Fëdor Dostoevskij è maestro indiscusso della letteratura moderna, oltre che profetico annunciatore, assieme a Nietzsche, del nichilismo che pienamente si dispiegherà nel secolo XX. Nel 1865, un anno dopo aver dato alle stampe lo straordinario I racconti del sottosuolo, pubblicò uno scritto, dal finale incerto e sospeso, intitolato Il coccodrillo. Il testo è finalmente proposto nella nostra lingua dalla casa editrice Adelphi, per la cura di Serena Vitale (pp. 97, euro 12,00). Si tratta di un racconto breve “anomalo”, non in linea, dal punto di vista formale e contenutistico, almeno al primo superficiale approccio, con i grandi romanzi dello scrittore russo. In queste pagine, Dostoevskij presenta, in modalità esilarante, divertendosi e divertendo il lettore, una storia fantastica, un narrato che mette in discussione le certezze di ogni realismo, sia sotto il profilo gnoseologico che letterario.
Utilizza una lingua nuova, inusuale nella letteratura russa (e non solo) della seconda metà del secolo XIX, grazie alla quale nel racconto: «si allentano gli anelli della consequenzialità e viene smascherata la pochezza del determinismo causale» (p. 97). L’autore si pone oltre il logocentrismo, mostra, infatti, che l’umorismo e la facezia sono in grado, paradossalmente, di smentire le certezze apodittiche, ubi consistam del pensiero moderno e positivista. Lo svanire delle certezze, ci dice lo scrittore, apre al dubbio universale, alla sospensione del giudizio. Per questo le vicende del protagonista de Il coccodrillo non hanno effettiva e congruente conclusione. La fine resta inopinabile, imprecisata, proprio come accade al progetto di vita di ogni uomo. La narrazione è ambientata a Pietroburgo, città che vive sull’abisso del possibile, dove può accadere di tutto, perfino l’impensato. In un negozio del Passage, la prima elegante galleria commerciale della Russia zarista che, proprio come i Passages parigini di cui ha detto Benjamin, avrebbe dovuto celebrare i fasti del capitalismo rampante, esempio di “preistoria della modernità”, un tedesco espone al pubblico, previo pagamento di biglietto d’accesso, un animale esotico, un coccodrillo.
Il funzionario ministeriale di basso rango, Ivan Matveič, supponente, pieno di sé, come ogni progressista che si rispetti, decide di accompagnare, assieme a un amico (voce narrante), la moglie Elena Ivanovna, tipica rappresentante del nuovo ceto borghese e cliente dei negozi del Passage, in visita dallo strano animale. Matveič stuzzica, con il guanto, il naso del coccodrillo e questi, per reazione, fa dell’uomo un sol boccone. Mentre i presenti discutono tra loro se fosse conveniente aprire il ventre dell’animale e liberare il malcapitato, questi sostiene di trovarsi benissimo nelle viscere del coccodrillo e comunica la sua decisione irremovibile di rimanere dove si trova. Ritiene, infatti, che lontano dalla società e dai suoi svaghi potrà diventare un grande riformatore politico, proclama di voler diventare il “nuovo Fourier”. Gran ressa di pubblico, naturalmente, a partire dal giorno seguente, per vedere il “mostro” e grandi incassi per il proprietario. Durante le visite, il protagonista non fa che blaterare delle sorti progressive dell’umanità e della patria russa.
E’probabile che, con tale personaggio, Dostoevskij abbia fatto la parodia di Černyševskij e dei pensatori “rivoluzionari” dell’epoca in cui visse. Insomma, lo scrittore, rifacendosi a motivi tratti dal Naso di Gogol’, presagisce il trionfo della borghesia, il culto del profitto e fotografa in modo umoristico e destrutturante il “nuovo mondo” che si annunciava, a suo dire, con il tratto del “mostruoso”. Il coccodrillo non è semplicemente una “birichinata”, come l’autore volle far credere ma, nota Vitale, una storia di avidità e meschinità. Il tedesco proprietario dell’animale si preoccupa, da buon borghese: «dell’animale unicamente perché è fonte di guadagno» (p. 93). La moglie del malcapitato funzionario, seduttrice e fatua: «sembra piangere soprattutto perché sa che le lacrime le donano e, ben presto […] tradisce il marito» (p. 93). Il funzionario ministeriale a cui l’amico si rivolge per ricevere aiuto e consiglio: «diventa più amabile soltanto dopo che gli sono sati restituiti i sette rubli che […] Matevič ha perso con lui a carte» (p. 93). Nonostante il trionfo, ormai prossimo, del mondo borghese, sulla Pietroburgo di queste pagine, città animata dalla nomenklatura, in cui le gerarchie hanno semplicemente funzione formale, non sostanziale, aleggia la possibilità dell’impossibile. In essa, tutto potrebbe accadere, a indicare, tra l’altro, che il corso della storia non è mai necessitato, predeterminato dal trionfo dello spirito del tempo. Matevič è l’incarnazione del formalismo borghese del tempo, in quanto, subito dopo: «essere stato inghiottito dal “mostro” dichiara: “La mia unica preoccupazione è come prenderanno la cosa i miei superiori» (p. 94).
Il coccodrillo non è semplice inciampo nel percorso di pensiero di Dostoevskij. Proprio in quanto “eccezione” in esso è condensato l’antimodernismo dell’autore che, in opere considerate “maggiori”, assumerà tratto slavofilo e “antipapista”. Oltre ciò, lo scrittore mostra, in particolare nei dialoghi esilaranti dei personaggi (l’umorismo, a questi livelli di finezza ermeneutica e disvelativa ci pare ravvisabile nella letteratura moderna esclusivamente ne Il circolo Pickwick di Dickens) che la “fantasia” è lo strumento a cui guardare per portarsi oltre il mondo “mostruosamente” costruito dall’utilitarismo. Il coccodrillo è libro divertente e, per questo, di grande potenza.
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