Il 13 maggio del 1909 da Milano partiva il primo giro ciclistico d’Italia della storia. Un evento che, in cento anni, di strada – reale – ne ha fatta e tanta, fino a diventare la spina dorsale di un’intera Nazione; una terra dove arte, politica e sport sono state spesso una sola cosa (non essendo quasi mai, forse, davvero se stesse) e dove proprio l’ultimo dei tre ha supplito alle tante delusioni di un Paese cresciuto male con un riformismo a volte sterile, più spesso furbacchione. Lo sport è stato così anche un grande carnevale pronto a far dimenticare i guai seri di un’intera popolo: il calcio in primo luogo ma anche il ciclismo, da sempre suo cugino più povero. Negli anni della ricostruzione, ad esempio, il Torino di Valentino Mazzola e poi Coppi e Bartali si spartivano le simpatie di milioni di italiani delusi e pacificati quasi a forza dopo una guerra costata fin troppo cara; una vittoria poteva significare tanto, perfino la pace sociale. Ne seppe qualcosa De Gasperi subito dopo l’attento a Togliatti nel 1948. Allora Gino Bartali fu quasi costretto a vincere il Tour de France per distrarre gli italiani da un “rivoluzione” quasi-annunciata.
Cent’anni di giro dunque. Una corsa a tappe nata in piena età giolittiana quando le guerre sembravano ancora molto lontane (mica vero però, perché quella di Libia scoppierà nel 1911), quando l’Italia era qualcosa di indefinibile animata com’era da uno spirito di compromesso che la renderà poco simpatica ai futuri governi fascisti. Organizzato dalla Gazzetta dello sport, il giornale sportivo con sede a Milano, il giro d’Italia seguiva di pochi anni la prima edizione del più noto Tour de France (nato nel 1903 e considerato, anno per anno, l’evento sportivo più prestigioso al mondo), e si concludeva dopo quasi 2500 km in sole 8 tappe incoronando il primo “eroe moderno”, tale Luigi Ganna, un contadino e muratore della provincia di Varese che poi diventerà imprenditore nel settore delle bici. Il grande Gianni Brera ne immortalò lo spirito pioneristico in una battuta. A chi gli chiedeva come si sentisse dopo la vittoria al giro, ha scritto Brera, “El Luisin” rispose: «l’impressione più viva l’è che me brüsa tanto ‘l cü!». In una frase schiettissima quella che sarà la storia di una competizione sportiva: fatica e dolore fisico. All’inizio del secolo scorso le biciclette pesavano come macigni, oggi sembrano aggeggi lunari, specie quelle per le gare a cronometro, ma lo sforzo dei ciclisti è sempre rimasto la stesso, ci sarebbe da scriverci un libro sul rapporto uomo-tecnica, qualcosa di incredibile, fra l’operaio jüngeriano e il romanzo d’appendice. Incredibile, già, come la carriera di Costante Girardengo, primo dei grandi nomi del ciclismo italiano. Nato a Novi Ligure nel 1893, due volte vincitore al giro (1919- 1923), nove volte al campionato italiano e sei volte alla Milano-Sanremo, la corsa in linea che apre la stagione delle classiche di primavera – un record che gli sarà strappato solo da Eddy Merckx, il “cannibale”, il corridore più forte di tutti i tempi. Pochi anni fa il cantautore Francesco De Gregori gli ha dedicato una canzone narrando della sua amicizia col bandito e compaesano Sante Pollastri, la cui vita, divenuta anche libro, è di per se un vero romanzo.
Cinque volte vincitore del giro (in pieno fascismo) è Alfredo Binda, altro atleta del varesotto, che nel 1930 fu pagato per non partecipare alla gara perché ritenuto troppo forte, di gran lunga più bravo degli altri partecipanti, erano tempi nei quali i veri campioni – quelli dotati di classe, forza e talento – spiccavano e di molto su tutti gli altri partecipanti. L’anno della fine della guerra d’Etiopia comincia invece l’era del toscanaccio Gino Bartali (1936 – 1946, con tre giri d’Italia vinti, anche se, purtroppo, il giro non si disputò dal ’41 al ‘45). Alla vigilia dell’ingresso italiano nella seconda guerra mondiale, comincerà la rivalità più celebre della storia dello sport italiano – e forse mondiale – quella fra Bartali ed il piemontese Fausto Coppi (di 5 anni più giovane e vincitore di cinque giri d’Italia: 1940, 1947, 1949, 1952 e 1953 e come Bartali anche di due Tour). I due rappresentarono per alcuni anni due Italie diverse, sportive e non solo. Fisicamente molto diversi, diversi anche per filosofia di vita. È notissima la relazione extraconiugale di Coppi con Giulia Occhini resa pubblica nel 1953. All’epoca i due subirono una condanna e la donna venne perfino arrestata. Ciò accadeva in un’Italia ove diritto e costume nazionale facevano ancora a pugni.
Coppi è né più e né meno il simbolo del talento fuori da ogni schema. Fisicamente appariva, ed era infatti molto fragile, ma era dotato di grande agilità muscolare, era leggero e il suo apparato cardio-circolatorio funzionava in modo eccezionale. Il cuore di Fausto Coppi, le sue pulsazioni (poco più di 40 al minuto), sono oggi un sogno per tutti gli sportivi. Coppi è stata una leggenda già da vivo, ciclisti, addetti ai lavori, cronisti e giornalisti sportivi sbiancano ancora al ricordo della frase pronunciata dal radiocronista Mario Ferretti nel 1949 in diretta radiofonica durante la Cuneo-Pinerolo (tappa che peraltro, verrà, ripetuta anche quest’anno): «Un uomo solo è al comando; la sua maglia è bianco-celeste; il suo nome è Fausto Coppi». Il mito dell'”uomo solo al comando” ha lasciato dietro di sé, fiumi di inchiostro e di esercizi verbali; ed è servito a creare, insieme alla morte a poco più di 40 anni avvenuta dopo aver contratto la malaria in Africa (1960), il mito dell’atleta imbattibile piegato da un destino che gli aveva riservato una grandezza ad orologeria. Coppi è il campionissimo che tutto il mondo ci invidia: come disse un giorno Gianni Mura se Merckx è il corridore più forte di sempre, Coppi è stato il più grande. Nulla da dire.
Ma al giro d’Italia si è andati avanti anche per generazioni. Gli anni Sessanta sono gli anni di Adorni, Motta e Gimondi, poi venne subito dopo l’era Merckx (5 giri d’Italia – 1968, 1970, 1972, 1973, 1974 e un numero di record oggi impensabili), poi il periodo dell’altra grande rivalità Moser-Saronni, nel mezzo il grandissimo Hinault, poi Miguel Indurain, l’indimenticabile Marco Pantani infine Mario Cipollini. Siamo ai giorni nostri. I quarantenni ricorderanno, quand’erano ragazzi, le lacrime di Eddy Merckx intervistato da un “freddo” e professionale Sergio Zavoli, nel 1969 dopo che Eddy venne squalificato dal giro per positività ad un controllo anti-doping. Quel giorno di quarant’anni fa l’Italia avrebbe scoperto oltre l’umanità del ventiquattrenne fiammingo, anche l’esistenza del problema dei problemi del ciclismo moderno: il doping, appunto.
Da qui a parlare di Marco Pantani, vittima in tutti i sensi di un mondo che non ha più l’umanità dei suoi tempi d’oro è cosa facile. Il ciclismo è specchio del nostro Paese in tutti i sensi e sa esserlo anche quando racconta storie che con le due ruote c’entrano assai poco. Ultimo mito del ciclismo italiano, vincitore nel 1998 del giro d’Italia e del Tour de France, come pochissimi e come fra gli altri Coppi e Gimondi. Già nel 1999 a Madonna di Campiglio, durante un controllo il numero di globuli rossi di Pantani fu trovato superiore (anche se di poco), rispetto al consentito. Il ciclista già sicuro vincitore del suo secondo giro venne allontanato dalla corsa. Ma da lì cominciò la sua discesa che dalle stelle del paradiso dello sport lo avrebbe portato all’inferno della droga e infine alla precocissima morte il 14 febbraio del 2004 per arresto cardiaco. Pantani faceva comunque uso di cocaina. Oramai era solo e depresso, ma sempre amatissimo dai suoi tifosi. Esploso negli anni Novanta, in poco tempo era diventato uno sportivo popolarissimo. Il più grande scalatore di tutti i tempi, così se ne parlava senza suscitare scandalo alcuno. Quando le pendenze cominciavano a salire, nessuno riusciva a stargli dietro. Era stato egli stesso un grande sponsor per uno sport, il ciclismo, in crisi di lungo periodo, con un deficit di spettacolarità e sempre più sottoposto a controlli per sconfiggere la piaga del doping. Ma di questa popolarità egli stesso era rimasto vittima, subendo pressioni d’ogni tipo. Grande sportivo e fenomeno (anche) mediatico, non si era più ripreso dopo quella sospensione dal giro che lo aveva sconfitto innanzitutto come essere umano.
«Mi sono rialzato dopo tanti infortuni e sono tornato a correre. Questa volta però abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile». Questa le parole profetiche del campione di Cesena. Da quel giorno solo una serie di alti e bassi. Ma mai nessun acuto, solo ricordi.
Tanti auguri allora vecchio Giro d’Italia, anche se molti sportivi, molti amanti del ciclismo, sono rimasti fermi a quel giugno di dieci anni fa, come in attesa di qualcosa, di una verità prima o poi confessata o mal simulata fra le righe. Ed anche di quest’Italia è stato specchio il giro d’Italia, se vogliamo, un’Italia bella ma piena di segreti, un’Italia coraggiosa, che sa soffrire, ma anche un’Italia imperscrutabile dove tutto è eternamente provvisorio. Parecchi minuti di vantaggio possono sempre trasformarsi in una disfatta senza fine. In una disfatta senza emozione. Auguri, auguri lo stesso caro Giro d’Italia.
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