Una rivista salernitana rievoca rivolta anti-Usa e carica eversiva del “Marcuse di destra”, quasi ignorato a trent’anni dalla morte.
Ci ha pensato una rivista salernitana fuori dal coro (Margini – Letture e riletture, ed. Ar) a ricordare con un numero speciale l’inattuale attualità di Julius Evola, un filosofo dell’ultra destra ultraradicale (quella che non sa nulla di Fiuggi), il cui 30° anniversario della morte è passato, in giugno, quasi inosservato.
A 15 anni, o forse a 14, cercavo i suoi libri. Andai perfino alla libreria Rinascita (del PCI) e il commesso-compagno mi guardò esterrefatto chiedendomi: “I libri del filosofo pazzo?”. Uscii, gli telefonai: “Parlo con il professor Evola?”. La sua voce gelida: “Non sono professore” esprimeva tutto il disgusto per quella categoria d’intellettuali, cui ora, con orgoglio appartengo. Non ce la feci a chiamarlo: “Barone Evola!”, come forse avrebbe gradito. Anni dopo lo conobbi di persona; avevo un libro tedesco di Jünger e fu il miglior passaporto per essere introdotto nel suo studio, con la monumentale scrivania dove rilucevano gli obici della Prima Guerra Mondiale, mentre la governante tedesca preparava un sobrio rinfresco. Vecchi storie che non interessano più nessuno, soprattutto chi oggi paradossalmente è più vicino alla contestazione globale scatenata negli anni ’30 dal filosofo dell’Individualismo Assoluto (così Evola aveva denominato il suo sistema nella fase più squisitamente metafisica). E nel ventennio Evola con il suo pensiero intransigentemente antiprogressista e antimodernista (e anticattolico) visse appartato in solitudine. A rileggerlo oggi, impressiona la sua carica eversiva che rimanda alle frange radicali dei no-global.
Penso al giudizio evoliano sulla società statunitense, che ormai solo i no-global possono condividere: “Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo – ‘nomade dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standard onnipotenti, alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime sovietico”.
Era il 1935 in Rivolta contro il mondo moderno, il suo libro più impegnativo, che negli anni ’60 gli valse la qualifica di “Marcuse della destra”, in cui inoltre scriveva: “Noi vediamo che le forze volte a travolgere le ultime dighe [del mondo della tradizione] si centralizzano in due fuochi precisi… Ad oriente è la Russia, ad occidente è l’America”. Più no-global di così!
Ma al di là delle ideologia ciò che ancora più sottilmente unisce l’evolismo a una certa irruenza ribelle no-global è l’esperienza non consumistica della giovinezza, intesa da Evola (e penso anche dai giovani no-global) come “avere una inclinazione per l’incondizionato, è l’essere liberi e aperti, è l’essere capaci di un certo slancio o impulso per cui si ripugna al compromesso, ci si impegna a fondo, non si agisce in base a un piccolo egoismo e ad un basso interesse”.
Da qui quel “senso dell’eccesso” analogo all’etica no-global, al loro ascetismo, a quel vivere di poco, poveramente, in comunità, quel rifiuto di un’immagine femminile stereotipata, tutta cosmesi e Sephora, quella estraneità a una giovinezza biologica e ostensiva. Non parliamo poi del suo amico Jünger, autore di un saggio sugli stupefacenti quale sfida interiore per disintegrare l’io empirico alla ricerca di un nucleo profondo della persona. Certo, Evola è tante cose che i giovani del movimento no-global rifiutano radicalmente: è stato addirittura collaboratore di riviste vicine al MSI, ma è anche il visionario scrittore di Cavalcare la tigre, l’ultimo libro importante che riafferma l’estrema inesorabilità (lui direbbe: ’dorica’) del suo pensiero apocalittico, pervaso da un idealismo lontano, che oggi rimanda alla rivolta contro il mondo moderno dei no-global, di quei giovani che proprio non amano i bandana e il lifting e nemmeno i seni rifatti delle quarantenni inquiete. E oggi la politica nella nostra cultura ha proprio bisogno di queste tensioni – e di queste contaminazioni – per ritrovare il senso della comunità e della solidarietà e della pace, al di là di una mentalità superficiale carica di pregiudizi e priva di un forte amore dell’esistenza.
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Tratto da Il Mattino del 31 agosto 2004.
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