Il contesto storico-culturale in cui si colloca il romanzo Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo (di Adriano Petta e Antonino Colavito, con prefazione di Margherita Hack, La Lepre Edizioni, Roma, 2009), che ha come protagonista la filosofa e scienziata alessandrina, è quello della fine IV secolo – inizio V secolo d.C., un momento storico di transizione epocale e di forte antagonismo fra cristianesimo (nelle sue varie componenti) e paganesimo tardo-imperiale, di impronta neoplatonica e solare.
È il momento degli editti dell’imperatore Teodosio che proibiscono i culti dei maiores, della tradizione religiosa greco-romana non solo in pubblico, ma anche nella vita privata, sanzionando duramente coloro che restano fedeli alle antiche tradizioni.
La vulgata storiografica dei libri di scuola ha per molto tempo polarizzato esclusivamente l’attenzione sulle persecuzioni subìte dai cristiani in vari momenti della storia dell’Impero, ma ha sempre taciuto – o quantomeno ha minimizzato – sulle persecuzioni che subirono successivamente i seguaci del politeismo greco-romano, in forme violente e cruente, di cui l’assassinio di Ipazia ad Alessandria d’Egitto, per mano dei monaci parabolani agli ordini del Vescovo Cirillo, è un esempio emblematico, peraltro narrato e tramandato dalle stesse fonti cristiane (Socrate Scolastico e Filostorgio, due storici della Chiesa).
Sotto questo profilo, il romanzo di Adriano Petta e Antonino Colavito ha il grande merito di recuperare alla memoria storica collettiva la coscienza dell’intolleranza, del fanatismo e dei conflitti che segnarono l’ascesa del cristianesimo quale religione di Stato nonché di ridestare il ricordo della statura culturale e umana della filosofa alessandrina.
Scritto con una prosa fluente e dalle espressioni delicate ed intimistiche, talvolta poetiche, che rendono efficacemente l’atmosfera psicologica e le sfumature emotive che segnano la vita di Ipazia e del suo cenacolo di discepoli, il romanzo mette in luce vari aspetti importanti della personalità della filosofa, a cominciare dalla dedizione totale ai suoi studi filosofici e scientifici nei termini di una vera e propria consacrazione, con un fervore ascetico-religioso che non lascia spazio alla vita privata.
Ne consegue che l’amore del discepolo Shalim per la sua maestra viene sublimato in un rapporto platonico, pur nella difficoltà, non sempre superata, di dominare il suo sentimento. Tale dedizione agli studi viene narrata dando molto risalto al profilo scientifico, agli studi di astronomia e di fisica (con frequenti richiami all’atomismo di Democrito), al cammino della Ragione come facoltà autonoma dell’uomo rispetto alla fede religiosa. Tutta la discussione – narrata dai due scrittori – fra Ipazia e il Vescovo Cirillo di Alessandria come anche la tensione dialettica che connota l’incontro fra la filosofa alessandrina ed il Vescovo Ambrogio, sono caratterizzate da questa polarità fede/ragione, rielaborata e descritta in termini fin troppo moderni ed illuministici.
Nella rielaborazione romanzesca c’è del vero, insieme ad alcune evidenti forzature che possono generare equivoci da dissipare. Dalle fonti sappiamo che Ipazia «ereditò la scuola platonica che era stata riportata in vita da Plotino e spiegava tutte le scienze filosofiche a coloro che lo desideravano?» (Socrate Scolastico) e che non riservava la conoscenza per sé e per pochi eletti, ma la offriva con liberalità a tutti coloro che volessero ascoltarla (Damascio). Le fonti pongono dunque in evidenza la statura filosofica di Ipazia (quale erede della scuola platonica) ed il suo collegamento col neoplatonismo ed il platonismo, riproposti nei termini di un insegnamento pubblico e non più elitario. In un momento storico di crisi della cultura ellenica, minacciata dalle furia devastatrice e intollerante suscitata dai stessi Vescovi cristiani, divulgare il patrimonio filosofico ellenico era l’unico modo per non farlo scomparire, per garantirne la vitalità e la continuità. Ella proponeva quindi un pensiero adatto alle condizioni ed ai tempi in cui si trovava a vivere.
Peraltro dalle fonti sappiamo pure che per Ipazia lo studio del’astronomia, della geometria e della matematica era propedeutico per la teologia, per la contemplazione dei misteri divini. L’interesse scientifico si inquadrava comunque in una visione filosofica e religiosa in cui gli astri, i rapporti numerici, le figure geometriche rimandavano al mondo platonico delle “idee” nel senso di “éidos”, di forme pure di cui i fenomeni e gli oggetti del mondo terreno sono solo proiezioni, riflessi. Il richiamo a Platone – tramite la mediazione di Plotino – consente inoltre di dissipare un equivoco terminologico e sostanziale, poiché il nous ellenico è una facoltà conoscitiva che comprende la ragione ma la supera nella capacità di intuizione delle verità profonde; si tratta dell’intelletto nella sua accezione etimologica (da intus-legere= leggere dentro, andare in profondità, che presenta affinità dice con intus-ire = andare in profondità, da cui deriva “intuizione”), ossia di un pensiero sintetico e intuitivo ben diverso da quello dialettico-analitico.
Ciò non toglie che la studiosa di Alessandria d’Egitto abbia avuto anche un acume scientifico-sperimentale che, per certi aspetti, la configura come una antesignana del metodo scientifico-sperimentale moderno; le fonti ci informano sulle interessanti scoperte compiute dalla donna sul moto degli astri, nonché le invenzioni che le si attribuiscono come un astrolabio piatto, un idroscopio e un aerometro.
I due aspetti – quello filosofico-religioso e quello scientifico – sono, in realtà, molto più affini di quanto non appaia a prima vista, giacché nei Misteri antichi – cui si richiamavano Platone e Plotino e sui quali esiste una vasta letteratura – la spiritualità era una dimensione interiore sperimentabile ed oggetto quindi di una conoscenza esperienziale e non di un mero atto di fede, tant’è che al culto pubblico si sovrapponeva il culto misterico, élitario, riservato agli iniziati, ossia a coloro che avevano la conoscenza spirituale.
L’approccio sperimentale nasce quindi come “scienza dello spirito” e viene poi esteso anche al campo dei fenomeni fisici. Ecco perché la polarità ragione/fede con la quale i due scrittori leggono la vicenda di Ipazia è una chiave di lettura equivoca, un modo per leggere il mondo antico – e quello ellenistico in particolare – coi parametri della teologia cattolica, della cultura cattolica e della scienza moderna, nella loro dialettica di fede e ragione.
Altro aspetto che il romanzo ha il merito di illuminare è la funzione di Ipazia quale promotrice del movimento culturale ellenico, aperto a persone di diversa fede religiosa – quindi anche a cristiani – ma che avevano in comune l’esigenza di salvaguardare e tenere desta la cultura ellenica nella fase del tramonto politico e culturale dell’Impero. Peraltro tale movimento era comune alle varie città dell’Impero – da Alessandria ad Atene, da Costantinopoli a Roma – e consentiva quindi di mantenere viva una koiné culturale tanto più significativa in un momento in cui era molto forte l’offensiva di un certo fanatismo cristiano, peraltro non condiviso da altri cristiani che avevano ancora vivo il senso delle loro radici nell’ellenismo.
La padronanza della filosofia platonica e la sua rielaborazione in termini divulgativi pubblici conferì ad Ipazia un tale prestigio da essere consultata spesso dai Magistrati di Alessandria per le decisioni concernenti gli affari pubblici; la donna incarnava così, in un certo senso, l’ideale platonico del filosofo alla guida della polis e ciò se da un lato accresceva il suo potere, dall’altro suscitava invidie, gelosie, ma anche la preoccupazione delle gerarchie ecclesiastiche cristiane, narrata in modo molto vivo dai due scrittori attraverso il colloquio ricostruito fra Ipazia e il Vescovo Cirillo, che le chiede di convertirsi e di ritirarsi in un monastero, dove, sotto il controllo della Chiesa, avrebbe potuto continuare i suoi studi.
Questa donna, oltre a costituire un momento di significativa rottura culturale rispetto al cristianesimo ormai egemone, era anche un motivo di sconcerto e di scandalo sul piano del costume, perché incarnava un modello ed un ruolo femminile (la donna filosofa e scienziata, insegnante di filosofia, consigliera per gli affari pubblici) del tutto dirompenti rispetto al ruolo tradizionale della donna nell’ambito domestico e materno. Peraltro, mentre il politeismo greco-romano prevedeva forme di sacerdozio femminile (si pensi, ad esempio, al culto romano di Mater Matuta o alle baccanti nel culto greco di Dioniso), il cristianesimo riduceva il ruolo religioso femminile a quello di monaca, negandone la dignità sacerdotale. Pertanto questa filosofa-scienziata, il cui pensiero sfociava nella teologia, era una figura doppiamente pericolosa per i disegni egemonici del Vescovo cristiano Cirillo; era un pericolo sul piano del costume civile (la donna intellettualmente e professionalmente emancipata) e lo era su quello religioso (Ipazia quale erede di una tradizione misterico-filosofica) e tutto ciò si intrecciava con il rilancio del patrimonio culturale “pagano” sul piano dell’insegnamento pubblico e, come tale, politicamente influente. Insomma, una miscela esplosiva che entrava fatalmente in rotta di collisione coi disegni egemonici della Chiesa di fine IV secolo.
In conclusione, la lettura di questo libro è una stimolante occasione di riflessione sulla problematicità dell’intolleranza religiosa, sul diverso e contrastante modo di concepire l’esperienza religiosa nel mondo antico ed in quello cristiano, ma anche sul diverso modo di intendere la ricerca scientifica nelle culture tradizionali e nel mondo contemporaneo. È anche un’occasione per distinguere con chiarezza l’intelletto dei neoplatonici ed il logos della filosofia greca dalla ragione degli illuministi.
* * *
Tratto da Linea del 2 febbraio 2010.
Lascia un commento