Di tutte le navi corsare che la Marina imperiale germanica lanciò sugli oceani durante la prima guerra mondiale per dare la caccia al naviglio mercantile alleato, il Wolf (= lupo) fu certamente quella che ottenne i successi più spettacolari e che condusse la crociera più lunga e fortunata: ben quindici mesi di navigazione ininterrotta, senza mai poter entrare in un porto amico e senza l’ausilio di navi appoggio per l’indispensabile rifornimento di carbone, violando con successo il blocco navale inglese nel Mare del Nord sia nel viaggio di andata, che in quello di ritorno.
Eppure non si trattava di una nave dai requisiti eccezionali, bensì di un mercantile qualsiasi, riadattato in piena guerra: un vapore ad un’elica di nome Watchtfels, costruito nel 1913 per le la Hansa Linie di Brema, 5.800 tonnellate di stazza e una velocità – assai modesta – di undici nodi. La sua trasformazione in nave da guerra adibita a una lunghissima crociera in mari lontani fu un miracolo di organizzazione e di uso razionale dei non grandi mezzi a disposizione: prova del fatto che, in guerra, non è solo la forza bruta a determinare l’esito delle operazioni, ma anche lo spirito d’iniziativa, l’impiego intelligente dei materiali a disposizione, la tenacia, la qualità del morale degli uomini e l’intraprendenza dei capi.
Altre navi corsare tedesche compirono imprese memorabili, ma nessuna ebbe quel misto prodigioso di fortuna, coraggio e abilità, che consentirono al Wolf di spingersi così lontano, fino all’Antartico e alla Nuova Zelanda, infliggendo tanti danni al nemico, pur potendo contare su così modeste risorse. In pratica, esso si alimentò di quanto potevano fornirgli le sue stesse prede, sia in termini di combustibile, sia di viveri e perfino d’informazioni.
Prima di lui, il Möwe aveva compiuto ben due crociere, in tempi ravvicinati, tra la fine del 1915 e i primi mesi del 1917, riportando notevoli successi, specialmente nella seconda (cfr. il nostro precedente articolo Le due crociere della nave corsara «Möwe», dicembre 1915 – marzo 1917); ma non si spinse fuori dell’Atlantico e non rimase mai lontano dalla Germania per più di cinque mesi consecutivi.
Altri incrociatori corsari tedeschi che fecero parlare di sé furono il Kronprinz Wilhelm, il Kaiser Wilhelm der Grosse, il Prinz Eitel Friedrich e il Cap Trafalgar: tutti navi mercantili che si trovavano sui mari allo scoppio della guerra (ad eccezione del secondo) e che vennero armati dagli incrociatori leggeri che si trovavano all’estero in quel momento, come il Dresden e il Karlsrhue (cfr. F. Lamendola, L’ultima crociera dell’Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland, novembre – dicembre 1914).
Presso l’Ammiragliato britannico si credeva che tutti o quasi tutti i mercantili tedeschi all’estero fossero dotati di cannoni nascosti nelle stive, e che, allo scoppio della guerra, sarebbero stati prontamente trasformati in incrociatori ausiliari; ma non era affatto così. Solo col tempo e sulla base di alcune positive esperienze, il Comando della flotta tedesca giunse a comprendere e apprezzare al suo giusto valore le possibilità offerte dalle navi mercantili trasformate in incrociatori ausiliari per danneggiare i commerci del nemico; e, quando ciò avvenne, era già troppo tardi. La carta decisiva fu giocata dai sommergibili, che godevano di maggiore autonomia e potevano forzare il blocco e spostarsi attraverso i mari con molta maggiore segretezza.
Il Kronprinz Wilhelm, di 15.000 tonnellate, aveva lasciato il porto di New York nell’agosto del 1914 ed era stato armato con quattro cannoni cedutigli dal Karlsruhe, col quale si era incontrato in mare aperto. Al comando del capitano di vascello Thierfelder condusse una fortunata crociera di otto mesi nell’Atlantico meridionale, affondando ben 17 navi alleate, prima di essere costretto ad entrare nel porto di Newport News, ove venne internato, l’11 aprile 1915.
Il Kaiser Wilhelm der Grosse era un transatlantico di 14.500 tonnellate che si era reso celebre nel 1897, allorché – prima nave della Marina tedesca – aveva vinto il nastro azzurro per la traversata atlantica nel tempo più breve, filando alla velocità media di 22 nodi. Partì dalla Germania il 4 agosto 1914, poche ore prima che il governo di Londra dichiarasse la guerra, ma non ebbe fortuna. Dopo aver catturato due sole navi, il 26 agosto fu attaccato e colato a picco dall’incrociatore inglese Highflyer davanti al Rio de Oro spagnolo, sulla costa africana prospicente le isole Canarie. Una terza nave da esso fermata, il transatlantico Arlanza, era stato lasciato andare perché portava a bordo anche donne e bambini: una nota gentile che suona quasi patetica, agli esordi di una guerra mondiale che avrebbe visto gli orrori dei gas asfissianti, i primi bombardamenti aerei sulle città indifese e la barbarie degli affondamenti indiscriminati da parte dei sommergibili.
Il Prinz Eitel Friedrich, un vapore di 9.000 tonnellate che stazionava nei mari della Cina, ebbe una carriera brillante. Al comando del capitano di vascello Thierichens, ricevette alcuni pezzi d’artiglieria dalla cannoniera Tiger e si allontanò da Tsingtao appena in tempo per evitare di restare intrappolato dal blocco navale alleato. Dopo aver traversato l’intera lunghezza dell’Oceano Pacifico, si ricongiunse temporaneamente con la squadra dell’Ammiraglio von Spee ed entrò a Valparaiso dopo la vittoria tedesca nella battaglia navale di Coronel, il 1° novembre 1914. Poi riprese la sua crociera solitaria, risalì l’Atlantico (mentre la squadra di von Spee veniva distrutta alla isole Falkland, l’8 dicembre) e finì internato anch’esso a Newport News, l’11 marzo 1915, dopo aver affondato complessivamente 11 navi, per la maggior parte velieri. A parte il Dresden, che fu costretto ad autoaffondarsi il 15 marzo presso l’isola di Mas a Tierra nell’arcipelago Juan Fernandez, fu la nave da guerra tedesca che sopravvisse più a lungo sugli oceani, prima della crociera del Wolf, che ebbe inizio quasi due anni dopo.
Infine il Cap Trafalgar, piroscafo di 18.000 tonnellate, non riuscì a catturare nemmeno una preda prima di essere affondato nel corso di un epico combattimento presso l’isola brasiliana di Trinidad, il 14 settembre 1914. Il suo avversario era un incrociatore ausiliario britannico, il Carmania, dalle caratteristiche molto simili alle sue, per stazza e velocità, che aveva però un decisivo vantaggio in fatto di armamento: otto cannoni da 120 mm. contro due soli da 103 mm. Nonostante la disparità di forze, la nave tedesca si batté con grande valore e riuscì quasi ad affondare il nemico, prima di essere colata a picco (cfr. Francesco Lamendola, Una battaglia fra due transatlantici. Carmania e Cap Trafalgar).
Ma torniamo al Wolf.
Il Watchtfels, verso la fine del 1916, entrò segretamente nel bacino di carenaggio e venne armato con sette cannoni da 150 mm. e quattro siluri; sia i cannoni che i lanciasiluri erano abilmente mascherati da false murate di maniera, in modo da sembrare una inoffensiva nave mercantile. Era dotato anche di un idrovolante e di personale così specializzato che, quando il velivolo perse un’ala nel corso della crociera, poté essere riparato senza l’ausilio di nessuno. Infine, furono caricate a bordo circa 400 mine, che dovevano essere deposte lontano dall’Europa e dall’Atlantico settentrionale, davanti ai porti ritenuti sicuri dal nemico, fra il Mare Arabico e l’Oceano Pacifico occidentale. Per tale ragione, il Wolf aveva ricevuto ordini tassativi di non affondare naviglio nemico nel Nord Atlantico e di non spargere in alcun modo l’allarme, prima di essere giunto nei pressi del Capo di Buona Speranza, in modo da poter giungere del tutto inaspettato davanti ai suoi lontani obiettivi. Solo a quel punto avrebbe potuto iniziare la sua carriera di corsaro.
Il comandante era il capitano di corvetta Carl Nerger; lo affiancava un primo ufficiale proveniente dalla marina mercantile, Schmehl. Data la natura della sua missione, il Wolf uscì dal porto di Kiel nel massimo segreto e, dopo un incidente alle macchine, lasciò definitivamente la Germania il 30 novembre 1916. Con il favore della nebbia raggiunse la Norvegia senza essere scoperto; indi, dopo averla costeggiata, puntò a nord-ovest, passò tra le maglie del blocco inglese ed entrò senza incidenti nel Canale di Danimarca, fra l’Islanda e la Groenlandia, sfiorando i ghiacci galleggianti e sfruttando i pericolosi alleati di quei mari settentrionali, in pieno inverno: la fitta nebbia, le nevicate, i piovaschi e le acque agitate.
Giunto al largo di Capo Farvel, l’estremità meridionale della Groenlandia, il Wolf mise la prua al sud e scivolò lungo l’Atlantico, seguendo all’incirca il 40° meridiano, tagliando inosservato la frequentatissima rotta New York-Liverpool; indi attraversò l’Equatore e diresse a sud-est, giungendo davanti al Capo di Buona Speranza, ove depose un primo e un secondo carico di mine sia davanti a Città del Capo, sia davanti al capo Agulhas, all’estremità meridionale del continente africano; il tutto sempre senza farsi notare.
E già questa prima parte della missione, per quanto svolta in sordina, si deve ritenere un’impresa del tutto eccezionale. Vero è che lo aveva assistito una fortuna non comune: ad esempio, al largo di Città del Capo si era imbattuto in un intero convoglio alleato, guidato dall’incrociatore inglese Berwick; e, non avendo fatto in tempo ad allontanarsi, gli era sfilato di controbordo, come nulla fosse. Quella sera stessa, aveva deposto il suo micidiale carico di mine. Era il 16 gennaio 1917, ed erano passati solo quarantasette giorni dalla sua partenza.
Entrato nell’Oceano Indiano, si era diretto dapprima all’isola di Ceylon, deponendo un terzo campo di mine davanti al porto di Colombo; poi verso nord-ovest, posandone un quarto al largo di Bombay. Solo allora incominciò a fare prede, catturando la petroliera Turritella, che trasformò in posamine ausiliario, col nome di Iltis, e la spedì al largo di Aden, ove essa dovette autoaffondarsi per non finire catturata, dopo aver compiuto la sua missione.
Le mine deposte dal Wolf nelle acque dell’India causarono poi gravi danni al nemico. Davanti a Colombo vi affondarono il postale Worcestershire e il transatlantico Perseus; davanti a Bombay le urtarono e colarono a picco altre navi, tra le quali il transatlantico Mongolia (sul quale persero la vita 26 persone).
Intanto la nave corsara iniziava la traversata dell’Oceano Indiano da nord-ovest a sud-est, catturando alcune navi mercantili, dalle quali si riforniva di viveri e carbone: appena la quantità necessaria per tirare avanti, prendendo a bordo, ogni volta, gli equipaggi delle navi affondate. Girando attorno al Capo Leeuwin, scivolò a sud dell’Australia e, per evitare possibili incontri con navi da guerra, tenne una rotta molto meridionale, che la portò in vicinanza della banchisa di ghiaccio del continente antartico. Dopo averla costeggiata per un lungo tratto, affrontando i «Cinquanta urlanti» e i «Quaranta ruggenti», il Wolf passò oltre la Tasmania e la Nuova Zelanda, dopo aver toccato la punta sud-orientale di quest’ultima; poi, nei pressi delle Isole Kermadec, catturò e affondò due mercantili, il Wairuna e il Winslow.
Così è stata descritta la cattura del Wairuna, un vapore da carico che, il 3 giugno 1917, ebbe la sfortuna di passare vicino alla nave corsara e il cui comandante, pur messo in guardia dal suo ufficiale in seconda, non volle credere al pericolo incombente e non modificò la rotta, quando era ancora in tempo a farlo. Il racconto è di un cittadino australiano che si trovava a bordo in qualità di radiotelegrafista, Roy Alexander, e che visse poi come prigioniero gli ultimi nove mesi della crociera del Wolf, conservando – peraltro – una notevole equanimità nei confronti del nemico (R. Alexander, La crociera del corsaro «Wolf»; titolo originale dell’opera, The Cruise of the Raider «Wolf», Yale University Press, 1939, traduzione italiana di Tito Diambra, Casa Editrice E. Corticelli, Milano, 1940, pp. 36-40):
Mentre [il cameriere] mi stava esortando ad andar di sopra a dare un’occhiata a quella bella nave che c’era all’ancora, il suo cicalio fu interrotto.
Il vassoio del tè precipitò mentre io, col vantaggio di una testa sul cameriere, infilavo il breve passaggio che metteva in coperta. Gli ufficiali di macchina salivano anche loro; dal castello la guardia franca di servizio accorreva a poppa. Un idrovolante girava a basa quota intorno a noi: tanto basso che quando ci passava sopra pareva rasentasse le gallette degli alberi. Era un biplano a due posti, con le ali dipinte sotto a croci di malta nere: l’insegna germanica. Era tanto vicino che si vedeva benissimo l’osservatore dondolare fuori della carlinga una lunga bomba a forma di pera.
Accorsi sul ponte di comando:
– Non toccate il manipolatore – mi disse il capitano: – Aspettate qui un momento.
Un marinaio salì di corsa con un messaggio attaccato a un sacchetto di sabbia, che l’osservatore dell’aereo ci aveva lasciato cadere sulla prora.
– Non usate la radio. Fermate le macchine. Eseguite gli ordini dell’incrociatore o vi bombarderemo – diceva il messaggio, scritto in inglese.
L’idrovolante fece una nuova picchiata e piantò una bomba proprio di prora a noi, per dar forza all’ordine.
Il Wairuna era in una posizione disperata. Passato il promontorio, la sua rotta lo aveva portato dritto vicino alla nave sconosciuta, che adesso era a meno di un miglio. Parecchi cannoni erano puntati su di noi, e un picchetto armato già veniva a bordo.
Il nostro secondo, Rees, se ne stava a un’estremità della plancia con le braccia conserte. Non diceva «l’avevo detto, io»; ma gli si leggeva in faccia.
– Sbarazzatevi del registro segnali radio, e non toccate il manipolatore.
Questo fu l’ultimo ordine che ebbi dal capotano Saunders.
In coperta fuori del salone metà dell’equipaggio faceva ressa intorno a un oggetto che doveva essere una grossa baia (secchia): il capo cameriere aveva tirato fuori le provviste di tabacco dicendo che era meglio lo avesse la nostra gente e non i Tedeschi.
– Val quasi la pena di lasciarsi catturare – diceva udibilmente un fuochista tirandosi fuori dalla calca e avvolgendo in un cencio il tabacco e le scatole delle sigarette: – È la prima volta che una compagnia di navigazione mi dà qualche cosa per nulla.
Giù nel locale delle caldaie un ufficiale gettava dentro un focolare certe carte di bordo e codici di segnali: ci buttai anch’io il registro radio e i codici relativi. Risalito in coperta vidi quel tal cameriere, fuori della cabina della radio, infilarsi la famosa giacca bianca, ritenendo forse che quella specie di uniforme valesse a stabilire chiaramente la sua qualità presso i Tedeschi.
L’apparecchio radio era nuovo ed era una cosa troppo utile per lasciare che se ne impadronisse il picchetto armato, che già arrivava. Il ricevitore venne staccato dalla tavola mediante una chiave per dadi e gettato fuori bordo. Quasi tutte le parti del trasmettitore gli tennero dietro. Mentre io stavo ancora frugando fra i pezzi di ricambio per vedere se avevo dimenticato nulla d’importante, apparve sulla porta un ufficiale tedesco. Teneva la rivoltella spianata e aveva seco due marinai armati, ma era sorridente e garbato:
– Buona sera! – disse in tono cortese: – Le vostre carte, per favore.
Non fu molto contento quando vide che le cose importanti erano sparite. Fummo condotti nel salone e interrogati; tutto senza «ammuina» (chiasso, disordine, agitazione). Anzi il capo cameriere ci servì il tè, e l’ufficiale tedesco si compiacque di accettarne una tazza.
Il picchetto armato era numeroso, con due ufficiali. Appena messo piede in coperta andarono dritti nei punti stabiliti in precedenza – la plancia, il locale macchine e così via – e presero possesso di tutto metodicamente.
Dopo il tè (curioso, quel tè di corsari insieme coi loro prigionieri), quelli di noi che erano stati trattenuti nel salone ebbero ordine di scendere nella barca del picchetto: sempre con la massima cortesia. Trasbordarono tutti gli ufficiali di coperta e il direttore di macchina; il resto dell’equipaggio fu lasciato pel momento sul Wairuna.
Ormai il sole era tramontato; ma dalla barca, avvicinandoci, potemmo veder bene il corsaro. Era una nave solida e dall’aspetto «efficiente». Nulla adesso la distingueva da un vapore mercantile qualunque. Fumaioli e scafo neri; qua e là nelle sovrastrutture un po’ di grigio scuro. Moltissimi mercantili britannici a quel tempo erano dipinti col grigio di guerra; e questa nave era un po’ più scura; ma la differenza si apprezzava appena. I cannoni, brandeggiati adesso nella posizione longitudinale, non si vedevano più. La nave doveva stazzare un 7 mila tonnellate; il ponte di comando lungo e scoperto le dava un’aria che ricordava la nota classe dei Kashmir della Peninsulare e Orientale.
Ma la somiglianza col transatlantico cessò di colpo quando, saliti a bordo con la biscaglina (scaletta di cavo e piuoli) ci trovammo fra un lanciasiluri e un cannone da 150. La nave formicolava d’uomini; e sulla sola coperta a poppa, che era la parte visibile a noi in quel momento, c’erano due lanciasiluri e due di quei cannoni: gli uni e gli altri così ben nascosti dietro le murate di lamiera abbattibili, che anche di sotto bordo, dalla barca, non se ne vedeva nulla.
Condotti a poppa sotto il casseretto fummo perquisiti, sequestrandoci ogni lettera e fino il più piccolo pezzo di carta.
Ci fecero poi lavare con una specie di sapone antisettico, e poscia ci restituirono gli abiti e ci condussero di sotto per una piccola scala, nell’alloggio dei prigionieri, che era la stiva numero 4 a poppa estrema, nel traponti: in uno scatolone quadro di lamiera molto sudicio e ricoperto di polverino di carbone, in mezzo a una folla d’un centinaio d’uomini che ci domandavano notizie del mondo esterno; marinai di tutti i tipi, bianchi, neri, bruni e grigi. In quel calore umido molti erano quasi nudi, ma alcuni indossavano ancora uniformi della marina mercantile lacere e consunte.
Le cose che raccontavano gli uomini erano ancora più strane della loro apparenza e dell’ambiente. Tutti erano stati catturati nell’Oceano Indiano qualche mese prima, e le loro navi mandate a fondo. Alcuni erano sul Wolf da più di tre mesi.
Il corsaro era dunque il Wolf, nave da guerra ignota alle autorità navali degli Alleati. Ignota del resto anche in Germania, salvo che a pochissimi ufficiali e funzionari; e anche questi, dopo sei mesi che era partita, ignoravano se fosse ancora a galla. Incrociatore e posamine allo stesso tempo, ne aveva già seminate a Città del Capo, a Colombo e a Bombay; ma una metà del carico di mine era ancora a bordo…
Dopo aver lasciato le isole Kermadec, il Wolf depose un quinto campo di mine davanti al Capo Nord, all’estremità settentrionale della Nuova Zelanda; poi volse la prua a sud e ne depose un sesto davanti all’imboccatura occidentale dello Stretto di Cook, che separa l’isola del Nord da quella del Sud, punto di passaggio obbligato di gran parte del traffico marittimo da e per Auckalnd; infine, traversato il Mare di Tasman, ne depose un settimo di fronte alle isole Gabo, presso la costa sud-orientale dell’Australia, a metà strada circa fra Melbourne e Sydney. Questi ultimi campi di mine fecero anch’essi le loro vittime: il Cumberland, di 9.000 tonnellate, il Port Kemble di 5.000 e il Wimmera di 3.500 (quest’ultimo, affondato nel luglio del 1918, registrò purtroppo la perdita di circa trenta vite umane).
Ciò fatto, la nave corsara tornò indietro sino a Capo Farewell, all’estremità sud-occidentale della Nuova Zelanda, indi riattraversò il Mare di Tasman e si diresse al nord. Nelle vicinanze delle Nuove Ebridi catturò la nave Beluga, e nei pressi delle isole Figi la stessa sorte toccò all’Encore. Dalle Figi, il Wolf volse il timone verso le isole Salomone, ove catturò il Matunga; poi, girando attorno all’Arcipelago di Bismarck nella Nuova Guinea tedesca (occupata dalle forze australiane fin dall’inizio della guerra), costeggiò la grande isola a nord e, presso l’isola di Waigeo, di sbarazzò del Matunga, colandolo a picco. A questo punto, sgusciò fra Ceram e Halmahera (Gilolo), nelle Molucche, attraverso il Mar di Giava nelle Indie Orientali olandesi (acque neutrali, quindi, ma intensamente pattugliate dal nemico) e si spinse audacemente fino a Singapore, ove depose il suo ottavo ed ultimo campo di mine, in un punto sensibilissimo del traffico marittimo nemico; ma che non produsse vittime.
Tornato a sud, il Wolf passò tra Bali e Lombok e riattraversò l’Oceano Indiano in senso inverso, sempre facendo numerose prede lungo il suo cammino, tra le quali l’Hitachi Maru e l’Igotz Mendi, il primo presso Ceylon, il secondo fra l’isola Mauritius e il Madagascar. Ormai la meta era la Germania: doppiato il Capo Agulhas, il corsaro, dopo aver affondato il Marechal Davout, fece un’ultima tappa all’isola di Trinidad e, poi, affondò un’ultima preda – il vapore norvegese Store Brore. Nei pressi dell’Equatore effettuò l’ultimo rifornimento di carbone; indi, come all’andata, e seguendo esattamente la medesima rotta, risalì l’Atlantico senza eseguire alcun attacco, per non tradire la propria presenza.
Anche questa volta il capitano Nerger avrebbe voluto imboccare lo Stretto di Danimarca, ma non gli fu possibile a causa dei lastroni di ghiaccio galleggianti, e dovette tentare la via più pericolosa, perché più battuta dal nemico, passante a sud dell’Islanda.
Eppure, anche questa volta la fortuna fu dalla sua e riuscì a passare indenne fra le maglie del blocco britannico, rientrando sano e salvo a Kiel il 24 febbraio 1918, accolto – diversamente che alla partenza – da una folla tripudiante.
In totale, calcolando sia le navi affondate nella guerra di corsa (tredici), sia quelle affondate dopo aver urtato le mine deposte dal Wolf, il tonnellaggio alleato colato a picco si calcola nell’ordine delle 135.000 tonnellate. L’intera crociera aveva coperto un percorso di 64.000 miglia, tutte senza aver potuto contare sul benché minimo aiuto esterno. Inoltre, per non tradire la sua presenza, il Wolf non aveva mai fatto uso del radiotelegrafo; ragion per cui, in Germania, fino all’ultimo non si seppe nulla del suo destino.
Il comandante Nerger ebbe l’ordine Pour le mérite e fu promosso comandate della flottiglia dei dragamine.
Così il già citato Roy Alexander ricapitola le fasi conclusive della crociera del corsaro Wolf (Op. cit., pp. 26-30):
L’ultima parte della crociera in Atlantico somiglia ad una di quelle storie a tinte forti che raccontano i romanzi di avventure, con le stive gremite di prigionieri malati di scorbuto; le avarie grosse riportate in un tentativo di trasbordare carbone in pieno Atlantico con forte mare morto; la nave che fa acqua da ogni parte, e perde lamiere, e per poco non fa scuffia in una tempesta; e poi ricoperta di ghiaccio si apre a forza il passaggio fra i lastroni galleggianti tra la Groenlandia e l’Islanda, cercando di girare al largo dalle pattuglie del mare del Nord; e il tentativo finale – riuscito – per violare il blocco; e la sorpresa e l’entusiasmo a Kiel quando il Wolf, dato per perduto da molto tempo, all’improvviso ricompare.
Una grande nave. Una grande impresa. Un gran comandante.
E ancora (Id., p. 325):
… Karl August Nerger è, e rimarrà, uno dei più grandi uomini di mare che mai vide il mondo, uno dei figli più valorosi della Germania, l’eroe di una saga del mare la cui memoria vivrà imperitura.
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