Prefazione
Tenendo presente l’efficace similitudine di Marc Bloch che paragonò il lavoro dello storico a quello del giudice istruttore1, mi propongo di passare a un vaglio critico le testimonianze contraddittorie su Totila re dei Goti, il “perfidus rex” dei Dialoghi di papa Gregorio Magno, il “nefandissimus” della Pragmatica Sanctio di Giustiniano, l’atto con cui l’imperatore, diventato padrone assoluto di Oriente e Occidente, annullò tutti i provvedimenti adottati da Totila ai danni delle proprietà dei senatori romani. A tal fine, occorre preliminarmente esaminare il contesto storico in chi ha agito Totila: la Guerra Gotica. Questo conflitto fu iniziato da Giustiniano nell’anno 535 col pretesto dell’assassinio della regina Amalasunta, figlia di Teodorico e filobizantina, per mano del cugino Teodato. La guerra iniziò con l’invasione della Sicilia, lasciata quasi incustodita da Teodato. Lo scopo dell’imperatore era riconquistare l’Italia, governata fino a quel momento dalla casata di Teodorico. Durante il regno di Teodorico, che aveva sconfitto su mandato dell’imperatore Anastasio gli Eruli di Odoacre, l’Italia aveva goduto di un periodo di pace e di prosperità. L’illustre re goto aveva rispettato le prerogative del senato romano e finanziato numerose opere pubbliche. Aveva garantito libertà religiosa a tutti i sudditi per quanto egli fosse, come la maggioranza dei Goti, un seguace della dottrina di Ario, bollata di eresia dal concilio di Nicea che stabilì la consustanzialità tra Cristo e il Dio-Padre (secondo Ario, infatti, il Figlio non era compartecipe della stessa divinità assoluta e increata del Padre). Dichiarando che nessuno puo’ essere costretto a convertirsi con la forza, Teodorico aveva permesso ai cristiani niceni di conservare le loro chiese e aveva fatto ricostruire alcune sinagoghe incendiate dai cristiani. Nonostante non fosse vessata, la nobiltà senatoria, aveva sempre mal visto un dominio straniero da parte di barbari eretici e non aveva mancato di tramare perché l’imperatore Giustino, predecessore di Giustiniano e autore di misure persecutorie ai danni dei cristiani ariani, potesse rientrare in possesso dell’Italia. A quel complotto era seguita una dura repressione da parte di Teodorico, repressione che aveva mietuto come vittima illustre il filosofo Boezio. E con l’incarcerazione di papa Giovanni I, che si era rifiutato di mediare a favore dei cristiani ariani davanti all’imperatore Giustino, si erano creati insanabili attriti fra il sovrano e la Chiesa di Roma. Sono queste le premesse indispensabili per comprendere l’ostilità dell’aristocrazia romana e nicena verso i Goti. Giustiniano, successore di Giustino, si era prefisso il tanto ambizioso quanto anacronistico obiettivo di riunificare Oriente e Occidente sotto un unico trono. E nello stesso tempo, si era proposto d’imporre a questo impero unificato il solo culto cattolico-niceno, con l’eliminazione di tutti gli altri, tacciati di eresia2. I Goti erano finiti nel mirino delle rivendicazioni imperiali anche per il fatto di essere seguaci del cristianesimo ariano. La motivazione di voler debellare i Goti perché eretici e, come tali, nemici dell’ortodossia cattolico-nicena è infatti riportata nell’alleanza proposta da Giustiniano ai capi dei Franchi per combatterli: «sarebbe giusto che anche voi vi uniste a noi nel sostenere questa guerra, che siamo ugualmente impegnati a condurre non solo per la nostra fede ortodossa che ripudia l’eresia ariana, ma anche per l’odio che entrambi nutriamo per i Goti» (Procopio di Cesarea, Le guerre: persiana, vandalica, gotica a cura di Craveri M., F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1977 p.357).
Nell’anno 540, dopo le ripetute sconfitte militari di re Vitige, i Goti si erano arresi a Belisario, il Generalissimo di Giustiniano. Vitige era finito prigioniero a Costantinopoli e i Goti riorganizzarono la resistenza all’Impero bizantino nominando loro re Ildebado. Dopo l’assassinio di Ildebado, l’offerta della corona passò a suo nipote Totila (figlio di un suo fratello di cui non ci è stato tramandato il nome). Il giovane condottiero, che si trovava a capo della guarnigione di Treviso, accettò col patto dell’eliminazione di Erarico, re-fantoccio proposto dalla fazione dei Rugi, il quale stava per consegnare a Giustiniano l’intero regno d’Italia in cambio di vantaggi personali.
È adesso il momento di passare in rassegna le fonti su Totila, che, come vedremo, sono assai contrastanti.
Totila secondo la testimonianza di Procopio di Cesarea: il nemico cavalleresco
Procopio di Cesarea, cronista contemporaneo alle guerre gotiche, era a servizio dei Bizantini e avrebbe avuto tutto l’interesse a dipingere a tinte fosche il condottiero nemico. Riportò invece nella sua opera singolari atti di clemenza compiuti dal re dei Goti.
Nel 543, Totila espugnò la piazzaforte di Cuma. Là si trovavano le mogli dei senatori, ma ebbe cura che l’esercito non facesse loro alcuna violenza e le lasciò andar via libere acquistando con tale comportamento «fama di saggezza e umanità».
Nello stesso anno, conquistò Napoli che si arrese dopo un logorante assedio. Al suo ingresso in città, sfamò la popolazione stremata. Si curò persino di far nutrire gradualmente gli affamati perché non avessero danni da eccesso di cibo dopo prolungati digiuni. Una simile empatia verso i propri nemici è un evento così eccezionale che Procopio di Cesarea rimane attonito: il cronista non si sarebbe mai aspettato una simile generosità da un barbaro. In quella stessa occasione, Totila consentì ai soldati nemici comandati da Conone di ritirarsi via mare, ma una tempesta li bloccò sul porto. Conone e i suoi uomini temettero che i Goti li attaccassero a tradimento. Il re lo seppe e li rassicurò. Dopo diversi giorni, il vento contrario impediva ancora la navigazione. Allora, il contingente nemico dovette ritirarsi via terra e Totila lo rifornì addirittura di provviste per il viaggio, di cavalli e di bestie da tiro. Totila punì senza remore un suo soldato che aveva violentato una ragazza. Il padre della fanciulla, un cittadino romano, si era presentato da lui per denunciargli il fatto. Il re ordinò d’incarcerare il soldato e i suoi comandanti gli chiesero di perdonare il misfatto perché si trattava di un guerriero valoroso. Totila rispose loro: «Non è possibile che un uomo che si è macchiato compiendo un atto di violenza acquisti gloria in combattimento!». E il soldato ricevette un castigo esemplare: fu messo a morte e i suoi beni furono assegnati in risarcimento alla ragazza.
Procopio di Cesarea ci racconta anche della pietà dimostrata da Totila quando conquistò Roma, nell’anno 546. Il diacono Pelagio lo raggiunse nella basilica di San Pietro, dove si era recato a pregare, e lo supplicò di risparmiare la popolazione. Totila lo ascoltò. Inoltre, protesse dalle violenze dei Goti Rusticiana, vedova di Boezio, che stava per essere linciata. Non permise alcuna vendetta su di lei né alcun oltraggio nei confronti delle altre donne. A quel punto, Totila voleva concludere la guerra. Inviò un’ambasceria a Giustiniano con una missiva in cui proponeva all’imperatore la stessa pacifica collaborazione che c’era stata un tempo fra Teodorico e Anastasio. Il re dei Goti concluse la lettera con questa frase: «Se desideri (la pace), sarai considerato da me come un padre e potrai servirti di me come alleato contro chiunque vorrai». Giustiniano respinse l’ambasceria. Non considerava Totila un leader degno di trattare con lui, ma un usurpatore e un eretico. Così rispose ai messaggeri goti di andare a trattare con Belisario, il generale a cui aveva affidato la conduzione della guerra (equivaleva a un rifiuto dato che il Belisario era per la guerra a oltranza). Umiliato da quella risposta, Totila minacciò di radere al suolo Roma. Belisario lo dissuase. Gli scrisse che compiendo un’azione del genere, avrebbe coperto il suo nome d’infamia per tutti i secoli a venire.
Diverse città italiane caddero in mano a Totila in modo incruento. Procopio ci riferisce che Totila prese Fermo e Ascoli per capitolazione, che Erodiano, comandante della guarnigione di Spoleto, gli consegnò la città per uno screzio con Belisario e che Assisi gli fu ceduta dagli abitanti, sfibrati dall’assedio. Anche gli assediati nella fortezza di Rossano si arresero a lui. In quel caso, solo uno dei comandanti nemici fu ucciso perché non aveva mantenuto la parola data. La popolazione, pur privata dei suoi averi, non ricevette alcuna violenza fisica.
Procopio ci racconta infine la morte di Totila nella battaglia di Busta Gallorum (luogo identificabile con l’attuale Sassoferrato) che vide vincitore il generale bizantino Narsete. Il re dei Goti fu inseguito durante la sua ritirata da un drappello di mercenari e gravemente ferito da uno di essi con un colpo di lancia alle spalle. Riuscì a cavalcare fino al villaggio di Caprae, (l’attuale Caprara) dove morì poco dopo. I suoi uomini lo seppellirono in una tomba senza nome, in seguito profanata dai Bizantini per accertare l’identità del defunto. Procopio si rammarica per una fine così tragica e, a suo parere, immeritata: afferma che quella morte, dovuta all’imprevedibilità e all’illogicità del destino, «non fu degna delle sue passate imprese» e «non coronò i suoi meriti».
Nell’opera di Procopio di Cesarea troviamo anche situazioni in cui Totila punì con mano forte e i Goti commisero violenze. Ad esempio, Totila mise a morte il bizantino Isace che gli aveva ucciso l’amico Roderico. Non lo fece per crudeltà personale, ma perché vendicare il compagno d’armi caduto in battaglia era un punto d’onore per la mentalità del suo popolo3. L’ordine di mutilare il chierico Valentino si colloca poi in un contesto particolare. L’uomo fu catturato in una nave carica di provviste per l’esercito nemico e accusato di mentire nel corso di un interrogatorio su qualcosa che Totila riteneva di vitale importanza (e su cui Procopio tace)4.
Procopio riporta infine che l’esercito dei Goti irruppe nottetempo a Tivoli (le cui porte furono aperte dagli stessi soldati romani), saccheggiò la città e uccise brutalmente chiunque vi trovò. Ma non attribuisce il sacco di Tivoli a un ordine di Totila. Infatti, era frequente che bande di mercenari militanti negli eserciti commettessero violenze a prescindere dagli ordini del loro condottiero. Nel 536, quando Belisario espugnò Napoli, mercenari Massageti gli sfuggirono di mano e nella smania del saccheggio massacrarono civili persino all’interno delle chiese.
Per di più, tra il 544 e il 545 (periodo in cui è collocato il sacco di Tivoli) erano presenti nell’esercito di Totila molti soggetti smaniosi di far razzia: schiavi sfuggiti ai padroni romani e disertori passati dalle fila di Belisario a quelle dei Goti perché non ricevevano le paghe. È improbabile che Totila abbia ordinato il massacro dei cittadini di Tivoli a scopo intimidatorio verso Roma. Spargere il terrore non era infatti nei suoi intenti politici. Nelle lettere che cercò di far recapitare ai senatori romani dopo la conquista di Napoli, si presentò loro come un liberatore dall’esoso governo dei Bizantini e, dopo averli rimproverati per l’ingratitudine dimostrata ai Goti, si dichiarò disposto a perdonarli per essere passati dalla parte di Belisario, qualora gli avessero consegnato Roma. Promise inoltre che non avrebbe mai recato offesa ad alcun cittadino romano. Pertanto, non avrebbe avuto alcun senso, dal punto di vista politico, mostrarsi subito dopo come un nemico spietato a cui non conveniva affatto aprire le porte della propria città.
La punizione della Sicilia per aver accolto Belisario come liberatore, a dispetto delle prerogative accordate sin dai tempi di Teodorico all’isola (quale ad esempio, quella di essere sottratta dalla tertiarum deputatio, l’obbligo di spartizione delle terre con coloni goti), consistette in saccheggi di bestiame e di grano per rifornire l’esercito goto, lasciando che la popolazione si asserragliasse nelle città che Totila rinunziò ad assediare. Il sovrano era infatti interessato a razziare i ricchi latifondi dei Senatori i quali erano in gran parte i proprietari dell’isola. Procopio narra un fatto curioso che mette in luce quanto Totila, a differenza dei Bizantini, considerasse il valore di una donna al pari di quello di un uomo. Nei pressi di Catania era stato catturato dai Bizantini il consigliere di Totila, un certo Spino. Allora il re disse ai nemici che avrebbe consegnato loro, al posto di Spino, una nobile cittadina romana prigioniera dei Goti. Ma i Bizantini non reputarono un equo scambio prendere una donna al posto di un uomo (Procopio di Cesarea, op.cit.,p.646).
Totila nei Dialoghi di Gregorio Magno e nelle agiografie medievali: il simbolo dell’eresia (perfida mens) e del Male
Nei Dialoghi di Gregorio Magno, scritti attorno al 594, Totila compare come un anticristo, un simbolo del Male, contrapposto a vari uomini di Chiesa, personificazioni del Bene. Dopo il plateale turbamento per i rimproveri e la profezia di morte ricevuti da San Benedetto (Dialoghi 2,14), il sadismo e la crudeltà di Totila si placano solo per poco. Infatti, subito dopo, il “perfidus rex” getta a un orso il vescovo Cerbonio che però ammansisce la belva (Dialoghi 3,11) e lega sotto il sole il vescovo Fulgenzio, ma un temporale si abbatte sull’esercito e bagna tutti eccetto il religioso (Dialoghi 3,12). Pur non essendo presente all’assedio di Perugia, ordina a un generale di scorticare vivo e decapitare Ercolano, il vescovo della città. Il generale esegue l’ordine, ma la testa e la pelle di Ercolano si riattaccano al cadavere rimasto intatto per quaranta giorni (Dialoghi 3,13).
Il dibattito sull’attribuzione o meno dei Dialoghi a Gregorio Magno è annoso. Alcuni storici li hanno considerati un’opera spuria per la sua bassa espressione stilistica, inadatta a un erudito del livello di Gregorio Magno. Gustavo Vinay trattò i Dialoghi come un’opera letteraria di Gregorio Magno rinunziando a ogni pretesa di attendibilità storica.
Gina Fasoli ha visto nei Dialoghi un tentativo di convertire al cattolicesimo la fazione ariana dei Longobardi, divenuti nel frattempo padroni di buona parte dell’Italia: «Il papa manda perciò alla regina dei Longobardi (Teodolinda) i suoi Dialoghi, che con il loro candido raccontare pie leggende e sorprendenti miracoli erano particolarmente adatti ad impressionare e commuovere l’animo di individui emotivi e superstiziosi come erano in massima parte i Longobardi». (G. Fasoli, I Longobardi in Italia, Bologna 1965, Fasoli 1965, pp. 93-94).
Detto questo in generale, occorre premettere che Gregorio Magno proveniva da una famiglia dell’aristocrazia senatoria. E l’aristocrazia senatoria si vide espropriata dei suoi latifondi dalla riforma agraria di Totila. Il sovrano, al suo ingresso in Roma nel dicembre del 546, accusò poi i senatori d’ingratitudine per le loro posizioni filoimperiali e li spogliò delle loro prerogative con dure parole. Non meraviglia quindi l’avversione di Gregorio Magno verso il re dei Goti, già colpevole di essere un eretico. Ma è lo stesso impianto affabulatorio a confinare i racconti su Totila contenuti nei Dialoghi nel territorio della leggenda. L’ammansirsi della belva davanti al cristiano condannato a essere divorato nell’arena è un topos letterario che compare in numerosi racconti di martiri risalenti all’età romano-imperiale5.
La leggenda dell’incontro di Totila e San Benedetto è forse tra le pagine più note dei Dialoghi. Totila traveste da re un suo scudiero e si reca all’abbazia camuffato da semplice soldato per saggiare le doti di veggente di Benedetto. Il monaco però lo riconosce, gli rimprovera il “molto male” compiuto e gli profetizza la conquista di Roma e la morte al decimo anno di regno, terrorizzandolo. Tale racconto, oltre a riecheggiare la profezia di sconfitta e morte fatta dallo spettro del profeta Samuele a re Saul e il conseguente terrore del re d’Israele (Samuele 28,3-20), presenta varie incongruenze. L’incontro tra il re e il santo non può che essere collocato nel 542, quando Totila iniziò la marcia a Sud, tenendo conto che il regno di Totila finì tragicamente nel luglio del 552 con la battaglia di Busta Gallorum. Nel 542 Totila, appena nominato re, non si era di certo distinto per crudeltà, anzi aveva graziato i nemici sconfitti nella battaglia del Mugello. Il “molto male” compiuto da Totila coincide probabilmente con il fatto di essere “perfidus” per la sua mera adesione al cristianesimo ariano. Infatti, secondo il De Lubac, Gregorio Magno, nel chiamare Totila “perfidus rex”, usa l’aggettivo perfidus come sinonimo di eretico6.
Ispirandosi ai Dialoghi, le agiografie medievali (o meglio, le cosiddette “passioni epiche”) presentano Totila come un demonio, colpevole di atroci martiri. Si tratta di opere composte svariati secoli dopo la morte del re: alcune, come la passio di San Proculo, addirittura nel XIV secolo. La passio di San Lauriano, scritta nel X secolo, è emblematica. Lauriano contesta le dottrine di Ario e Totila manda dei sicari ad assassinarlo. Questi lo raggiungono e lo decapitano. Allora Lauriano raccoglie la propria testa recisa e li insegue, pregandoli di portarla a Siviglia dal loro re. Totila, a differenza del prozio Teudi, non mise mai piede in Spagna né mai vi regnò: questo dimostra che il Totila delle agiografie medievali non è un personaggio storico, è il simbolo dell’Eresia e quindi dello stesso Diavolo. Spesso è persino confuso con Attila7.
Totila nella storiografia ufficiale bizantina: il tiranno, l’usurpatore, il nefandissimus
Occorre adesso esaminare il giudizio dato a Totila dalla storiografia ufficiale bizantina che si esprime nell’Auctarium. L’Auctarium è un’aggiunta posteriore al Chronicon di Marcellino Comes. Marcellino Comes, funzionario di Giustiniano, interrompe i suoi annali con l’anno 534. Si tende ad attribuire a un anonimo Continuator l’aggiunta relativa agli anni delle Guerre Gotiche. Parlando di Totila, il racconto lapidario del Continuator entra in palese contraddizione con quello di Procopio di Cesarea. L’autore attribuisce a Totila non solo la distruzione di Tivoli, ma anche quella di Napoli che invece godette di un trattamento clemente secondo Procopio. Si legge infatti, riferito all’anno 544: «Totila assedia Fermo e Ascoli e distrugge Napoli e Tivoli» .
C’è un’analoga contraddizione per l’anno 545: Procopio ci riferisce che Totila prese Fermo e Ascoli per capitolazione, senza spargimenti di sangue. Il Continuator scrive invece che il re entrò nelle due città, lasciò andar via le truppe bizantine con tutto il loro bottino poi fece depredare e massacrare i civili sfogando su di loro la sua crudeltà8. Sempre riguardo al 545, l‘Auctarium afferma che Totila distrusse Spoleto («Totila Spoletium destruit»). Secondo Procopio, invece, il comandante Erodiano consegnò Spoleto a Totila per uno screzio con Belisario e la città non ricevette alcun danno. Queste contraddizioni possono essere risolte tenendo conto degli studi del Mommsen9. Secondo lo storico, l’Auctarium è stato scritto dopo la riconquista bizantina dall’Italia10. Quindi, come cronaca ufficiale della corte imperiale, propone la stessa visione del nemico sconfitto presente nella Pragmatica Sanctio di Giustiniano: il tiranno, l’usurpatore, il nefandissimus Totila. E con la lapidaria condanna della Sanctio come “nefandissimus” e dell’Auctarium come re per la rovina dell’Italia (“malo Italiae”), inizia la leggenda nera di Totila, che lo accompagnerà per tutto il Medioevo, fino all’era moderna. Anche il cronista Iordanes recepirà riguardo a Totila le posizioni dell’Auctarium. La storiografia di corte non può non risentire del giudizio di Giustiniano verso il suo nemico11. L’Imperatore, infatti, detestava Totila: il re goto non era imparentato con la dinastia di Teodorico, il sovrano che aveva ricevuto dall’imperatore Anastasio il mandato di governare in Italia, quindi reputava la sua incoronazione un mero atto di ribellione dei Goti. E lo vedeva come un usurpatore privo di ogni legittimazione a regnare, quindi come un nemico con cui non venire a compromessi e a cui muovere una guerra di annientamento.
Conclusioni
Nel caso di Totila, sono intuibili i sentimenti che stanno alla radice della sua demonizzazione. Di sicuro, l’odio del patriziato romano. Totila impoverì l’aristocrazia senatoria, alla quale apparteneva anche la famiglia di Gregorio Magno, privandola delle sue prerogative e delle rendite dei propri latifondi. Infatti, in base alla riforma agraria di Totila, i coloni che versavano i tributi ai Goti invece di pagare il canone al loro signore, diventavano proprietari delle terre su cui lavoravano. Questa riforma fu un tentativo di creare una nuova classe dirigente fedele alla causa dei Goti. Uno dei motivi principali della fama di nefandezza di Totila fu quindi il suo progetto di sovversione dell’ordine sociale: coloni che diventavano proprietari delle terre e schiavi elevati alla dignità di guerrieri liberi combattendo tra le fila dell’esercito goto, erano davvero troppo per la nobiltà senatoria filobizantina.
All’odio del ceto senatorio, bisogna aggiungere l’ostilità di Gregorio Magno. La “perfidia” di Totila è legata essenzialmente all’essere un eretico ariano.
La descrizione di Totila fatta nell’Auctarium, e conseguentemente da Iordanes che se ne serve come fonte, ricalca i risentimenti di Giustiniano. Per lui Totila non era altro che un barbaro non solo privo di ogni titolo per regnare in Italia, ma anche indegno di negoziare con lui. La spoliazione del ceto senatorio filoimperiale e la riforma agraria furono infatti i primi provvedimenti aboliti dalla Pragmatica Sanctio di Giustiniano, per via dei quali essa lega l’aggettivo nefandissimus al nome di Totila.
A questo punto, dopo un esame critico delle fonti storiche, si rivela opportuno un ridimensionamento delle nefandezze attribuite a Totila. Reputo parziale ed eccessivo accusare il re goto di essere stato il solo, malevolo responsabile del protrarsi delle guerre gotiche e della conseguente prostrazione dell’Italia. L’accusa rivolta a Totila di esser stato la sciagura dell’Italia e l’unico responsabile di un decennio di logorante guerra è stata ripetuta per secoli sull’eco dell’Auctarium, ma oggi sono emerse nuove posizioni. Negli Atti del convegno “Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente”, del 10 e 11 dicembre del 2011, sono state prese in considerazione le responsabilità di Giustiniano: «Infine è necessario tornare alla guerra e ai danni provocati da essa. Fu Giustiniano a volere la guerra ed è quindi sensato, anche per questa ragione, riconoscere in lui il principale responsabile degli effetti che essa ebbe». (Si veda Salvatore Liccardo, Declino e caduta del senato. Precedenti, successi ed effetti collaterali della politica di Giustiniano in Italia, Atti del Convegno Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente in Porphyra, giugno 2012, n.XVII p.54).
Anche il senato romano, di cui Giustiniano si presentò come liberatore dal tiranno Totila e dai suoi castighi, finì esautorato a favore di quello di Costantinopoli. Paradossalmente, la fine dei Goti segnò la fine anche del senato romano, loro fiero e irriducibile oppositore.
Le responsabilità di Totila appaiono quindi ridimensionate. Egli mandò più volte a Costantinopoli ambascerie di pace, ma non capì con quale nemico avesse a che fare. Giustiniano mirava sia a porre Oriente e Occidente sotto un unico trono, sia a eliminare di tutti gli elementi eretici, Goti compresi, in nome dell’unità religiosa sotto l’unico culto cattolico-niceno. Pertanto, nell’ottica di Giustiniano, ogni esponente di un culto diverso da quello niceno era un elemento da eliminare (per le persecuzioni di pagani ed eretici compiute da Giustiniano si veda F. Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori, Salerno Editrice 2011, p.146-149). Alla luce di tale documentata intolleranza religiosa, non è quindi arbitrario ipotizzare che la resistenza di Totila a Giustiniano sia stata anche una lotta per la libertà religiosa del suo popolo. I costi umani e finanziari degli sforzi bellici di Giustiniano furono enormi e prostrarono tutti i sudditi dell’impero. Inoltre, per quanto riguarda l’Italia, il loro effetto fu assai effimero: dopo la morte di Giustiniano, l’invasione longobarda privò Costantinopoli di buona parte dei suoi domini. Se Totila, alla vigilia della sua ultima battaglia, respinse i messi di Narsete che gli avevano proposto la resa, non lo fece di certo per caparbietà o egoismo. Quale condottiero si sarebbe arreso a un imperatore che gli aveva respinto l’ultima ambasceria di pace dicendo ai messaggeri di odiare il suo popolo e di volerlo cancellare dall’impero12? Considerando poi che Narsete fece decapitare tutti i Goti che si arresero a Busta Gallorum, che fine avrebbero fatto Totila e i suoi soldati se il re si fosse consegnato ai Bizantini senza combattere? Assai probabilmente, sarebbero andati comunque incontro alla morte o alla schiavitù, dato che Giustiniano aveva deciso una guerra di annientamento e odiava in modo particolare il nefandissimus Totila. Se poi a Busta Gallorum il re dei Goti attaccò il nemico l’indomani, anticipando di sette giorni la data pattuita con i messi bizantini, c’è da chiedersi perché mancò di parola un uomo che, nel racconto di Procopio, l’aveva sempre rispettata. Forse la risposta sta in una particolare caratteristica degli eserciti dei popoli nordici evidenziata nel trattato dello pseudo Maurizio: “soffrono il caldo eccessivo, il freddo, la pioggia […] e ogni dilazione del combattimento […]. Bisogna poi, nelle battaglie contro di loro,…trarre in lungo e differire il momento dell’azione, far finta d’intavolare trattative con loro, in modo che il loro coraggio e la loro volontà vengano indeboliti[…]” (citato in F.Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p. 312). In una parola: Goti, Longobardi, Franchi e altri germani si logoravano in modo particolare nell’attesa degli scontri fino al punto di perdere la volontà di combattere. Alla luce di ciò, Totila può essersi accorto dopo la partenza dei messi che il suo esercito, sfibrato da dieci anni di continue lotte, non avrebbe retto un’attesa di otto giorni utile a organizzare i piani e si sarebbe nel frattempo sbandato. Ma Narsete, conoscendo questa caratteristica dell’esercito goto, schierò le sue truppe per l’indomani. L’approssimativa e affrettata strategia adottata da Totila a Busta Gallorum, dimostra che il re pensava di poter contare su altri sette giorni (oltretutto, aspettava anche l’arrivo di duemila cavalieri come rinforzo) e, contrariamente alla volontà manifesta ai messaggeri di Narsete, dovette fare un repentino cambiamento di piani.
Se Gregorio Magno e la storiografia ufficiale bizantina sono fonti viziate da odi profondi verso Totila e verso la sua fede nelle dottrine di Ario, bisogna chiedersi se Procopio sia o no un testimone attendibile quando riporta le azioni magnanime di Totila, tenuto conto che in quel periodo non era in Italia al seguito dell’esercito bizantino. Seguì infatti Belisario solo fino alla presa di Ravenna e alla resa di Vitige nell’anno 540. Per quanto si tenda a valutare con cautela le testimonianze indirette, si possono evidenziare alcuni elementi a favore di una buona dose di attendibilità.
Innanzitutto, Procopio va contro i suoi interessi a mostrare Totila come un avversario dotato di maganimità e di saggezza. Avrebbe potuto assecondare Giustiniano e la corte imperiale dipingendolo come un tiranno sanguinario. In sostanza, la visione di Totila che emerge dall’opera di Procopio è quella di un nemico capace di punire con rigore, ma non privo di umanità e di giustizia. La clemenza di un nemico, per di più eretico e barbaro, dovette essere un evento così fuori dall’ordinario da suscitare un certo scalpore, quindi è plausibile che le notizie dell’umanità di Totila siano giunte a Procopio da resoconti di ambasciatori o di militari. Se nella sua opera il re dei Goti compare come avversario valoroso e magnanimo, non c’è niente di sospetto in questo: anche Cesare nel De Bello Gallico riconosce il valore e la grandezza d’animo del suo nemico Vercingetorige. Se è vero che il giudizio benevolo di Procopio verso Totila può essere stato influenzato da un’antipatia dell’Autore verso Narsete, rivale del suo “eroe” Belisario, è anche vero che Narsete intervenne nella campagna militare contro Totila solo alla fine del 550 e che i più eclatanti gesti di clemenza del re goto raccontati da Procopio risalgono a quando combatteva contro Belisario o contro i luogotenenti di quest’ultimo.
Accogliendo come verisimile la testimonianza di Procopio, c’è da chiedersi quali furono le motivazioni della singolare umanità di Totila, umanità che spicca davanti alle sistematiche vessazioni e uccisioni perpetrate dai mercenari dell’esercito bizantino: «Gli Italici venivano derubati dei loro beni dall’esercito dell’imperatore e capitava loro di subire violenze fisiche e di venire uccisi senza alcun motivo»13. Molto probabilmente, Totila coltivò il sogno di restaurare il prospero regno di Teodorico fondato sulla pacifica coesistenza dei Goti e della popolazione di origine romana. Vedeva in Teodorico il suo modello di regnante. Che Totila cercasse d’imitare Teodorico si vede bene quando, nel corso della prima conquista di Roma, andò a pregare nella basilica di San Pietro: lo stesso gesto che fece Teodorico dopo il suo ingresso trionfale a Roma nell’anno 500. Proprio perché voleva restaurare quella che per lui fu l’epoca d’oro di Teodorico, non si abbandonò a inutili crudeltà verso i nemici e la popolazione: voleva che sia i Goti che i sudditi di origine romana lo considerassero il loro sovrano ideale. Durante la sua seconda conquista di Roma (anno 550) tentò infatti di riconciliare le due popolazioni: «Quanto a Roma, Totila non volle né distruggerla né abbandonarla a se stessa perché aveva intenzione di popolarla con Goti e Romani insieme e questi ultimi non solo membri del senato, ma cittadini di ogni ceto». (Procopio di Cesarea, op.cit., p. 556). Anche il Liber Pontificalis (Vita Vigili, 7, 107), fu costretto ad ammettere: “habitavit cum romanis quasi pater cum filiis” (Totila abitò coi Romani come un padre con i figli).
Note finali
1 «Noi (storici) siamo dei giudici istruttori incaricati di una vasta inchiesta sul passato. Come i nostri confratelli del Palazzo di Giustizia, raccogliamo testimonianze con l’aiuto delle quali cerchiamo di ricostruire la realtà»: si veda Marc Bloch, Critica storica e critica della testimonianza, 13 luglio 1914, in M. Bloch, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 11-20
2 Si veda Alberto Peruffo, Storia militare degli Ostrogoti da Teodorico a Totila, Chillemi 2012, p.19: «tutte le guerre intraprese (da Giustiniano) ebbero un carattere di guerra religiosa contro i nemici della fede».
3 Per il patto d’onore e fratellanza che presso i popoli celtici e germanici legava i compagni d’armi, si veda Franco Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p.113. Vendicare il compagno caduto in battaglia si poneva come dovere del sopravvissuto.
4 Si veda Laura Carnevale,Totila come perfidus rex tra storia e agiografia, Vetera Christianorum 40, 2003, 43-69, p.48: “Anche se la fonte non consente di conoscere l’oggetto della menzogna, la reazione del re goto mostra come essa dovesse apparirgli molto grave e soprattutto disdicevole per un vescovo”.
5 Laura Carnevale, op.cit., p.57 cita a riguardo i martiri di Perpetua, Felicita, Paolo e Tecla.
6 Si veda Henri De Lubac, Esegesi medievale, i quattro sensi della scrittura, vol.3, sez. V, Milano, Editoriale Jaca Book, 1996 p.217. Inoltre, nel latino cristiano dell’epoca, il termine “perfidi” indicava tutti coloro che non avevano fede nel cristianesimo niceno: eretici, ebrei e pagani (si veda Fondamentalismo e Fondamentalismi a cura di A.Ales Bello, L.Messinese, A. Molinaro, Città Nuova Edizioni, Roma 2004, p. 63).
7 Si veda Laura Carnevale,Totila come perfidus rex tra storia e agiografia, Vetera Christianorum 40, 2003, 43-69, pp.66-67: viene esaminata in dettaglio dall’Autrice la confusione fra Attila e Totila nella Cronica del Villani e in varie agiografie tardo medievali.
8 «Crudelitatem suam in Romanos exercuit eosque omnes nudat et necat»: Sfogò la sua crudeltà sui cittadini romani, li privò dei loro beni e li uccise.
9 Si veda Mommsen, Continuator Marcellini (M.G.H.AA, 11, Berolini 1894), 42.
10 Si veda Eliodoro Savino, Campania Tardoantica (284-604 d.C), Parte 3, cap.2, Dalla fine del IV secolo alla guerra greco-gotica, Edipuglia s.r.l, 2005 p. 102.
11 Laura Carnevale, op.cit, pp. 51-52, spiega la dura posizione del Continuator e di Iordanes nei confronti di Totila con la loro piena adesione politica al punto di vista di Giustiniano secondo cui il tentativo di riconquista dell’Italia da parte di Totila non era altro che un illegittimo atto di ribellione. L’Autrice cita anche A. Amici, Iordanes e la storia gotica, Spoleto 2002, pp. 26.187.
12 «Già più di una volta Totila aveva mandato ambasciatori e questi, ammessi al cospetto dell’imperatore Giustiniano, gli avevano spiegato che i Franchi avevano occupato la maggior parte dell’Italia mentre il resto era quasi del tutto disabitato…e che i Goti erano disposti a lasciare ai Romani la Sicilia e la Dalmazia, le uniche regioni rimaste intatte, e a pagare per il resto dell’Italia, praticamente deserto, tributi e tasse ogni anno, oltre a combattere come alleati contro chiunque l’Imperatore avesse voluto e a rimanere suoi sudditi…Ma l’imperatore non aveva tenuto alcun conto le loro parole e aveva congedato tutti gli ambasciatori avendo in odio anche solo il nome dei Goti e intendendo assolutamente cacciarli dall’impero»: si veda Procopio di Cesarea, op.cit., p. 730
13 si veda Procopio di Cesarea, op.cit., p. 556
BIGLIOGRAFIA ESSENZIALE
Bloch Marc, Critica storica e critica della testimonianza, 13 luglio 1914, in M. Bloch, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 11-20;
Cardini Franco, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p.113;
Cardini Franco, Cristiani perseguitati e persecutori, Salerno Editrice 2011;
Carnevale Laura, Totila come perfidus rex tra storia e agiografia, Vetera Christianorum 40, 2003, 43-69;
De Lubac Henri, Esegesi medievale, i quattro sensi della scrittura, vol.3, sez. V, Milano, Editoriale Jaca Book, 1996;
Eliodoro Savino, Campania Tardoantica (284-604 d.C), Parte 3, cap.2, Dalla fine del IV secolo alla guerra greco-gotica, Edipuglia s.r.l, 2005;
Fasoli Gina, I Longobardi in Italia, Bologna 1965 Fasoli 1965;
Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli, Vol I, (a c.di S. Pricoco, M.Simonetti), Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005;
Liccardo Salvatore, Declino e caduta del senato. Precedenti, successi ed effetti collaterali della politica di Giustiniano in Italia, Atti del Convegno Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente in Porphyra, giugno 2012, n. XVII;
Marcellinus Comes, Chronicon e Auctarium, Biblioteca digitale di testi latini tardoantichi, Università degli Studi del Piemonte Orientale;
Peruffo Alberto, Storia militare degli Ostrogoti da Teodorico a Totila, Chillemi 2012;
Procopio di Cesarea, Le guerre: persiana, vandalica, gotica a cura di Craveri M., F.M. Pontani, Torino, Einaudi 1977;
Vinay Gustavo, Alto Medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, Guida Editori 1978.
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