell’armeno Zaccaria Retore del VI sec., documento giudicato molto affidabile dove l’autore nel XII capitolo in un elenco di popoli descrive i Bulgari per una prima volta e li colloca subito a nord di Derbent. Poche righe dopo li nomina ancora quasi associati ai Kutriguri, ma ora un po’ più lontani cioè a nordest del Caucaso. Dice di loro che sono barbari pagani con una loro propria lingua (rispetto all’armeno dell’autore), che vivono in tende e si nutrono della carne degli animali e dei pesci, ma anche degli animali selvatici! Questa menzione è stata finora ammessa come la più antica per i Bulgari del Volga dagli specialisti, ma come abbiamo visto il documento di Dobrev la supera di gran lunga all’indietro nel tempo. E allora? I Bulgari, è gente autoctona del Medio Volga?
C’è chi ha sperato di raccogliere maggiori e più sicure informazioni partendo dall’etnonimo sulla questione. E’ però un problema molto controverso giacché gli etnonimi del Medio Volga sono di vario tipo e prevalentemente turchi. Composti per la stragrande maggioranza di monosillabi, sono somiglianti fra loro e attribuiti persino a genti che sembrano di ceppo indoeuropeo. Si riferiscono solitamente all’apparenza fisica (bell’uomo, capelli rossi e sim.) o ai totem eponimi (cane, leone, falco e sim.) o al luogo dove la gente vive e poco, invece, alle attività svolte. In questo senso lo aveva creduto risolto il granadino al-Garnati, dotto musulmano in visita sul Volga nel XII sec. (1150 ca.), quando scriveva: “Siccome una persona saggia è chiamata (in turco-bulgaro) bul’ar, di conseguenza questa terra è chiamata Bul’ar cioè Terra dei Saggi e in arabo è stato trascritto Bulghar. Ho letto ciò nella Storia di Bolgar scritta da un giudice (qadi) bulgaro (Jakub ibn-Nugman che al-Garnati conobbe di persona) che aveva studiato con Abu ul-Masali G’uwaini.” A questo proposito, studi recenti suggeriscono la derivazione dalla radice verbale turca *bulğa– che significa mettere in disordine o mescolare più l’affisso –ar, uomo. Per I. Lebedynsky più che saggi i Bulgari sarebbero dei ribelli o mestatori e per M. Vassmer dei meticci mentre M. Z. Zakiev predilige gli etimi delle varianti bolgar/balkar per arrivare a gente di fiume o anche biler/bailar a gente ricca, abbiente, quest’ultimo più vicino al bul’ar di al-Garnati.
Nessuna di tali etimologie però è accettata dalla totalità dei turcologhi e l’opinione più generica è che bulgar fosse un soprannome, diventato abbastanza comune fra persone imparentate e che si perpetuasse affibbiandolo ai gruppi di potere che millantavano una qualche genealogia antica e famosa. Di turchi che passavano i propri nomignoli ad intere tribù se ne conoscono più d’uno (il khan Özbeg ha dato il nome alla nazione Uzbeka) e, conoscendo la cura di queste persone nella ricerca dei propri antenati e la costruzione di alberi genealogici (chiamati con parola araba sc’eg’ere) a giustificazione della propria posizione sociale, in tutto ciò può ben trovarsi l’origine della parola b’lgar…
E qui s’aggancia la questione della Bjarmja.
Ne parla Saxo Gramaticus per primo nella Storia dei Danesi e nelle Saghe della Heimskringla si legge di uno stato chiamato Bjarmaland/Bjarmeland situato nell’estremo nord della Pianura Orientale Europea. Si estendeva dal Mar Glaciale Artico fino alle foreste della confluenza del Volga-Kama o del Volga-Okà. La Bjarmja è assimilata dai russi alla Terra di Pjerm’, vista la consonanza dei due toponimi, e dovette esistere realmente, addirittura prima del IX sec. d.C. Malgrado ciò, ci sono molti elementi nei detti testi che fanno sospettare una possibile identificazione della Bjarmja con il dominio bulgaro del Volga (Chi comanda in questo paese? I Bijar!) ai tempi in cui Bolgar non era ancora unita nelle mani di un solo sovrano. Gli elementi a favore di una tale versione sono in primis i prodotti nordici che gli Scandinavi venivano qui a procurarsi via mare (Mar Glaciale Artico) o via fiume (la Dvinà Settentrionale, chiamato Riva nelle saghe) ovvero pellicce pregiate, argento, denti di tricheco e schiavi… giusto le merci che Bolgar trafficava! In secundis c’è l’etimologia di Bijar- che è una chiara variante di Biljar con –ma suffisso ugro-finnico che indica il paese o con –em, possessivo turco di prima persona. Biljar infatti indicherebbe gruppi ugro-finnici assimilati o alleati coi Bulgari. A questo punto si prospetta un’ipotesi di per sé dissacrante per la storia antico-russa e per il suo classico impianto.
Se accostiamo boljar (variante documentata di “bulgar”) ai nobili bojari (in italiano anche bojardi), la cui forma russa più antica è boljarin (sing.) e boljare (plur.) e in russo moderno bojarin (sing.) e bojare (plur.), noteremmo subito non solo la chiara identità dei termini, ma anche che bojarin ha la tipica desinenza -in degli aggettivi di nazionalità! In più, siccome bojarin è accettata dagli etimologisti sia come parola sia come istituzione di certa origine bulgara, non potrebbe ciò denunciare la presenza nella grande città russa del nordest, Grande Novgorod, di un’élite bulgara al potere? Senza dubbio Bolgar era meglio organizzata in tempi anteriori alla data di fondazione di Grande Novgorod (la più sicura è secondo l’archeologia ca. prima metà del X sec. d.C.) e poteva aver fatto benissimo o da modello o da sede coloniale bulgara nel Grande Nord.
Per di più Novgorod significa Città Nuova e non sarebbe possibile azzardare l’ipotesi che abbia perso (o abbia sostituito) la denominazione primitiva, ad esempio, di Città Nuova dei Bulgari (Jana Halig’ in bulgaro) quando passò in mano russa? Altre città lungo il Volga hanno adottato in modo simile il monco nome russo. Si spiegherebbe lo strano toponimo di Città Nuova che ne presuppone una antecedente di cui però non si trova traccia! A questo punto una verità di questo genere cancellerebbe la leggendaria chiamata di Rjurik e dei suoi due fratelli dalla Svezia nell’852 d.C. come è stata tramandata dalle Cronache Russe e che Giovanni IV di Mosca rivendicò come i gloriosi antenati della sua dinastia. I tre avventurieri con i loro armati furono chiamati (come racconta il fantasioso storico russo Tatisc’ev nel XVIII sec.) “…per mettere ordine nella regione…” e ciò non potrebbe significare che si volevano cacciare i Bulgari dalla Bjarmja di cui Novgorod era parte integrante? Chi ebbe l’idea di ribellarsi? Certamente le mafie baltiche svedesi che intendevano gestire i traffici con gli Slavi locali loro alleati direttamente e senza l’intermediazione bulgara. La leggenda racconta inoltre che uno dei tre inviato a Lago Bianco (Belo Ozero) per governarvi vi morì precocemente e, siccome la presenza bulgara è accertata nello stesso luogo molto prima dei novgorodesi “russo-svedesi”, la morte imprevista può essere avvenuta in uno scontro coi Bulgari!
E quando nel 1237 Batu Khan a capo dei suoi Tatari tentò di conquistare Grande Novgorod, per Bolgar potrebbe essere stato il momento della rivalsa per “riprendersi” l’antica figlia del nord perduta. Certamente furono i Bulgari ad indicare alle armate il guado migliore per passare con le macchine d’assedio, cavalli e uomini e non è vero che Batu Khan rinunciò a proseguire verso il nord a causa del fango che si genera in primavera lungo i bordi della foresta. E’ vero invece che la campagna s’interruppe perché i bojari di Grande Novgorod accettarono di pagare per non essere annientati e che l’espediente fu taciuto nelle Cronache Russe dove la rinuncia all’attacco di Batu Khan è attribuita ad un intervento divino cristiano! La transazione in denaro è riferita nelle Cronache Tatare di Gazi Barag’ (tradotte da Z. Z. Miftahov e accettate come affidabili dal noto storico militare russo di questi anni, A. Sc’irokorad) dove il ruolo di Bolgar dovette avere il suo peso.
C’è anche la storia (e la vedremo più in là) della famosa Repubblica di Vjatka, sorta poco a nord di Bolgar, o delle imprese dei pirati usc’kuiniki che, facendo base a Vjatka, imperversavano sul Volga finanziati da Grande Novgorod forse contro gli interessi immediati di Bolgar.
E che ci sarebbe di male, oggi, ad ammettere che Cazari e Bulgari influissero sull’organizzazione della Rus’ di Kiev e, analogamente, su quella di Grande Novgorod con la loro provata esperienza politica e commerciale e gli antichissimi e solidi legami con il Grande Nord? E, se così fosse, non potremmo pensare che la parola biljar e le sue varianti assimilabili a bulgaro descrivesse una specie di consulente che dava le direttive per organizzare commercio, traffici e relazioni coi fornitori (detto così in termini moderni, ma naturalmente adattato all’epoca)? Non si può dimenticare il parallelismo di lombardo che nel Medioevo (ancor oggi lo si usa in molte lingue del Nord Europa) non aveva più un significato geografico o etnico, ma indicava il mestiere di colui che presta denaro ad usura su pegno!
(continua).
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