Lisbona, aprile.
I signori delle strade di Lisbona sono indiscutibilmente i tram. Sono gialli e bianchi, aperti e chiusi, lenti e veloci; recano sul davanti una specie di grembiule a rastrello, dipinto impeccabilmente di marrone, destinato a «raccogliere» i distratti. I tranvieri sono cordiali ma autoritari e fanno rispettare le disposizioni, la più importante delle quali consiste nel divieto di sostare nei passaggi. Sui predellini esterni si può anche formare un grappolo umano, nessun regolamento lo vieta: ma le corsie debbono restare vuote. I tram aperti hanno una lunga pedana laterale: è proibito sostare su questa pedana, lungo la quale il bigliettario fa sfoggio di doti di equilibrio e di agilità.
Poiché Lisbona è disposta su sette colli, molte strade sono in salita. Qualche volta, invece di una via, trovate una scalinata. E tanto erti sono i pendii che l’amministrazione cittadina ha istituito un servizio di funicolari. Per salire su queste vetture bisogna attendere il proprio turno, fissato da un numero progressivo che ognuno stacca da un blocchetto appeso al muro. Naturalmente, questa del turno, è una faccenda che si impara a proprie spese. Noi l’abbiamo saputo quando un controllore ci ha implacabilmente respinti dalla sua vettura e ci ha mandati a staccare il nostro bravo numero. Mezz’ora di tempo perduto.
Illuminazione ridotta
Quando scende la sera, le vie di Lisbona si illuminano. Però è una illuminazione di guerra, ridotta del cinquanta per cento. Si accende un faro sì e un altro no, dove sono tre su un unico lampione, invece, uno si accende e gli altri due riposano. Le insegne luminose rimangono spente. La città assume un aspetto triste, appena rallegrato qua e là dai fiotti di luce incandescente che escono dai caffè e dagli atrii dei cinematografi. A notte fonda, quando chiudono i locali pubblici, le chiazze luminose dei fanali, in mezzo alle tenebre fitte, danno uno strano senso di desolazione e di melanconia.
Di sera, le vetrine più illuminate sono quelle dei salumieri. Veramente dire salumieri — o anche pizzicagnoli — è improprio perchè i negozi che intendiamo indicare vendono, è vero, prosciutti e formaggi, frutta secca e sottaceti; ma anche liquori e dolci, cioccolatta e frutta fresca. Qualche volta anche i giornali e sigarette. Si farebbe forse più presto a dire quello che non vendono. Dunque, le vetrine di questi bazar sono le più illuminate in tutta Lisbona. Sono bianche, ordinate, pulite. Tutta la città è molto pulita, grazie agli spazzini e al vento (all’ultimo momento imparo che questi «bazar» / idillio hanno un nome: si chiamano «laiterias»).
Parallela al Rossio, corre Rua dos Corrceiros. La chiameremmo «via degli ananassi» per le lunghe file di questi frutti tropicali, disposti a mo’ di baldacchino davanti ai negozi. Tutto un lato della strada è una lunga, ondeggiante siepe di ananassi. Costano poco, da sette a dieci lire l’uno, salvo qualche esemplare di proporzioni colossali. Questa strada è una delle quattro che racchiudono il mercato di Lisbona e che costituiscono quanto di più pittoresco ci sia stato dato di vedere da queste parti. Negozi piccoli, pieni di mercanzie, che, nelle ore diurne, si distendono sui muri, sulle finestre, sulle insegne per fare bella mostra di sè. Stoffe dai colori vivaci, scope, pentole, vestiti usati, scarpe, panieri. Le strade sono strette e i tram ammucchiano la gente agli ingressi dei negozi. Le uniche botteghe che non espongono la loro merce tutto il santo giorno sono le macellerie. In compenso fanno crocchio sulle soglie i macellai e i loro garzoni, coi grandi grembiuli bianchi macchiati di sangue. Particolare curioso, le macellerie sono tutte in fila, una accanto all’altra. Anche i fruttivendoli del resto. Mica si fanno concorrenza, però. Hanno stretto fra loro un preciso accordo, un gentlemen’s agreement. Con le inevitabili storie che ne conseguono.
Vita dura dei ristoranti
La nota che predomino il grande atrio dei mercato è l’odore del pesce; ed anche il viscido umidore che trionfa nelle pescherie. L’insieme ricorda, in piccolo, le Halles di Parigi. La gente fa molto baccano. Pare sia un modo di vivere. Giorni or sono un quotidiano vantava Lisbona come «la città più rumorosa del mondo». Uno straniero che capiti a Lisbona non ha molte occasioni per visitare i ristoranti, perchè negli alberghi della capitale portoghese «la pensione è obbligatoria». Ve lo dicono cartellini in tutte le lingue. Il perchè di questa curiosa moda — diciamo « curiosa » perchè non l’abbiamo notata in nessuna città d’Europa — nessuno me lo ha sapulo spiegare. E’ una questione che presenta dei vantaggi economici (per gli albergatori), ma anche degli svantaggi dello stesso genere (per il Paese). Qui, se mangiate male, non basta cambiare ristorante, bisogna anche fare le valige. E’ una faccenda deplorevole.
Chi ci va di mezzo sono i ristoranti — assai poco numerosi —, che hanno una clientela piuttosto scarsa. In compenso il cliente ci si trova bene. Altrettanto sobrio è il popolo, quanto buongustaio è il borghese. Un pasto portoghese è molto complicato, arriva a sei portate. Se uno non ce la fa a mangiare tutto, rischia di vedere camerieri e proprietari del locale dichiararsi offesi.
I portoghesi non sanno cosa sia la minestra. Vi servono dei brodini e delle creme di legumi. Quanto alle portate, esse sono estremamente complicate, con molti ingredienti e molte cose — verdure, carni o pesci — differenti. Nella lista abbiamo notato un particolare curioso: nel testo scritto in francese (puliamo della lista del nostro albergo) voi potete leggere la descrizione di quello che vi serviranno, mentre nel testo portoghese ciò avviene raramente. Per esempio che vi servano una torta di cioccolatta o di frutta, un gelato o una pasta, della marmellata, voi sulla lista leggerete sempre la stessa definizione dòce, dolce.
Le porzioni non sono precisamente gigantesche. Mi dicono che prima lo fossero. Ora la guerra ha imposto delle restrizioni. Ma la cucina è buona. Tutti i giornali, di questi tempi, battono quotidianamente sullo stesso tasto: la disorganizzazione alimentare. Protestano, reclamano l’intervento della polizia, per spiegare come mai dei generi piuttosto abbondanti in Portogallo scompaiano ogni tanto dal mercato; incitano a moltiplicare le risaie; protestano perché certi generi di prima necessità si debbano trovare al «mercado negro» a prezzi maggiorati. Questa espressione «mercato nero» è stata usata dalla stampa per la prima volta, in questi giorni, naturalmente per quanto concerne il Portogallo. Di borsa e di mercato neri se ne è parlato sin troppo, specialmente nei notiziari dalla Gran Bretagna.
Non razionamento ma…
In Portogallo, come abbiamo detto, non esistono tessere di razionamento. Tuttavia, di fatto, una specie di «razionamento automatico» è in corso. Il servizio annonario cittadino suddivide quotidianamente le derrate a sua disposizione fra i varii quartieri della capitale. A loro volta i negozi ricevono delle precise quantità che debbono distribuire ai loro clienti. Una grida di polizia, pubblicata proprio in questi giorni dalla stampa, fa obbligo ai bottegai di conservare almeno il 25 per cento dei generi ricevuto «per la clientela occasionale». Ne viene di conseguenza che si verificano disparità, delle quali si giovano quelli che hanno denaro o domestici che possano andare a zonzo per la città. E’ specialmente contro questo stato di cose, che protestano i giornali. E non solamente i giornali, se una signora che ci aveva invitati a pranzo credette bene di scusarsi perchè non c’era la carne. «Ormai più di un paio di volte alla settimana non mi è possibile averla! — ha detto. — Me l’avevano promessa per oggi… Scuserete! ». Naturalmente abbiamo scusato, anche perchè il nostro stomaco si è disciplinato alle esigenze di guerra e non ammette sovracarichi.
Per la strada, ragazzini scarmigliati vendono urlando giornali. E’ il primo passo verso il lavoro. Un pacco di giornali pesa poco e i ragazzini hanno fiato da vendere. Più tardi, quando sono un po’ più grandi, comprano una cassetta, qualche spazzola e qualche scatola di lucido diventano lustrascarpe. Non tutti però sanno fare questo progresso, perchè abbiamo visto venditori di giornali di tutte le età, persino coi capelli bianchi. Questi ultimi sono i più simpatici: non urlano e non ti si infilano fra le gambe, quando, addirittura, non ti piantano la testa nello stomaco, scagliati come sono, col loro pacco di giornali freschi di stampa, a tutta velocita verso il loro «angolo di operazioni». Le ragazzine, invece, vendono fiori. Violette, primule, fiori di campo sono i prodotti della stagione. Sembrano zingarelle. Spettinate, nere un po’ sudicette e magari sbrindellate. Per ora, però. Più tardi compreranno un ombrellone a righe bianche e marrone, indosseranno una divisa azzurina, si laveranno e si pettineranno e potranno tenere un chiosco di fiori nell’angolo meridionale del Rossio, dove batte quasi sempre il sole.
E poi, chissà! Un ragazzo intraprendente può sempre aprire un «salono» e… (non seguiamo i sogni!). Una ragazza, certo, può anche possedere, un giorno, un bel negozio fioraia. Oppure un marito (è più facile).
Questi sono i programmi. Che non impediscono però a qualche ragazzino intraprendente, la sera, con l’aiuto delle tenebre che lo proteggono dalla polizia, di improvvisarsi eloquente mendicante. Per affrettare la sua carriera, ben inteso.
* * *
Tratto da La Stampa del 23 aprile 1943.
Lascia un commento