L’americano, ‘bantù’ del futuro

1. Introduzione: caratteristiche ‘bantù’ dell’americano

L’americano è il mezzo d’espressione più diffuso in questi tempi. Generalmente conosciuto come ‘inglese’ (in quanto la sua zona storica d’origine è stata l’isola inglese), è però più corretto chiamarlo, appunto, americano (alla francese) perché il suo centro di potenza, che ha permesso la sua pandemica diffusione nel mondo moderno, sta in America, la quale ha assorbito in modo totale e irreversibile anche la sua ex ‘madre patria’ (1). In questa sua pandemica diffusione ha da vedersi un interessante e sinistro ‘segno dei tempi’. Più sopra, in questo stesso capitolo, si è detto qualcosa su certe affinità fra l’americano e le lingue dei selvaggi. Adesso si tratta di considerare più da vicino questo fenomeno linguistico.

Che l’americano abbia un carattere stranamente involuto è una cosa che avrà notato chiunque abbia con esso una discreta dimestichezza: non si tratta soltanto e semplicemente di una lingua appiattita, come possono esserlo la maggior parte delle lingue germaniche, con l’eccezione del tedesco, e in particolare le lingue scandinave e l’afrikaans. Ed è stato un acuto linguista francese, Claude Hagège (2), un elemento tutt’altro che ‘politicamente scorretto’, a dire senza mezzi termini che, strutturalmente, l’americano non ha ormai quasi niente di indoeuropeo e che invece è una lingua centroafricana (o sud-est-asiatica); aggiungendo che la bellezza e la chiarezza non sono preliminari necessari perché una lingua – un ‘idioma’, nel caso dell’americano – possa divenire un mezzo di comunicazione internazionale (e qui si sta forse parafrasando Gustave Le Bon [3], secondo il quale l’imbecillità di una dottrina non è mai stato un impedimento perché venisse accettata da vaste masse umane). Il carattere ‘bantù’ dell’americano risulta, paradossalmente, anche da un’osservazione della già citata Alice Werner (4), secondo la quale la mancanza di genere grammaticale in una lingua ‘altamente evoluta’ come l’americano la avvicina alle lingue ‘primitive’, anch’esse carenti di genere grammaticale ma che, secondo lei, “avrebbero la tendenza ad acquistarlo”. Quanto al carattere psicologico negroide dell’uomo americano, delle righe calzanti in riguardo sono state scritte da Julius Evola (5).

A parte il lato fonetico – le lingue bantù, come l’americano, sono foneticamente indefinite, soprattutto per quel che riguarda la pronuncia delle vocali che non si sa mai bene cosa siano – ci sono delle indicazioni che sembrerebbero suggerire che le psicologie soggiacente il bantù e l’americano potrebbero avere qualcosa di simile. La mappatura del bantù sull’americano è molto meno disagevole che sulle lingue europee – in riguardo un libretto di Charles Doke (6) è parecchio significativo. E significativa è anche la casistica relativa al fanakalò, quella lingua franca che si era sviluppata negli ambienti minerari sudafricani e che aveva incominciato a tracimare nella vita associativa bantù al punto che non pochi negri lo usavano anche fuori dall’ambiente di lavoro – adesso, sta cadendo in disuso perché bollata di essere un ‘retaggio coloniale’ (7). Da un’analisi del fanakalò risulta che – contrariamente a quello che tanti, che pure lo usavano, pensavano che esso fosse – non si trattava di una forma di americano bantuizzato (una sorta di black english [inglese negro], sul tipo di quello che ormai, in Amarica, sta diventando la parlata generale anche dei ‘bianchi’), ma di uno zulù americanizzato (un english zulu [zulù inglese]) – e, americanizzandosi, addirittura lo zulù venne a perdere buona parte delle sue, già molto modeste, forme sintattiche e grammaticale: esso si appiattì.

Cose del genere dovrebbero dare da pensare. C’è chi ha detto che l’islam (adesso pandemico nel Sud del Mondo) è l’ultima delle religioni possibili, nel senso che è difficile concepire come si potrebbe cadere più in basso nel campo del ‘religioso’. L’americano, adesso, è parlato pandemicamente, soprattutto ma non solo, nel Sud del Mondo, ed esso viene a essere, forse, l’ultima delle lingue possibili, in quanto difficilmente si può cadere più in basso nel campo del linguistico. C’è da credere che da uno studio dettagliato e in profondità della lingua americana si potrebbero dedurre le caratteristiche principali parlate dalle popolazioni selvagge di un futuro più o meno lontano: esso è un bantù in formazione.

2. L’americano è un ‘papiamento’: il meticciato linguistico

ilselvaggioIl papiamento è quell’intruglio di spagnolo, olandese, americano e portoghese che è parlato, e divenuto lingua ufficiale, nelle ex-Antille Olandesi. Un papiamento viene a essere un idioma che è il risultato di meticciato linguistico (che niente ha a che fare con l’adattamento di una certa lingua – generalmente, anche se non necessariamente, di conquistatori – a una popolazione a essa psicologicamente allogena: di questo si è parlato più sopra in questo stesso capitolo). E nello stesso modo che il meticciato biologico ha conseguenze teratologiche nel soma e nella psiche, il meticciato linguistico ha conseguenze esiziali nel modo di espressione – il che, alla lunga, c’è da credere che avrà un effetto di rimbalzo anche sulla qualità umana di chi l’idioma meticcio utilizza – ammesso pure che l’adozione di un papiamento come proprio idioma non stia a indicare qualcosa di psicologicamente ‘fuori di posto’ fra coloro che lo adottano (8).

Dei papiamenti, storicamente, si sono spesso sviluppati nei luoghi di contatto fra popolazioni molto diverse: questo è documentato sia in Europa che fuori dall’Europa. Ma la tendenza è stata quasi invariabilmente a che queste parlate degenerate scomparissero una volta che le condizioni che le avevano originate cessarono di sussistere oppure semplicemente con il passare del tempo – ne diamo qualche esempio.

Per molto tempo, in Spagna, nella zona di frontiera cristiano-musulmana, ci si intendeva con un misto spagnolo-arabo, la cosiddetta algarabía (9), che scomparve in brevissimo tempo dopo l’espulsione definitiva dei musulmani. Nei porti del Mediterraneo, ancora nel Settecento, le svariate ciurme si intendevano fra di loro e con le prostitute usando la lingua franca, fatta di spagnolo, francese, italiano, greco, turco e arabo; e a Buenos Aires, per oltre mezzo secolo, imperò il cocoliche, papiamento italo-spagnolo. – Nei primi tempi di Roma, nella zona di frontiera con gli etruschi a Faleria, per qualche tempo prese forma un papiamento latino-etrusco. – Tutti questi mezzi di comunicazione scomparvero non appena cessarono di essere funzionali a determinate situazioni.

In Africa, Martin Gusinde (10) indicava come fino agli inizi del secolo XX, nei pantani dell’Okawango, si fossero sviluppati papiamenti bantù-boscimaneschi, poi scomparsi con l’assorbimento definitivo dei boscimani da parte dei bantù. Invece lo suahili, papiamento arabo-bantù con una modesta aggiunta di portoghese, si è stabilizzato ed è diventato perfino lingua ufficiale in certi ‘paesi’ dell’Africa orientale.

L’americano è l’unico papiamento (“per metà francese male pronunciato e per metà Niederdeutsch pronunciato peggio ancora” [11]) che si sia stabilizzato in Europa (12). Anche dal punto di vista dell’evoluzione storica, l’americano è completamente diverso da tutte le lingue europee.

3. L’americanizzazione linguistica del Sud del Mondo

Il carattere essenzialmente non-europeo dell’idioma americano e la sua origine storica come papiamento – cose sicuramente non disgiunte l’una dall’altra – hanno dato origine, dopo l’avventura coloniale dei secoli XV – XIX, a interessanti sviluppi linguistici nel Sud del Mondo: l’americano si è rivelato (a) il trampolino linguistico ideale per lo sviluppo di altri papiamenti – papiamenti di secondo grado – che ormai si sono stabilizzati nelle parti meno civili del mondo abitato, (b) in ragione di essere un idioma che strutturalmente ed essenzialmente è ‘terzomondiale’, esso è un modo di espressione adatto alle psicologie larvali delle popolazioni selvagge che lo hanno adottato e che continuano ad adottarlo nel più naturale dei modi. (Sia fatto qui un appunto sulla presunta ‘adeguatezza’ dell’americano per trattare argomenti tecnici. Secondo Hans F. K. Günther [13], ideali all’uopo – per argomenti, appunto, tecnici, non psicologici e neppure matematici – sarebbero le lingue semitiche).

In svariati luoghi del Sud del Mondo i papiamenti a base di americano si sono sviluppati e sono in via di soppiantare o hanno già soppiantato le parlate locali; e questo non può essere attribuito soltanto alla notevole estensione geografica dell’ex-impero coloniale inglese: l’americano e i suoi papiamenti hanno presto soppiantato il tedesco, l’italiano, il francese, l’olandese, il danese e in tanti luoghi anche lo spagnolo e il portoghese. In America la lingua – lo si è già menzionato – tende ad africanizzarsi sempre di più con l’insorgere del black english; mentre papiamenti a base di americano sono lo spanglish di Puerto Rico (ex-colonia spagnola), il guyanese creolese della Guyana, il fanakalò sudafricano (americano-zulù, con assenza quasi totale dell’afrikaans). In Nuova Guinea (in parte ex-colonia tedesca), il pidgin (papiamento americano-papuaso con una modesta aggiunta di cinese) è addirittura assurto a lingua ufficiale. – In quasi tutto i Sud del Mondo si sono solidamente radicate le cosiddette “non-native varieties of english [varianti non-aborigene dell’inglese]” che, pure essendo divenute lingua materna solo dele classi privilegiate/’colte’, sono anche, a seconda dei luoghi, lingue ufficiali, seconde lingue comuni oppure mezzi di comunicazione con tutti gli stranieri fra le classi infime: nell’Indostan (là, le classi veramente colte, razzialmente distinte da quelle servili, parlano ancora le lingue indiane di origine sanscrita), in Pakistan, Malesia, Tailandia, Filippine, Ghana, Nigeria, Uganda, Tanzania, Zimbabwe, ecc. (14).

Una crescente americanizzazione linguistica del Sud del Mondo sta certamente prendendo piede; ed è da attribuirsi al fatto che l’americano – magari sotto forma ‘rettificata’, come ‘papiamento di secondo grado’ – è l’espressione idiomatica appropriata per quel tipo di popolazioni.

4. Confronto con le lingue boscimanesche

L’americano regge confronto non solo con il bantù, ma anche con le lingue boscimanesche. Questo studio fu intrapreso dallo scrivente già durante il suo primo soggiorno nell’Africa meridionale (15), quando ebbe occasione di acquistare una certa dimestichezza sia con l’americano che con il boscimanesco (16).

Le lingue boscimanesche hanno in comune con tutte quelle degli altri selvaggi l’indefinizione fonetica, soprattutto nella pronuncia delle vocali che sono intercambiabili, e l’indeterminatezza sintattica e grammaticale (almeno da un punto di vista indoeuropeo) – questi tratti, che le accomunano con l’americano, sono stati menzionati più sopra. Lo spesso citato Isaac Schapera (17) faceva notare come la costruzione delle proposizioni in lingue boscimanesche spesso coincidesse esattamente con quella delle proposizioni dello stesso significato in lingua americana – cosa che lui, americanofono, trovava strana e interessante.

Specificamente, le lingue boscimanesche hanno la caratteristica lessicale degli schiocchi, posti quasi invariabilmente all’inizio della parola; mentre nella ‘declinazione’ dei sostantivi, oltre al nominativo, le uniche forme che esistono e che in certo e qual modo possono essere interpretate secondo un paradigma europeo sono il vocativo e un ‘nominativo enfatico’. L’una e l’altra di queste caratteristiche indicherebbero che nelle lingue boscimanesche c’è una banalizzazione degli enfatici, per cui ogni altra parola viene a essere detta come se l’oggetto a cui si riferisce fosse causa di sorpresa o di ammirazione (lo schiocco viene a essere un”interiezione fonetica’). Questo ha un riscontro nell’americano: chiunque lo conosca avrà notato che molto spesso il tono con cui vengono dette le cose indica un’enfasi del tutto fuori luogo. – La banalizzazione degli enfatici è quella forma linguistica degenerativa per cui essi entrano a fare parte normale del linguaggio corrente e perdono la loro forza, per cui quando si voglia enfatizzare qualcosa per davvero bisogna mettere mano a circonlocuzioni. L’americano ci da un esempio perfetto di questo fenomeno nell’uso della particella do nelle negazioni, che in questo caso non c’entra con il verbo do [fare = germanico tun]: l’identità delle parole viene a essere una coincidenza fonetica. Il do della negazione è piuttosto, con il massimo di probabilità, una corruzione del germanico doch, particella enfatizzante usata molto poco in tedesco e solo quando ne valga veramente la pena. Se anche nell’americano, quando si tratta di affermazioni, essa ha mantenuto il suo uso corretto (I do want [voglio per davvero]), nelle negazioni il suo uso si è banalizzato, e mentre I do not want dovrebbe volere dire ‘non lo voglio assolutamente’, questa frase non viene a essere se non una normale negazione.

* * *

(1) L’isola inglese, da almeno il 1940, fa parte dell’America.
(2) Claude Hagège, Le souffle de la langue, Odile Jacob, Paris, 1992.
(3) Gustave Le Bon, nel suo classico La psychologie des foules, tr. it. Longanesi, Milano, 1992 (originale 1895).
(4) Alice Werner, Introductory sketch of the bantu languages, Kegan Paul, London (Inghilterra), 1919.
(5) Julius Evola, L’arco e la clava, Scheiwiller, Milano, 1971.
(6) Charles A. Doke, Outline of grammar of bantu, Department of African Languages, Rhodes University, Grahamstown (Sud Africa), 1982 (originale 1943).
(7) Sul fanakalò c’è poca letteratura, ma una buona messa a punto è data da D. W. Sparks, Translation programs for construction and mining, testo di una conferenza data al simposio “Computing in the new South Africa”, Midrand (Sud Africa), 1992.
(8) Cfr. Alain de Benoist e Giorgio Locchi, Il male americano, LEDE, Roma, 1978.
(9) In spagnolo moderno la parola algarabía esiste ancora e sta a indicare un caos di urlamenti sconclusionati.
(10) Martin Gusinde, Von gelben und schwarzen Buschmännern, Akademische Druck, Graz, 1966.
(11) La frase è del compianto storico e politologo francese Henry Coston, che onorò lo scrivente della sua amicizia nei primi anni Ottanta.
(12) Se l’isola inglese faccia veramente parte dell’Europa, è certo discutibile. Topograficamente essa ne fa, in quanto è un’isola posta al largo, e non lontano, delle sue coste.
(13) Hans F. K. Günther, Rassenkunde des jüdischen Volkes, Lehmann, München, 1931.
(14) Cfr. Claude Hagège, Le souffle de la langue, Odile Jacob, Paris, 1992; ottimo anche l’articolo di Aldo Braccio Aspetti culturali della colonizzazione angloamericana, rivista “L’uomo libero” (Milano), N. 54, ottobre 2002.
(15) Primi anni Settanta e poi fine anni Ottanta e primi anni Novanta.
(16) Sulle lingue boscimanesche, cfr. le riferenze bibliografiche date nella nota (39) qui sopra. Le grammatiche e i dizionari americano-italiani si sprecano, le grammatiche e i dizionari boscimanesco-italiani mancano del tutto. Un breve glossario tedesco-boscimanesco è dato in appendice da Carl Meinhof, Versuch eines grammatischen Skizze einer Buschmannsprache, Zeitschrift für Eingeborenen-Sprachen, Band XIX, 1928-1929 und XX, 1929-1930.
(17) Isaac Schapera, The khoisan peoples of southern Africa, Routledge and Kegan Paul, London (Inghilterra), 1930.

Il presente scritto costituisce il paragrafo 3, capitolo 1 della prima parte del libro di S. Lorenzoni Involuzione. Il selvaggio come decaduto, di prossima pubblicazione da parte delle Edizioni Ghénos di Ferrara.

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  1. Mario Marletta
    | Rispondi

    Silvano Lorenzoni è certamente una delle menti più brillanti di questo secolo.

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