Questo articolo fa parte di una serie di quattro, così composta:
Quarta parte.
Concludiamo la nostra analisi del discorso di Papa Bergoglio tenuto nell’Aula Paolo VI lo scorso 17 ottobre 2015, soffermandoci sulle ultime considerazioni del Pontefice in materia di gerarchia, sinodalità, decentralizzazione in seno alla Chiesa.
“Non dimentichiamolo mai! Per i discepoli di Gesù, ieri oggi e sempre, l’unica autorità è l’autorità del servizio, l’unico potere è il potere della croce, secondo le parole del Maestro: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,25-27). Tra voi non sarà così: in quest’espressione raggiungiamo il cuore stesso del mistero della Chiesa – “tra voi non sarà così” – e riceviamo la luce necessaria per comprendere il servizio gerarchico”.
Il “servizio gerarchico” (altra espressione discutibile per quella sovrapposizione di piani diversi di cui si parlava già nel precedente articolo, che di fatto stravolge il senso reale del concetto di gerarchia, affiancandogli concetti estranei al suo dominio) viene così definitivamente smontato, prendendo spunto da passi evangelici ad hoc in cui l’idea del rapporto governanti-governati e capi-popolo viene letto in chiave di tirannia e di oppressione.
L’evangelica espressione “Tra voi non sarà così”, al di là del riferimento ad un concetto distorto e deviato del potere, in cui gerarchia diventa gerarchismo e il rapporto capi-seguaci diventa oppressivo e tirannico per il progressivo ridimensionamento di una reale legittimazione dall’alto di chi comanda, attiene comunque ad un piano diverso, che concerne l’essenza stessa dell’egualitarismo cristiano e del suo mal compreso significato.
Infatti, di contro al Cristianesimo inteso come fenomeno sociale e laicizzato, intriso di egualitarismo livellatore verso il basso, progressismo, democratismo, relativismo ed ottimismo spesso banale e sterile, occorre comprendere il vero significato del concetto di uguaglianza verso l’alto, verso il divino, intesa in termini di responsabilità, che non esclude, anzi, qualifica la necessaria dimensione gerarchica e differenziatrice nell’articolazione della comunità[1]. In questi termini l’uguaglianza va intesa come parità di trattamento nell’essere chiamati a rispondere dell’adempimento del proprio dovere e dei propri compiti, conformemente alla propria natura, al ruolo ed alla funzione che si è chiamati a svolgere in comunità organicamente strutturate[2].
Nello stesso ambito cristiano sarebbe tra l’altro facile trovare ben altri riferimenti che giustificano rapporti gerarchici e legittimazione del potere politico dall’alto. Si pensi, tra i tanti esempi, al passaggio contenuto nel Vangelo di Luca (17, 7-10)[3], che racchiude peraltro un significato “interno” molto importante[4], o alla celebre frase rivolta da Gesù a Pilato: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto” (Giovanni 19,11). E ancora, si ricordi il celebre capitolo 13 della Lettera di San Paolo ai Romani, “Sottomissione ai poteri civili”, di cui si è vanamente cercato di attenuare, alterare o sminuire i significati (“… Non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”, si legge nel primo versetto)[5].
“(…) Il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari. (…) il Codice di diritto canonico dedica ampio spazio a quelli che si è soliti chiamare gli “organismi di comunione” della Chiesa particolare: il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, il Capitolo dei Canonici e il Consiglio pastorale. Soltanto nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col “basso” e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale: tali strumenti, che qualche volta procedono con stanchezza, devono essere valorizzati come occasione di ascolto e condivisione.
Il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali. (…). In una Chiesa sinodale, come ho già affermato, «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”».
L’ultimo livello è quello della Chiesa universale. Qui il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale (Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, 5; Codex iuris canonici, cann. 342-348). Due parole diverse: “collegialità episcopale” e “Chiesa tutta sinodale”. Esso manifesta la collegialitas affectiva, la quale può pure divenire in alcune circostanze “effettiva”, che congiunge i Vescovi fra loro e con il Papa nella sollecitudine per il Popolo di Dio. (…) Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese (Sant’Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos, Proemio: PG 5, 686)”.
Il Papa, nell’affrontare l’articolazione concreta della Chiesa sinodale, avverte la “necessità di procedere in una salutare ‘decentralizzazione’”, propugnando una sorta di “federalismo spirituale” che appare ben lontano dall’idea di una sana gerarchizzazione qualitativa, ed assai più vicino ad uno scaricamento di forze su base orizzontale, ad una dispersione centrifuga, prodromo della dissoluzione in atto della tensione unitaria verticale. E ovviamente insiste ancora sul tema del rivolgimento verso il basso: “Soltanto nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col “basso” e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale”.
Tutto questo in vista dell’ultima osservazione di Papa Bergoglio, ripresa dall’enciclica Evangelii gaudium, che costituisce in modo inquietante un’ulteriore spia di quel tarlo riformistico-modernista che continua a rodere dalla fondamenta la Chiesa Cattolica Romana, alimentandone incessantemente il processo di caduta e di decadenza che ne tocca nel profondo l’essenza:
“(…) ribadisco la necessità e l’urgenza di pensare a «una conversione del papato» (Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium)”.
Note
[1] Al riguardo si veda ad esempio il Capitolo 12 della Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, in particolare i paragrafi 4-11 (diversità e unità dei carismi) e 12-30 (paragone del corpo; la gerarchia dei carismi).
[2] Nel Cristianesimo delle origini, l’esaltazione della dimensione paritaria ed egualitaria era funzionale all’accelerazione della chiusura del ciclo precedente, che era ormai giunto al suo livello massimo di decadimento avendo esaurito la sua spinta e la funzione storica, culturale e spirituale. Interessante è anche la ricostruzione che propose Julius Evola, circa il Cristianesimo delle origini, in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, da lui così descritta nella sua autobiografia Il cammino del cinabro: “Da un altro lato, riconobbi al cristianesimo originario il valore di una possibile via disperata e tragica della salvazione: con riferimento sia all’uomo appartenente alla massa dei diseredati e dei senza-tradizione alla quale a tutta prima si rivolse eminentemente la predicazione cristiana, sia, più in generale, ad uno speciale tipo umano. L’alternativa di una eterna salvezza o di una eterna perdizione da decidersi una volta per tutte su questa terra, esasperata da imagini impressionanti dell’aldilà e dall’idea dell’imminente venuta del Giudizio Universale … era un modo per suscitare, in alcune nature, una estrema tensione la quale, se unita ad una certa sensibilità pel sovrannaturale, poteva anche dare i suoi frutti: se non in vita, forse in punto di morte o nel post-mortem”.
[3] “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccami la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
[4] Quando si citano i vangeli cd. “canonici”, è sempre necessario premettere che l’esegesi piattamente letterale e spesso molto romanzata ne ha svilito i contenuti simbolici ed interni che ancora rimangono, sia pure nel testo conosciuto (a sua volta probabilmente rimaneggiato e modificato in alcuni passaggi, forse a carattere gnostico-metafisico), conformemente d’altronde al doppio piano di lettura (esoterico/interno – essoterico/esterno) che ogni scrittura sacra regolare possiede.
Ebbene questo passo, dal tenore piuttosto duro (e decisamente in contrasto – come peraltro altri passi – con certe tesi circa l’origine dell’egualitarismo democratico e persino del comunismo dal cristianesimo), si conclude con la stentorea frase “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Si può notare in questa frase, correttamente intesa, una manifestazione nella tradizione cristiana del concetto della cd. “azione impersonale”, l’“agire senza agire” della tradizione taoista (wei-wu-wei), cioè l’agire senza desiderio: fare ciò che deve esser fatto, eseguire il proprio dovere senza guardare egoisticamente al proprio tornaconto, sganciando quindi l’azione dai frutti soggettivi della medesima. A tale riguardo occorre chiarire il significato reale dell’aggettivo reso in italiano col termine “inutile”. L’espressione evangelica originale in greco è “douloi (‘servi’) acr(e)ioi (‘in-utili’) esmen (‘siamo’)”. Nell’aggettivo acreios/acrios troviamo un “alfa privativo” applicato ad un aggettivo, creios, la cui radice si ricollega a sostantivi, come creia o creos, che indicano concetti quali: vantaggio, premio, utilità, guadagno, soddisfazione, indennità, risarcimento. Quindi: non dobbiamo avere alcun guadagno, siamo “senza utile”, poiché abbiamo fatto semplicemente quanto dovevamo fare. Non abbiamo diritto a nessuna ricompensa aggiuntiva, a nessun premio, a nessun vantaggio personale in più per quanto fatto. Il concetto si ricollega esattamente a quello dell’azione impersonale
[5] Riportiamo il testo integrale del capitolo 13: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto”.
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