Di Roberto Calasso, in particolare dopo la recente scomparsa, si è detto tutto. Per taluni è stato, e tra questi chi scrive, l’innovatore per antonomasia dell’editoria italiana, avendo fatto conoscere, attraverso l’Adelphi, autori e concezioni aliene rispetto alle culture che hanno dominato il panorama intellettuale italiano dall’Unità a oggi: la liberale, la cattolica, la marxista. Per altri, in particolare per certo cattolicesimo “tradizionalista”, egli è stato interprete di rilievo del neo-gnosticismo, atto a dissolvere l’identità nazionale. Il giorno in cui Calasso si è spento, sono comparsi nelle librerie, per i tipi di Adelphi, due suoi libri che chiariscono, in termini inoppugnabili, formazione e idealità dell’autore. Ci riferiamo a Memè Scianca (pp. 96, euro 12,00) e a Bobi (pp. 97, euro 12,00).
Nel primo volume, Calasso racconta la propria infanzia ai figli. La cornice generale della narrazione muove da un’intuizione desunta dalla lettura di Florenskij: la vita non può essere raccontata secondo uno sviluppo in progressione lineare, ma tenendo conto del suo dipanarsi spiraliforme. L’incipit del volume è classico, e richiama la prima esperienza scrittoria dell’autore: «L’estate la sentivo arrivare dal viale» (p. 12). Siamo a Firenze, precisamente in quello che allora si chiamava Viale Regina Margherita, attraversato da doppi filari di tigli, le cui inflorescenze, a fine maggio, annunciavano l’“estate invincibile”. Un luogo dell’anima, così come la: «campagna assolata e abbagliante» (p. 12), che Roberto conobbe nella villa di Castellina in Chianti. La guerra irrompeva, nella sua tragicità, anche nella vita dei bambini. Calasso ricorda la generosa ospitalità ricevuta dalla figlia di Petri, rappresentante della Pirelli a Firenze, fascista della prima ora, nel periodo della clandestinità paterna: «Di quella soffitta ho un ricordo fisico […] Non ricordo invece […] la scheggia (di bomba) che frantumò i vetri della finestra e finì accanto alla mia testa» (p. 17).
La famiglia “sfollò” in una villa nei pressi di San Domenico, sotto Fiesole. Il trasferimento si rivelò una sorta di iniziazione al viaggio. Lo abbagliarono i colori della natura primaverile, in contrasto con il grigiore cittadino: «Quel glicine fiorito fu il primo colore che contemplai» (p. 21). Sul pendio che sormontava la villa, la fitta vegetazione dei Bosconi gli rivelò la dimensione dell’altrove,il regno del possibile: «Era la prima apparizione dell’āraṇya vedico, la foresta dei saperi segreti, l’opposto della geometria ortogonale del giardino dove mi trovavo» (p.22), aspetto che lo intrigò per tutta la vita. Fin dall’infanzia, Calasso ebbe contezza dell’esistenza degli animali-guida, totemici: «Chi era Gnao? […] un piccolo gatto nero di pezza» (p. 25), che egli teneva sempre con sé. L’arrivo degli americani è ricordato attraverso il colore delle loro divise, che tanto affascinarono il piccolo Roberto. Su Viale Regina Margherita, in quegli anni, cominciarono a sfrecciare le automobili rombanti della Mille Miglia. Da queste pagine, da «quest’isola della memoria», si stagliano i ritratti di personaggi che animarono la cultura e la politica del tempo: Giorgio La Pira, che regalava a Roberto i soldatini di piombo più belli e gli uomini del partito d’Azione: «Ottimo esempio di élite senza base» (p. 33). E’ in questo ambiente che Calasso incontrò il primo, folgorante, amore letterario, quello per Proust.
Commovente il ricordo del nonno, Ernesto Codignola, fondatore della Scuola-Città pestalozziana nei difficili mesi successivi alla fine del conflitto. Uomo probo, rappresentante un’Italia animata da fervore intellettuale. La “Nuova Italia”, casa editrice che egli dirigeva, dette alle stampe la memorabile edizione della Fenomenologia dello spirito dalla copertina verde scuro che, per generazioni, abbiamo letto quale testo canonico degli studi hegeliani. In quel frangente, Calasso decise che il suo nome sarebbe stato Memè Scianca, a causa di una suggestione proustiana: Memè era il soprannome di un personaggio della Recherche, mentre Scianca, in sanscrito, indica una conchiglia per libagioni. La passione per i libri aveva già preso il sopravvento sui giochi. Una notte, a casa del nonno, lesse d’un fiato Cime tempestose. Da allora, divenne assiduo del gabinetto Viesseux. Quello che sarebbe stato il suo destino, si manifestò con segni di assoluta evidenza: una delle prime parole pronunciate fu Bilibà. Venne il giorno dell’arresto del padre, giurista antifascista, dopo l’assassinio di Gentile. A riguardo l’autore è chiarissimo: «L’assassinio di Giovanni Gentile fu un gesto miserabile» (p. 80). A salvare il padre e gli altri arrestati fu il console tedesco Wolf. Dopo quei giorni concitati ci fu il trasferimento a Roma: «Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi» (p. 95). E’ nella città eterna che avvenne l’incontro fatidico con Bobi Bazlen, determinante per la nascita di Adelphi, e narrato in Bobi.
«Presto diventò la persona che più desideravo conoscere in quel luogo ignoto che si chiamava Roma» (p 11). A presentarglielo furono Zolla e Cristina Campo. Nelle frequentazioni di Calasso i talenti non mancavano: «ma qualcosa mancava. E forse l’essenziale. Bazlen fu per me l’essenziale» (p. 12). Questi viveva in una camera d’affitto a Via Margutta. I suoi “luoghi” erano le “bettole” , testimonianza di un tempo andato, nelle quali era possibile, tra pochi avventori, bere del vino e pranzare sobriamente, e la sala da tè Babington, a Piazza di Spagna. Troviamo assolutamente rilevante questa dichiarazione di Calasso: «Con lui, per la prima volta, avevo l’impressione di qualcuno che fosse riuscito a sbarazzarsi di tutte le idee correnti» (p. 18). Bobi gli parlò, infatti, di Daumal e Gilbert-Lecomte, ex surrealisti approdati alla Tradizione. Confessa l’autore: «Guénon era già una mia ossessione […] e il Vedanta era la prima epifania indiana che a poco a poco mi appariva» (p. 20). Bobi aveva frequentato l’ambiente intellettuale della capitale, era intimo di Debenedetti, Elena Croce, la Morante, ma si era isolato. Era ossessionato dai libri e dalla ricerca di una sua Via.
Leggeva i testi nelle lingue originali, sempre attratto dall’Oriente inteso quale: «non-località […] quella scioltezza che lo rendeva imprendibile» (p. 25). Egli stesso era imprendibile, inclassificabile, inadatto a svolgere qualsiasi funzione, come il temporaneo impiego presso la Olivetti testimonia. Montale, al quale Bobi fece conoscere l’opera di Svevo, ne parla come di un mistico. Definizione plausibile, a condizione che si abbia contezza che la vita del triestino era fondata sul non-sapere: «esposto alle onde in ogni direzione: era stato il suo modo di diventare vivo» (p. 97), in un mondo umbratile, larvale. L’unica sua opera compiuta fu l’Adelphi, di cui Calasso ricostruisce i primi passi, mossi dalla convinzione, tra loro condivisa, di fare: «libri che ci piacciono molto». Le loro scelte editoriali hanno impreziosito le librerie e rasserenato i cuori, fornendo: «un potente contravveleno» (p. 94) al senso comune contemporaneo, all’ “innominabile attuale”.
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