Brasillach, l’essere gioioso

Il libro di Alice Kaplan Processo e morte di un fascista. II caso di Robert Brasillach uscito a Chicago nel 2000 e ora tradotto per il Mulino, pur avendo il merito di proporre fuori dell’area nostalgica il dramma d’uno scrittore fascista, morto fucilato a 35 anni, è, per altri versi, esemplare d’una situazione che peggiora dopo un lavaggio dei cervelli durato decenni.

Si dissolve il ricordo dei libri sul pensiero fascista francese di Paul Serant, di Tarmo Kunnas, dello storico israeliano Zeev Sternhell, dei saggi su Brasillach di Pol Vandromme e di Bernard George, per ricordare appena qualcuno degli autori che la Kaplan non degna nemmeno d’una citazione. Precisa anzi di non aver voluto incontrare durante le ricerche sorrette dalla Fondazione Guggenheim la sorella di Brasillach e il cognato Bardeche, che pure ne hanno ripubblicato (con qualche opportuno taglio) le opere e custodito i carteggi.

Figlia d’un pubblico ministero statunitense al processo di Norimberga, nel tempo risparmiato snobbando parenti e libri di Brasillach, la Kaplan ha condotto indagini stupide e superflue sui membri della giuria popolare che condannò lo scrittore, raccogliendo, come era prevedibile, notizie di scarsissimo interesse. Beh, sì: uno dei giurati venne ucciso qualche anno dopo da un marito cornificato, ma ciò non aiuta a capire idee che costarono a Brasillach la pena di morte.

Dagli scritti di Brasillach la Kaplan ha tratto una frase veramente infelice sugli ebrei («Dobbiamo separarci dagli ebrei en bloc, compresi i bambini») e una applicabile anche alla Repubblica “nata dalla Resistenza” e affogata nelle latrine di Tangentopoli (ma lui, naturalmente, si riferiva alla situazione francese): «La Repubblica, la vecchia bagascia sifilitica che sa di patchouli e di perdite bianche, continua a stare sul marciapiede». Più dell’opera di Brasillach l’hanno appassionata i pettegolezzi sulla sua mai dimostrata omosessualità. L’accusa in quei tempi era imbarazzante persino tra gli antifascisti. Al di fuori della famiglia, dove amò come capita a tutti la mamma e la sorella, Brasillach ebbe con donne un solo stretto rapporto con una militante di destra, Annie Jamet, madre di sei figli e moglie d’un amico. Si telefonavano per ore, viaggiavano insieme, organizzavano convegni, ma pareva disinteressato al sesso.

Non esiste però una sola prova che l’abbia praticato mai con giovanotti. I collaborazionisti vennero accusati d’essersi innamorati dei biondi tedeschi, delle loro divise, dei loro stivali e c’era effettivamente fra loro qualche frocio, ma è indecente che si continui a farne arma polemica (in chiave progressista!) nel clima più tollerante del Duemila, tra una sfilata e l’altra d’orgoglio omosessuale. Meno a suo agio nel trattar le idee, anche la Kaplan tuttavia ha una bella citazione da I sette colori, il romanzo per cui Brasillach fu candidato al premio Goncourt: «Forte della sua razza e della sua nazione, fiero del suo corpo vigoroso, della sua mente lucida, sprezzante dei beni grossolani di questo mondo, il giovane fascista nel campo, tra i camerati della pace che possono essere anche i camerati della guerra, il giovane fascista che canta, marcia, lavora, sogna, è innanzitutto un essere gioioso».

Erano di questo genere i reati di pensiero (e non altro) per cui venne fucilato. Definendolo «il James Dean del fascismo francese» la Kaplan conclude sostenendo che era colpevole di tradimento, ma il verdetto di condanna a morte fu «esagerato, ingiusto» e De Gaulle sbagliò negandogli la grazia, chiesta da una quantità di scrittori, perché «oggi il mito di un Brasillach martire innocente offre un sostegno all’estrema destra». Ma fu un sacrificio tristemente necessario nel momento in cui migliaia di lettori venivano assassinati senza processo da gollisti e comunisti talvolta solo per aver comprato Je suis partout, il settimanale di cui Brasillach era direttore. Tra i lettori c’erano anche i volontari delle SS francesi che andarono a combattere in Russia e i miliziani di Darnand che – ricorda la Kaplan – alla liberazione di Parigi spararono dai tetti come i franchi tiratori fascisti a Napoli, a Firenze, sino a Torino. Fenomeno europeo.

Gli intellettuali fascisti, da Berto Ricci a Giani, Pallotta, Gentile, Borsani, Pavolini, ma anche Drieu la Rochelle o Pound (per fare solamente qualche nome), non hanno mai preteso vie d’uscita privilegiate rispetto agli studenti, agli attivisti, ai legionari che allegramente giocarono la pelle dopo avere letto i loro libri.

* * *

Tratto da Area, aprile 2003, p. 71.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *