Il turista italiano che passeggia per Vienna, abituato ormai da qualche tempo a ritrovare i “Savoia” solo tra le frivolezze televisive o nei resoconti della stampa pettegola, si stupirà nel sapere il nome di un Savoia onorato con riconoscimenti monumentali nella capitale austriaca. Il nome è quello di Eugenio: solo un cadetto nell’albero genealogico, ma forse il massimo esponente di quella linea di sangue nella scala dei meriti individuali.
La sua statua equestre troneggia nella Heldenplatz, la piazza degli Eroi, mentre il corpo riposa nel Duomo di Santo Stefano. Dopo la residenza imperiale, il palazzo che egli ricevette in premio per le imprese militari (il Palazzo Belvedere) è ancora oggi il più appariscente di Vienna. Insieme al “caffè espresso”, il ricordo del principe Eugenio rimane nei secoli il valore “italiano” più pregiato nella capitale del dissolto Impero.
Ma fino a che punto fu “italiano” Eugenio? Nipote del cardinale Mazarino, nato in una famiglia che ancora teneva le gambe a cavallo delle Alpi, il principe fu “italiano” come lo si poteva essere nell’epoca che precedette le fiammate nazionalistiche. Per comprendere l’intreccio di identità europee che covava nella sua personalità nulla è più indicativo del sapere come si firmava: Eugenio von Savoy. Ovvero col nome all’italiana, il cognome alla francese, e in mezzo la particella nobiliare germanica. Anche per queste incertezze “anagrafiche” la fama che egli si guadagnò respingendo i turchi raggiunse dimensioni continentali.
Per costruire un mito storico due sono gli ingredienti indispensabili: la giovinezza, l’aura di vittoria. Eugenio congiunse i due allori facendosi largo a sciabolate tra le truppe turche che nel 1683 assediavano Vienna. Aveva solo venti anni quando, il 12 settembre di quell’anno, l’Impero asburgico – che ancora si fregiava dei titoli di “sacro” e di “romano” – ingaggiò, vincendola, l’ultima e decisiva battaglia campale contro i Turchi-Ottomani in Europa. Quella vittoria inaugurò la lunga egemonia degli Asburgo d’Austria sul continente – vanamente contrastata dalla Francia – e soprattutto segnò la fine della massima aspirazione degli Ottomani: dilagare in Europa attraverso i Balcani, sottomettere l’Austria e le regioni confinanti, così come avevano fatto con la Grecia, la Serbia, la Romania ridotte a fornire giovinetti agli harem e alle truppe dei Giannizzeri.
Ovviamente a Costantinopoli avevano fatto male i loro calcoli: Vienna non era Belgrado, le truppe imperiali avevano qualcosa in più che non la tenacia montanara dei Serbi che si erano svenati, inutilmente, nella battaglia del Kosovo. Per quanto in Europa vi fosse chi remava contro e neanche tanto velatamente tifava per il Sultano, il sistema di potere incentrato su Vienna resse all’urto. E tuttavia la paura fu grande. Il numero esorbitante delle forze ottomane, i racconti dei loro costumi esotici conditi di ferocia e di leggenda, suscitarono il timore che l’islamizzazione dell’Europa fosse un destino storico inevitabile. Per questo motivo la gratitudine per Eugenio di Savoia – che tale timore dissolse sulla punta della sciabola – fu immensa. Equiparato a Orlando, a El Cid, a don Giovanni d’Austria (il vincitore di Lepanto), il principe savoiardo fu onorato come uno dei massimi condottieri asburgici. La sua vicenda personale si inserisce nella fulminea manovra di difesa-e-contrattacco messa in atto dagli Austriaci nel giro di un ventennio. Se negli anni Ottanta i Turchi ancora minacciavano Vienna, nel 1697 subivano per mano di Eugenio una clamorosa sconfitta e incominciavano quella ritirata verso Sud-Est scandita dalle battaglie di Buda e di Belgrado , delle quali sempre Eugenio fu il protagonista incontrastato.
La gentilezza del sangue e dei modi, l’intelligenza strategica e forse anche qualche eccentricità nei gusti arricchirono la figura del condottiero trionfatore. Leibniz dedicò ad Eugenio una delle sue opere principali ravvisando nella strategia del capitano i tratti distintivi del genio filosofico. A distanza di un secolo Napoleone Bonaparte lo considerò come uno dei suoi modelli ispiratori. Ma ai suoi tempi la figura popolarissima del principe non mancò di alimentare le malelingue. I lunghi capelli biondi, la tendenza ad accompagnarsi più spesso con i cavalieri che con le dame gli valsero l’epiteto di “Marte senza Venere”. I più espliciti lo chiamarono senza mezzi termini “Madame Sodomie”: era la stessa ingiuria che aveva accompagnato Cesare nei suoi trionfi, e che avrebbe accompagnato nel suo esilio Umberto, crepuscolare epigono della dinastia.
Oggi due biografie ricordano la storia romantica del capitano: l’una di Nicholas Henderson edita da Corbaccio (Eugenio di Savoia, pp. 400, € 22), l’altra di Franz Herre per la Garzanti (Eugenio di Savoia. Il condottiero, lo statista, l’uomo, pp.340, € 12). Entrambi i biografi concordano sulla grandezza “politica” di un personaggio che in età moderna sembrava perpetuare quella duplice abilità (civile e militare) dei grandi condottieri di età imperiale. Non a caso Federico il Grande di Prussia, un altro dei suoi ammiratori, lo definiva “il vero imperatore degli Asburgo”. Eugenio seppe alternare vittorie ed esercizi di equilibrio tra potenze. Gli mancò invece – ed è una mancanza che ne ingigantisce i tratti – la doppiezza infida dei politici di oggi, dei diplomatici di ieri. Non tradì mai la fedeltà alla casa imperiale. Annientò l’espansionismo francese in Italia, governò Milano per conto degli Asburgo. È fin troppo facile cogliere la differenza tra lo stile del cadetto di casa Savoia e quello del ramo regnante della sua famiglia. Eugenio, una volta arruolato da Vienna, fu per tutta la vita uomo dell’Impero. I Savoia ondeggiarono, si barcamenarono tra Francia e Austria per tutto il periodo delle guerre di successione. “Quando i Savoia concludono una guerra con lo stesso alleato con la quale l’hanno intrapresa è segno che hanno fatto due volte il giro del campo”, suona un beffardo motto anti-sabaudo. Vi è stato chi ha voluto interpretare la “volubilità” italiana nella seconda (e anche nella prima!) guerra mondiale alla luce della tendenza storica di Casa Savoia al… galleggiamento. Ovviamente tali esercitazioni poco hanno di storiografico e molto di letterario. Una più equilibrata ricostruzione dei dati storici evidenzia come il ducato di Savoia – insieme alla repubblica di Venezia, già avviata al declino – fosse l’unico stato della penisola realmente indipendente tra Seicento e il Settecento. L’autonomia di Napoli e Firenze era gravemente compromessa dal fatto che i loro troni fossero gestiti a distanza dalle potenze europee. L’autonomia dello Stato Pontificio aveva un carattere religioso e produceva per contrappasso una stagnazione politica ai limiti dell’immobilismo bucolico. Nei continui valzer di alleanze dei Savoia era chiaro il tentativo di preservare una fragile indipendenza, sempre in bilico, sempre a rischio di ingerenza da parte dei potenti vicini di casa, periodicamente in guerra tra loro. La fedeltà, priva di tentennamenti, di Eugenio verso Vienna produsse così un distacco del principe dalla sua dinastia di origine. Nel 1736 ai suoi funerali, che furono un evento di grandiosa e autentica commozione, sfilarono tutti i membri della casa imperiale, i più alti dignitari della chiesa cattolica, migliaia di veterani; ma nessun parente sabaudo venne da Torino a rendergli omaggio.
Negli anni ’30 il ghibellino Evola sulla “Stampa” rinverdì la memoria di Eugenio presentandolo come esempio storico della integrazione geopolitica tra l’area italiana e quella germanica all’insegna della romanità imperiale. Vide in lui la più alta espressione delle potenzialità della dinastia nata in Burgundia. Oggi lo si potrebbe considerare come un “europeo autentico”, estraneo ai bollori dei nazionalismi, ma capace di esprime al meglio lo stile, l’ethos della nostra civiltà. Paradossalmente, negli ambienti militari, la sua memoria è rinnovata ogni giorno dagli Alpini che intonano la “Marcia del Principe Eugenio”; quegli stessi Alpini che custodiscono i ricordi dello scontro finale tra Italia sabauda e Austria asburgica. Ma, paradosso nel paradosso, essi intonano un Lied composto da un tedesco, Andreas Leonhardt, per celebrare il salvatore di Vienna, il fautore della potenza imperiale.
< Oggi che la frontiera delle Alpi è un evanescente confine amministrativo, passeggiando nella Piazza degli Eroi di Vienna noi italiani possiamo compiacerci di aver regalato all’Austria con il principe Eugenio qualcosa di più importante che non gli aromi di un caffè espresso o i gorgheggi di un baritono ciccione.
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Nicholas Henderson, Eugenio di Savoia (IBS) (BOL) (LU)
Franz Herre, Eugenio di Savoia. Il condottiero, lo statista, l’uomo (IBS) (BOL) (LU)
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