Non è facile parlare del filosofo Julius Evola. In primo luogo, perché il personaggio è di quelli scomodi: voce di una destra tanto aristocratica da rischiare consapevolmente l’impolitia, si è trovato al centro di esaltazioni e vituperi d’intensità rara per un autore. In secondo luogo, queste vicende della sua fama hanno ben poco a che fare con la sua prestazione filosofica. Gli evoliani eleggevano a bandiere la summa tradizionale di Rivolta contro il mondo moderno, accostandovi, quelli più inclini ad atteggiamenti reazionario-conservatori, gli articoli di Gli uomini e le rovine, o, i più ribelli, il “nichilismo attivo” di Cavalcare la tigre; gli antievoliani ne ricordavano, preferibilmente, la Sintesi di dottrina della razza. Gli spiriti non conformisti, alla ricerca di singolari trasgressioni protonovecentesche e di pericolosi intrecci destra-sinistra, hanno amato e “recuperato” il primissimo Evola, il pittore e poeta dada. Sull’Evola filosofo, qualche saggio, anche di buon livello, un recente marginale interesse accademico, ma tutto sommato ben poco. Una ragione oggettiva di questo silenzio è palese: in fondo, la produzione filosofica di Evola è limitata a una sola opera sistematica, divisa in due tomi, la Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto, e a saggi sparsi – spesso recensioni – in seguito variamente raccolti. Una produzione “giovanile” tutta elaborata in un arco complessivamente limitato dell’esistenza del longevo autore, da cui lo stesso Evola si distaccò, senza troppi rimpianti, come da un’epoca superata e archiviata del suo cammino intellettuale ed esistenziale. Eppure, a chi volesse ricostruire una storia dell’idealismo italiano e della sua dissoluzione, la filosofia di Evola apparirebbe un episodio non irrilevante; episodio sul quale arriva ora a richiamare l’attenzione un libro di Giovanni Damiano.
Il libro ha un titolo, La filosofia della libertà in Julius Evola (Ar, Padova, 1998, pp. 85), che suonerà piuttosto provocatorio a quanti, avendo davanti a sé l’immagine tradizionale di Evola, tutto accosterebbero al suo nome tranne che la libertà. Non si tratta, però, come è ovvio, della libertà politica dei liberali. Damiano legge la filosofia di Evola come un tentativo di risposta alla condizione moderna: il Moderno è, nella sua lettura, il luogo dello sradicamento, dell’omologazione delle differenze, di un nichilismo passivo che impedisce ogni capacità di novità, di azione libera e creatrice da parte degli uomini. Nella gabbia d’acciaio della razionalizzazione moderna, gli uomini vengono espropriati, per Damiano, di una libertà diversa e prioritaria – anzi, “abissalmente lontana” – rispetto alle libertà civili e politiche del liberalismo moderno: quella libertà “assoluta” che consiste nella sovranità piena su se stessi, nell’impadronirsi del senso vertiginoso della possibilità contro ogni idea di necessità. L’Individuo Assoluto della filosofia evoliana rappresenterebbe proprio l’icona di questa assoluta e originaria libertà, quasi a costituire l’immagine, potremmo dire, di un audace percorso di rovesciamento della sentenza di Aristotele, secondo cui l’atto è “prima” della potenza. Questo Individuo evoliano, infatti, ricercherebbe, nella lettura tentata da Damiano, la “potenza” ab-soluta, vale a dire, appunto, sciolta da ogni realizzazione. Realizzare quella libertà aurorale, provocarne il passaggio dalla potenza all’atto, imprigionerebbe quell’inizio assolutamente libero in un dato, in un prodotto, legandolo alla catena della necessità. Il passaggio dalla pura potenza all’atto nega, infatti, la libertà iniziale, in quanto la costringe ad una sola delle sue possibili realizzazioni, privandola del suo essere pura, e, quindi, assolutamente libera, potenza.
Questa stessa libertà iniziale, riflette ancora Damiano, non deve essere assunta, però, a sua volta, come certissimo fondamento, come un nuovo, certo possesso: se essa vuole davvero essere intesa come libertà assoluta, non può infatti esser costretta neppure a essere inevitabilmente, e dunque necessariamente, se stessa. La libertà stessa dell’Io, secondo Damiano, deve essere intesa come incerta, revocabile, frutto di un percorso rischioso e mai necessitato; per essere autentica libertà, infatti, questa libertà non può non accogliere in sé anche il rischio della propria stessa negazione; se essa non potesse anche non-essere, non sarebbe infatti vera possibilità pura: sarebbe solo possibilità positiva di essere, e quindi, in fondo, nascerebbe già necessitata, non potrebbe altro che essere.
La libertà assoluta della pura possibilità, quindi, contro la prigione moderna della necessità; ma una libertà intesa non come fondamento solido e inconcusso, ma come rischio, pericolo di poter sempre non essere: solo attraverso l’assunzione anche della possibilità del negativo, ci si libera dalla costrizione alla realizzazione, e quindi dalla triste catena della necessità.
E’ questo insistere sulla revocabilità della stessa libertà dell’Individuo Assoluto, sul rischio di non-essere implicito nella stessa assunzione della libertà dell’inizio, a costituire la mossa originale dell’interpretazione di Damiano. In questo modo, inserendo il negativo, la possibilità del non essere nella stessa libertà dell’Individuo Assoluto, Damiano ne relativizza la matrice idealistico-gentiliana, per permetterne piuttosto l’accostamento a quelle filosofie – specie italiane – che, incrociando Heidegger con la tradizione filosofica neoplatonica, si interrogano intorno all’impensabile inizio del pensiero stesso. Così, in modo audace e originario, Evola si trova a dialogare –e ad essere assunto come (imbarazzante?) radice nascosta – con il pensiero di Pareyson, di Vitiello, di Cacciari, etc.
Questa affascinante interpretazione pone però alcuni problemi. Innanzitutto: l’Individuo Assoluto, come letto da Damiano, sarà sì assoluto, cioè sciolto, libero, pura possibilità; ma ci sembra che non sia più un individuo. Nel senso che il discorso evoliano subisce una torsione che non sappiamo quanto sia legittima: la libertà dell’Individuo Assoluto di Evola è pur sempre una libertà dell’individuo, che l’individuo crea e pone per se stesso. In questo Evola è davvero, e ci sembra irriducibilmente, un idealista; è l’individuo che si libera, grazie alla propria forza di superare il vincolo della necessità e di diventare “sovrano” di se stesso. E’ vero, come ricorda Damiano, che questo percorso dell’Individuo Assoluto non è mai lineare e necessario, che “la libertà dell’Io non è presupposto, ma ardua, tormentata conquista”. Il punto però è che essa è pur sempre conquista dell’io: e i rischi di fallimento, sottolineati da Damiano, sono pur sempre fallimenti dell’io, che hanno radice in qualche sua contingente debolezza. L’io evoliano accoglierà sì esistenzialmente anche la possibilità dello scacco, del fallimento, come dice Damiano: ma sono scacchi che dipendono sempre da sue debolezze, da sue imperfezioni, dal non riuscire a portare a termine il suo compimento. Il discorso di Evola resta sempre realizzativo, positivo: l’io è per la libertà, e questa è la pienezza del suo essere. La possibilità del fallimento non mette in discussione che l’io vero e compiuto è quello pienamente libero, e che la libertà, vera realizzazione dell’io, è positività, è pienezza dell’essere. Il rischio del non essere è, per così dire, un pericolo che l’io corre, non una possibilità autentica –e paritaria rispetto a quella d’essere – dell’io.
La libertà di cui parla Damiano, sembra invece essere una libertà “prima” dello stesso individuo, cui l’individuo stesso è esposto, come si è esposti a qualcosa (l’Essere? Il Nulla?) di cui mai potremo impadronirci, che ci libera dalla nostra chiusura in noi, proprio aprendoci a una alterità che mai potremo esaurire. Il discorso di Damiano presuppone che il rischio del non-essere sia una possibilità a pieno titolo, non un meno da cui liberarsi per raggiungere il più della piena libertà: se però si assume questo, si deve poi di conseguenza interpretare la libertà non come la piena realizzazione dell’io ma piuttosto come quella sempre incerta compossibilità di positivo e negativo, di essere e non essere, di realizzazione in atto e pura potenza, da cui l’io emerge come una sola delle possibilità possibili, e quindi in essa sempre revocabile. Damiano sembra porci davanti, allora, a un’idea di libertà, certamente nobilissima, con radici nella teologia negativa e nella tradizione dei neoplatonici: il problema però è che essa difficilmente potrebbe essere conciliata con un discorso, come quello evoliano, che punta invece tutte le sue carte sull’autorealizzazione eroica e positiva dell’Io.
Di qui, un interrogativo più generale; Damiano ci presenta una lettura del moderno, centrata tutta sulla sua essenza nichilistica; questo nichilismo è prodotto, ci dice Damiano, dal fatto che il moderno nasce soggettivistico: se il soggetto è il centro del mondo, quest’ultimo diventa semplicemente un oggetto manipolabile, svuotandosi di ogni senso autonomo. Nutriamo qualche dubbio, però, che l’Individuo Assoluto evoliano possa davvero indicare una strada per il superamento di tale soggettivismo. Se questa libertà, come noi crediamo, invocata da Evola, è la libertà del soggetto di autoaffermarsi, il rapporto tra Evola e il moderno non andrebbe riscritto nel senso che, lungi dall’esserne un oppositore, Evola finirebbe per rappresentare piuttosto proprio uno degli esiti estremi della tradizione soggettivistica?
Carl Schmitt, in un testo fondamentale che Damiano ricorda, Romanticismo politico, ha lucidamente mostrato, come il soggettivismo romantico produca una sorta di delirio dell’Io, che, credendo che il mondo sia solo frutto della sua soggettiva attività, finisce per perdere ogni presa sulla realtà effettuale, con la conseguenza di cadere in completa balìa proprio di quella realtà che aveva creduto romanticamente di dominare. Evola riconosce l’ineffettualità dell’idealismo, ma vorrebbe rispondere con un potenziamento dell’Io, non con il suo superamento. Ma così non finisce intrappolato ancor di più nei rischi del soggettivismo? Damiano risponderebbe di no, che Evola è altro dal soggettivismo romantico.
Per dire questo, deve però trasformare la lingua di Evola, da idealistica che è, a neoplatonica, trasformando la libertà – che in Evola è libertà dell’Io – nella libertà da cui l’io emerge – e dalla quale l’io sempre potrebbe essere revocato. E questo è arduo. Più probabilmente, il discorso di radicalizzazione dell’idealismo portato avanti da Evola segna un estremo, paradossale e non proseguibile, della linea soggettivistica della modernità, piuttosto che una liberazione da essa. Che poi la filosofia di Evola appartenga pienamente allo sviluppo della modernità – almeno della sua linea che dal soggettivismo cartesiano arriva all’esaltazione romantica dell’Io – è cosa che può sorprendere solo chi ha della modernità un’idea troppo facile: di qui, la ragione illuminata, di là il mito, la tradizione, le tenebre. Le cose sono come capita spesso più complicate: e l’Individuo Assoluto ci sembra essere uno sbocco di una linea – quella soggettivistica-romantica – che del moderno è una delle possibili declinazioni, anche se, e diremmo, visti gli esiti, per fortuna – non l’unica possibile.
Da Margini. Letture e riletture. Periodico di informazione libraria e culturale della Libreria Ar, n. 23.
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