Vita, passioni, delusioni di Arturo Reghini, pitagorico del Novecento
Arturo Reghini sublimò il patriottismo risorgimentale in qualcosa di religioso. E prese tanto sul serio la profezia mazziniana sulla “Terza Roma” da farla coincidere – nella sua visione – con la prima ed autentica Roma: quella dei Cesari e di Virgilio, di Numa Pompilio e dei re auguri. A ben vedere, il massone e matematico toscano portava alle estreme conseguenze idee ed intonazioni d’animo che erano nell’aria.
Non furono in pochi, all’indomani del venti settembre, a vedere nella liberazione di Roma il punto di partenza per una Renovatio spirituale. Carducci esaltò le virtù latine contrapponendole – nel famigerato e in fondo innocuo “Inno a Satana” – ai languidi turbamenti dell’anima cristiana. Pascoli rievocò nelle poesie Virgilio e nei saggi critici il Dante esoterico. La fantasia di D’Annunzio (sempre turgida) giunse a immaginare un accoppiamento eugenetico che avrebbe dovuto generare, come novello Puer, il Re di Roma!
Reghini coronò di idee esoteriche queste aspirazioni. E mescolò nei suoi scritti un ruspante anticlericalismo ottocentesco con la più matura esigenza di formulare in modo chiaro – e geometrico – una prospettiva spirituale che fosse autonoma rispetto al cristianesimo.
Delle battaglie e delle delusioni di Reghini, delle acquisizioni culturali e delle disfatte che incontrò sul suo cammino trae oggi un bilancio il professor Natale di Luca, che alterna la docenza di medicina legale alla Sapienza di Roma agli studi storico-esoterici in collaborazione con la casa editrice Atanor.
La biografia su Arturo Reghini. Intellettuale neo-pitagorico tra massoneria e fascismo, uscita nel novembre scorso proprio per i tipi di Atanor, si segnala per la grande serenità di giudizio (non sempre facile di fronte a un personaggio che suscita simpatie o antipatie “a pelle”), ed anche per il profondo rispetto umano, che Reghini indubbiamente merita. Quel rispetto che gli è stato tributato recentemente dal cristiano-antroposofo Alvi sulle colonne del Corriere della sera, qualche anno fa da Elemire Zolla in Uscite dal mondo. E in fondo dallo stesso Julius Evola che nel Cammino del Cinabro volle lasciare un ricordo “pacificato” del suo antico amico-nemico.
Arturo Reghini morì il primo luglio del `46, povero. Ma non “povero di spirito”. Ciò nonostante, la lunga frequentazione delle geometrie di Pitagora dovette conferirgli una certa beatitudine nel guardare l’ultimo Sole di un pomeriggio d’estate. Il destino gli evitò con la morte di assistere a una nuova fase “guelfa” della storia patria. Reghini se ne volò via insieme ai fasci, ai labari, alle aquile di un’altra Italia – quella immersa nel sogno “romano” -, che, pur inabissandosi, sempre come un fiume carsico riemerge.
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Tratto da Linea del 14 gennaio 2004.
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