Cuore e acciaio

E se la scienza non fosse (solo) uno strumento del demonio?

Ingegneria genetica, ricerca cibernetica, energia nucleare, tecnologie informatiche, conquiste spaziali: abbiamo infranto il vaso di Pandora o strofinato la lampada di Aladino? Certo è che il futuro tante volte evocato (con fascino o timore) da scrittori visionari si sta inverando in un controverso presente. Più d’uno ha tratteggiato un paragone suggestivo: la nostra epoca sta vivendo una rivoluzione simile a quella che ci ha portato dal paleolitico al neolitico (i). Come nella rivoluzione neolitica, è la tecnica a porci di fronte ai problemi cruciali; ma, come nella rivoluzione neolitica, non sarà l’abilità dei tecnici ma la volontà storica dei “fondatori di città” (o la loro assenza) a decidere del nostro futuro.

Crisi di nervi

Martin Heidegger, Essere e tempo Il problema è: siamo pronti per questo passaggio epocale? La tecnica, diceva Heidegger, «non pensa». Ma, di certo, dà da pensare. Noi possediamo un pensiero all’altezza dei tempi? La risposta, drammatica, è: assolutamente no. Come affronta, infatti, la nostra società i grandi problemi posti dall’innovazione scientifica? Con una condanna morale dal sapore biblico o con un abbandono fideistico agli aurei meccanismi regolatori del mercato. Nume tutelare di entrambi gli schieramenti, ovviamente, il piccolo narcisismo meschino dei “diritti individuali”, al di là dei quali il pensiero dominante nulla vede e nulla comprende. In un saggio impressionante per documentazione e lucidità filosofica (ii), Stefano Vaj ha ben messo in luce il vicolo cieco in cui questo paradossale dibattito di una civiltà in preda a ripetute e preoccupanti crisi di nervi ci sta cacciando. La nostra società è colta dal panico di fronte alle biotecnologie, e non perché queste ultime siano intrinsecamente disumane, bensì perché il pensiero dominante percepisce che disumana è ogni possibile scelta praticabile al suo interno. «Disumani appaiono», spiega Vaj «gli esiti di un rifiuto della sfida politica, estetica, esistenziale cui siamo esposti, a favore di meccanismi impersonali quali il “mercato”, una “natura” ormai del tutto immaginaria, o il proibizionismo velleitario di chi, in particolare nell’estrema destra e nell’estrema sinistra, vorrebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia».

“Sapere profano”?

Ebbene, quasi a voler dar ragione a tali critiche, ecco che compaiono tradizionalisti impolverati, eternamente persi dietro ai “metafisismi arabi” (Massimo Scaligero), che vorrebbero confrontarsi con la realtà tecnologica attuale riesumando la condanna contro la libido sciendi di patristica memoria. L’intera scienza moderna – in questo “evolismo debole” – appare come sapere profano e materialistico che travestirebbe i suoi sproloqui da verità assolute ed indubitabili. Proprio un bel quadretto, perfettamente in linea con la sindrome del ghetto cui taluni sembrano essere tanto affezionati, ma disastrosa come chiave per interpretare la complessità del mondo attuale.

Ma, tanto per cominciare, è proprio vero che la scienza moderna sia così profana, materialistica, triviale, senz’anima? Forse no. Pensiamo solo ai lavori di Fritjof Capra, per il quale la fisica moderna sta delineando una nuova visione del mondo straordinariamente coincidente con le vedute della tradizione orientale (iii). E anche, aggiungiamo noi, con un’impostazione eraclitea, presocratica, pagana.

Forse l’idea guénoniana per cui le scienze moderne non sono che sopravvivenze profane di antiche discipline sapienzali va capovolta. Forse è ciò che oggi è “materialista” che domani potrà di nuovo accogliere la spiritualità. Pensieri visionari? Certamente. Visionari sono i folli e le avanguardie. Entrambi vanno quanto meno presi sul serio.

“Verità” e “Progresso”

Ma non è tutto. La stessa idea di “verità oggettiva” che con usurpazione “prometeica” la scienza avrebbe sottratto ad altre discipline più qualificate, è in realtà un concetto proprio di un’epistemologia superata, che gli stessi scienziati più accorti rifiutano.

Il “principio di indeterminazione” di Heisenberg è noto: l’osservatore influisce sempre sulla cosa osservata. La separazione radicale tra oggetto e soggetto finisce per svanire, cedendo il posto ad una visione unificante dal sapore anassimandreo. Popper, inoltre, ci ha spiegato che ogni “verità scientifica”, lungi dall’essere assoluta ed indiscutibile, è solo il frutto del confronto sempre aperto tra ipotesi e conferme sperimentali.

Il mito del progresso lineare, poi, da tempo non è più l’orizzonte inaggirabile della logica scientifica: dopo Bachelard, Polany, Kuhn e Foucault sappiamo che la storia della scienza è innanzitutto una storia di rotture e discontinuità, che esistono “paradigmi” e “rotture epistemologiche” a rendere più inquiete le sognate “magnifiche sorti e progressive”.

Qualche scoperta interessante

C’è seriamente da chiedersi, poi, se un ambiente che si vuole “anticonformista” ed avversario delle ideologie dominanti possa permettersi il lusso di ignorare importanti acquisizioni scientifiche del tutto “politicamente scorrette”.

La genetica, ad esempio, sta fornendo importanti elementi per chiarire la “sulfurea” questione dell’esistenza delle razze, e lo sta facendo con risultati poco rassicuranti per le vestali del pensiero dominante (iv). I test per i quozienti intellettivi notoriamente ci danno risultati statistici decisamente interessanti se applicati a diversi gruppi razziali. Il che – lo dico per rassicurare l’eventuale lettore “democratico e antirazzista” che casualmente stesse leggendo queste righe – non dimostra la “superiorità” di una razza sull’altra, ma solo la loro radicale diversità (v). L’etologia e l’antropologia filosofica hanno indagato il ruolo specifico dell’essere umano nel complesso del vivente per delineare, a partire da dati rigorosamente scientifici, un’antropologia in straordinaria sintonia con le vedute nietzscheane e particolarmente critica nei confronti della società attuale.

Il mito liberale dell’homo oeconomicus, poi, è stato demolito dai più recenti risultati delle scienze neurocognitive: ora sappiamo che l’idea della “scelta razionale” utilitaristicamente orientata è una balla, essendo sperimentalmente dimostrato che in varie situazioni il pensiero va contro gli interessi del soggetto (vi). Dovremmo veramente rifiutare tutto ciò per un conservatorismo pavido che, se ci pensiamo bene, non fa nemmeno parte del nostro DNA politico-culturale? Certo, le multinazionali che finanziano la ricerca sono infami. Un motivo in più per sottrarre loro un dominio così importante. E comunque, non sarà certo la denuncia apocalittica o la rimozione freudiana a cambiare le cose. Anzi, è vero il contrario.

Un nuovo inizio

Martin Heidegger, Scritti politici 1933-1966 Martin Heidegger, che pure è stato il pensatore che meglio ha analizzato il carattere totalitario della tecnica come Gestell, ovvero “imposizione” (Vattimo) o “impianto” (Volpi), ha posto in questo modo il problema: «Per me oggi è una questione decisiva stabilire come si possa far corrispondere, in generale, un sistema politico all’epoca tecnica e di quale sistema potrebbe trattarsi» (vii). Niente luddismo, niente chiusura, quindi. Non si tratta di rifiutare la tecnica, ma di essere all’altezza del suo dispiegamento totale.

Occorre, soprattutto, un pensiero: ovvero proprio ciò che manca all’attuale civiltà che pure è radicalmente tecnocratica: «Lo Stato tecnico è proprio quello che meno corrisponde al mondo e alla società determinati dall’essenza della tecnica. Lo Stato tecnico sarebbe il servo più servile e più cieco di fronte alla potenza della tecnica» (viii). Da dove potrebbe sorgere questo nuovo pensiero se non da quella miniera inesauribile che è lo spirito europeo? «La conversione del pensiero ha bisogno dell’aiuto della tradizione europea e di una nuova appropriazione di quest’ultima. Il pensiero può essere trasformato solo da quel pensiero che abbia la stessa origine e la stessa intonatura» (ix).

“Nuova appropriazione”: ovvero, un nuovo inizio che riprenda, senza copiarlo, il nostro passato autentico e lo proietti nel futuro. La mentalità europea è sempre stata “radicata e disinstallata” (x): l’identità è concepita come motore di dinamismo storico, in quanto permette ad un popolo di pro-gettarsi nel mondo senza rinnegare le sue tradizioni. È da qui che bisogna (ri)partire. Adriano Romualdi, tra gli altri e prima degli altri, aveva già compreso che l’Europa ha bisogno di uno spirito, nuovo ed arcaico allo stesso tempo, che sia in grado di padroneggiare le nuove tecniche in uno spirito tragico e non banalmente “umanistico” (xi).

La modernità eroica

Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck Del resto, un altro grande del Novecento tedesco ci aveva già indicato una via al di là del progressismo e del regressivismo: Arthur Moeller van den Bruck. Per comprendere il nuovo carattere della modernità, Moeller si rifà alla celebre coppia semantica Zivilisation/Kultur. Differentemente da Spengler, tuttavia, egli non interpreta le due categorie come due fasi storiche distinte. Per Moeller, piuttosto, Zivilisation e Kultur sono due momenti dati in piena contemporaneità.

La prima categoria esprimerebbe le realizzazioni pratiche, tecniche e materiali di un’epoca, la seconda la forza creatrice ideale e spirituale. Kultur è quindi la forza vitale che funge da centro aggregante delle istanze di per sé dispersive e scoordinate tipiche della Zivilisation. Ora, in quest’ottica appare chiaro che la civilizzazione non può essere condannata di per sé, ma solo qualora estenda le sue categorie anche all’ambito della cultura. La decadenza, quindi, non è da ricercarsi nella tecnica in sé, quanto piuttosto nell’incapacità della nostra epoca di creare una Weltanschauung in grado di farsi carico delle sfida tipicamente moderne che la tecnica pone. La cultura, in questo quadro, diviene religiosità oltre la fine della religione, centro significante nel mondo in cui Dio è morto, unica scaturigine di significato per l’uomo che non ha più certezze ultramondane. Ed a sua volta, tale religiosità si dispiega nella Comunità di Popolo, unico orizzonte di senso per il singolo. Un’idea di radicamento che, evidentemente, non può assumere tratti nostalgici o reazionari.

Va da sé che in tale contesto la tecnica non ha necessariamente quei caratteri sradicanti, “emancipatori”, globalizzanti che gli vengono attribuiti nella concezione illuministica: «L’uomo faustiano […] non si afferma sulla materia per disancorarsi dal mondo e dalle leggi della natura, ma per connettervisi in un legame più profondo e per così dire primigenio» (xii).

Di fronte al bivio

Eppure, il magma incandescente dell’immaginario tecnoscientifico, fino ad oggi, non è riuscito a svincolarsi dalla gabbia opprimente del “progetto illuminista”, se non nella letteratura. La capacità mitopoietica della scienza, in effetti, è stata indagata in tutta la sua profondità solo dalla fanta-scienza: lo vediamo negli incrociatori spaziali a propulsione nucleare di Alien (xiii); nel biondo Übermensch replicante che ha «visto cose che voi umani non potete neanche immaginare» e che è braccato dall’umanità corrotta e degenerata di Blade Runner (xiv); lo vediamo, addirittura, nei… robot dei cartoni animati giapponesi, che tanto inquietarono i censori progressisti per la “pericolosa” fascinazione eroico-tecnologica suscitata nei ragazzi («Jeeg va, cuore e acciaio…») (xv). Ovviamente, di questi tempi, è possibile che la tecnoscienza ci consegni ad un mondo meno “eroico”, all’universo alienato descritto da Orwell, Huxley, Bradbury, l’universo della brutale “normalizzazione” del singolo, schiacciato e mortificato dall’omologazione globale, dal soffocamento degli istinti e dal controllo onnipervasivo.

Ma, appunto, tale esito letteralmente infernale non è dovuto alla tecnica stessa, quanto piuttosto all’uso che la modernità illuministica e razionalistica ne vuole fare. Di fronte al bivio nietzscheano tra l’uomo che si supera (il celebre e frainteso “superuomo”) e l'”ultimo uomo”, il mondo attuale ha decisamente scelto per quest’ultimo. Si è imboccata allegramente la strada suicida dell’uscita dalla storia, quando era altrettanto praticabile la via per una rigenerazione della storia stessa. Eppure, chi ha volontà può sempre operare per riproporre quella scelta. I vecchi Dei sono fuggiti, occorre pre-disporsi per la venuta di quelli nuovi. Che, forse, torneranno su ali d’acciaio.

Adriano Scianca

Tratto da Orion 246 (Giugno 2005).

NOTE

< (i) Su tutto ciò, vedi Charles Champetier, Voici l’ère néobiotique, in Eléments n° 97, Gennaio 2000.
(ii) Stefano Vaj, La rivoluzione biopolitica, in l’Uomo Libero n° 58, settembre 2004.
(iii) Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982.
(iv) Cfr. Michael J. Bamshad e Steve E. Olson, Esistono le razze?, In Le Scienze, Gennaio 2004.
(v) In realtà il concetto di “superiorità” o “inferiorità” presuppone l’esistenza di un criterio universale di giudizio. È, quindi, un’idea concepibile solo a partire da un contesto universalista. In una visione differenzialista come quella qui presupposta, invece, sarà impossibile stabilire gerarchie “oggettive” tra popoli, razze o culture.
(vi) Cfr George Lakoff , Il sé neurocognitivo, in Pluriverso, vol. 1, num. 5, 1996.
(vii) Martin Heidegger intervistato dallo Spiegel (1966), in Martin Heidegger, Scritti politici (1933-1966), Piemme, Casale Monferrato, 1998.
(viii) Ibidem.
(ix) Ibidem.
(x) Espressione (désinstallée) che Guillaume Faye utilizza fin dai primi anni ’80 e che permane identica anche negli ultimi testi dell’autore, che pure risentono della sua inquietante involuzione “à la Samuel Huntington” (Cfr. Pourqoi nous combattons, L’Aencre, Paris 2001).
(xi) Adriano Romualdi, Sul problema di una tradizione europea, Edizioni di Via della Tradizione, Palermo 2000: «V’è nella realtà dell’età tecnica un’ignoranza di ogni altra prospettiva, ma anche uno spirito di razionalità e di padronanza che s’inquadra nel contesto d’una tradizione europea […]. V’è nella scienza e nella tecnica una aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere».
(xii) A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck, Lampi di Stampa, Milano 2004.
(xiii) Cfr. Guillaume Faye, Il Sistema per uccidere i popoli, S.E.B., Milano 1997.
(xiv) Cfr. Stefano Vaj, art. cit.
(xv) Cfr. Luciano Lanna, Filippo Rossi, Fascisti Immaginari, Vallecchi, Firenze 2003, alla voce “Goldrake”. Vedi anche la voce “Fantascienza”.

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Adriano Scianca, nato nel 1980 a Orvieto (TR), è laureato in filosofia presso l'Università La Sapienza di Roma. Si occupa di attualità culturale, dinamiche sociologiche e pensiero postmoderno in varie testate web o cartacee. Cura una rubrica settimanale sul quotidiano Il Secolo d’Italia. Ha recentemente curato presso Settimo Sigillo il libro-intervista a Stefano Vaj intitolato Dove va la biopolitica?. Scrive o ha scritto articoli per riviste come Charta Minuta, Divenire, Orion, Letteratura-Tradizione, Eurasia, Italicum, Margini, Occidentale, L'Officina. Suoi articoli sono stati tradotti in spagnolo e pubblicati su riviste come Tierra y Pueblo e Disidencias. E’ redattore della rivista web Il Fondo, diretta da Miro Renzaglia.

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