Simone Weil, una santa eretica

“L’imperativo categorico in gonnella”, “santa patrona di tutti gli estranei”, Antigone, vale a dire Simone Weil: l’eretica – o, come scrive Albert Camus, “l’unico grande spirito del nostro tempo”. Qui vorremmo presentare una piccola parte del suo sovversivo pensiero che ancora barbaglia, ancora di più, sempre di più. Ma gli argomenti sviscerati da Weil sono tanti – soprattutto se si tratta di una filosofa che, come osserva Robert Zaretsky nel recente The Subversive Simone Weil: A Life in Five Ideas, seppe essere contemporaneamente un’anarchica con ideali conservatori, una pacifista che pratica la guerra, una santa cattolica senza battesimo, una mistica sindacalista, la più ostinata degli individui e la sostenitrice della estinzione del sé. Di una così, così apparentemente contradditoria, in un articolo non potremmo certo dire tutto – né tanto. Ci limiteremo perciò alla esegesi weiliana del totalitarismo – non prima di riportare qualche dato della vita di Simone che, come notava Susan Sontag nel 1963, ha cercato con insistenza, fino a morirne, di “diventare stranamente identica alle sue idee”. E anche laddove non si fosse totalmente d’accordo con queste idee, una cosa resterebbe comunque certa: leggere Simone Weil, magari quando verso sera la necessità si scioglie nella grazia numinosa della natura, è una esperienza quasi mistica, che, a dispetto dei contrasti, non può lasciare indifferenti – come se la giovane martire delle parole fosse lì, vergine e immensamente rossa, con gli stessi grandi occhi neri fissi su di noi.

Simone nasce nel 1909 a Parigi in un’agiata famiglia di origini ebraiche. I suoi genitori non sono religiosi e sia lei che il fratello maggiore André non avranno contezza di essere ebrei se non durante l’adolescenza. La piccola Simone ha paura dei germi, non sopporta di essere toccata, è estremamente goffa, scrive più lentamente dei suoi coetanei, soffre di varie fobie, ha l’emicrania, è miope, forse anoressica; è magrissima, porta grandi occhiali, nasconde le sue abbozzate forme femminili in larghi abiti maschili, si prodiga in compiti fisici a lei poco adatti, talvolta firma le lettere dedicate alla famiglia così: “tuo figlio, Simon”. Non ama essere un oggetto del desiderio, si concia in modo bizzarro, non proprio erotico, rinuncia all’amore molto presto. Durante il breve periodo prebellico Simone si laurea all’École Normale Supérieure e nello stesso anno insegna Filosofia a Le Puy. Vorrebbe vivere in un tugurio come gli operai, ma la madre le trova un appartamento. È una insegnante originale, sembra più giovane della sua età, instaura un rapporto con le sue allieve, odia il nozionismo e le categorizzazioni, non ha paura di esprimere le sue idee politiche. Marcia nel frattempo con i lavoratori, li conosce e, suscitando scandalo, frequenta le loro organizzazioni, frequenta i posti della miseria, gli emarginati. Nel 1932 si reca in Germania – le sue impressioni confluiranno nel testo Sulla Germania totalitaria. Scrive inoltre una serie di articoli in cui prende le distanze dalla Terza Internazionale e dallo stalinismo; Weil accusa la sinistra tedesca di non essersi unita contro Hitler e rinfaccia a Stalin di aver ostacolato l’alleanza delle forze antagoniste per evitare che, una volta vinta la rivoluzione, in Germania si andasse – diversamente da quanto accaduto in Russia – nella direzione dell’autentica emancipazione operaia. Nel 1933 ospita nella sua casa di Parigi Lev Trockij che tempo prima aveva reagito criticamente ai suoi articoli. Le cronache raccontano dell’acceso scontro tra i due. Nel 1934 Simone prende un periodo di aspettativa per redigere l’illuminante saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Tuttavia la giovane non è a suo agio nella torre d’avorio delle idee, vuole che queste siano vita, e trova lavoro presso le industrie Alsthom. È però debole, manca di destrezza, spesso si infortuna, non sa stare al passo con gli altri operai, si scontra coi capisquadra. A causa delle condizioni di lavoro si ammala finendo in una casa di cura in Svizzera. Non si fa però abbattere e poco dopo è assunta in uno stabilimento di Carnaud che produce maschere antigas; nondimeno, trascorse alcune settimane, è licenziata. Arriva così la dura esperienza presso la Renault da dove, allo stesso modo, verrà presto cacciata. Nel mentre il Führer viola gli accordi internazionali, le potenze democratiche non intervengono, le nubi si addensano. Stalin inaugura un nuovo corso aprendo ai socialdemocratici, in Francia vince il Fronte popolare di Léon Blum. Nel 1936 scoppia in Spagna la guerra civile e Weil attraversa il confine per unirsi a un gruppo di volontari internazionali di tendenza anarchica. Visto che è miope, i suoi commilitoni non vogliono darle un’arma, ma, alla fine, a causa della sua insistenza, gliene affidano una. Dopo aver partecipato a qualche attività militare, la giovane mette i piedi in una vasca di olio bollente riportando terribili ustioni. I genitori, accorsi per accudirla, la convincono a ritornare in Francia. Weil è delusa dalla esperienza spagnola sia perché assiste in prima persona a una serie di ingiustificabili violenze, sia perché una guerra a suo avviso sorta per difendere i contadini dai proprietari terrieri stava rischiando di diventare un conflitto tra nazioni. È in questo scorcio temporale che Simone si avvicina al cattolicesimo esperendo misticamente la presenza di Dio – una prima volta nel 1936 durante una processione cattolica in Portogallo, poi ad Assisi nel 1937 e infine, nel 1938, presso l’abazia di Solesmes. Pur sentendosi definitivamente rapita da Cristo, della Chiesa cattolica non condivide il dogmatismo e l’intolleranza. Scriverà che per la Chiesa, se fosse stato necessario, sarebbe morta, ma che allo stesso tempo non ci sarebbe mai entrata. Nel mentre – siamo nel 1940 – Hitler invade la Francia, la famiglia Weil fugge da Parigi finendo a Marsiglia. Qui la ragazza lavora come bracciante abitando per scelta in una casa abbandonata, semidistrutta e infestata dai topi. Visita ancora i diseredati, i poveri, impara il sanscrito, studia le Upaniṣad, la Bhagavadgītā, pubblica l’illuminante saggio L’Iliade o il poema della forza e racconta la sua conversione in una serie di scritti successivamente raccolti in L’Attesa di Dio dal frate domenicano Joseph-Marie Perrin. Da Marsiglia fugge con la famiglia verso gli Stati Uniti dove però resta poco giacché decide di riattraversare l’Oceano per unirsi alla “Francia libera” di De Gaulle. A Londra cerca di convincere il generale della necessità di creare un corpo di infermiere da inviare sui campi di battaglia. Desidererebbe anche lei recarvisi o come infermiera o in missione per il governo. De Gaulle la giudica folle – allo stesso tempo, però, è incaricata di elaborare delle analisi sulla situazione politica dell’Europa, inserite poi nel saggio L’enracinement. Nel 1943 scopre di avere la tubercolosi, è ricoverata, evita di confessarlo ai genitori ai quali racconta via lettera la grazia dei ciliegi in fiore; mangia pochissimo, invidia la crocifissione di Cristo, è presa da un’ascetica volontà di autodistruzione. Si lascia morire così, senza il conforto dei suoi cari, a soli trentaquattro anni.

In Riflessioni sulle origini dell’Hitlerismo – testo vergato nel 1939 e contenuto in Sulle origini del totalitarismo – Weil contesta l’idea secondo la quale il totalitarismo sia un prodotto del nazismo distinguendosi dalla maggior parte degli esegeti che – avversandolo o in qualche caso esaltandolo – ne fanno il marchio della destra radicale europea. Per Weil il totalitarismo sorge quando lo Stato si impone quale “unica fonte di autorità” ed “esclusivo oggetto di abnegazione”. Non c’è dunque bisogno di arrivare al ‘900 per scorgere i segni dello Stato totalitario che, infatti, sarebbe stato edificato per la prima volta a Roma per riapparire nella sua forma moderna con Richelieu, essere perfezionato da Luigi XIV, dal Direttorio durante la Rivoluzione e infine da Napoleone. Il modello dello Stato accentratore sarebbe poi stato ricostruito in Unione Sovietica dai bolscevichi e in Germania dal nazionalsocialismo. Pertanto, se per Hannah Arendt il totalitarismo sarebbe intrinsecamente legato alla massificazione e al connesso individualismo appalesatisi pienamente nel Ventesimo secolo e se per Ernst Nolte esso sarebbe stato edificato in Unione Sovietica e solo dopo, simmetricamente e per reazione, nella Germania nazista, per Weil la sua genesi si collocherebbe invece in un orizzonte storico e politico di molti secoli prima. Non a caso l’odio degli europei per il Führer sarebbe stato assai simile all’odio provato nei secoli precedenti per Luigi XIV. Da un lato la studiosa ritiene che la storia sia mutevole e che dunque non esista alcuna archetipa “nazione eterna”; dall’altro tale mito sarebbe stato funzionale alla ideologia e alla collegata propaganda. E la propaganda, ricorda Zaretsky citando Weil, è la capacità dei media – vecchi o nuovi – di farci mangiare insieme alla cena “una serie di opinioni già pronte e, per lo stesso motivo, assurde”; la propaganda – sempre e indipendentemente dal tipo di regime – sventra il linguaggio conducendo il popolo all’“accattonaggio del pensiero”. Hitler – questo è il punto – avrebbe però direttamente ripreso il modello dello Stato totalitario dall’antica Roma e, scrive la studiosa, i nazionalsocialisti, a dispetto della loro immaginazione, non sarebbero simili agli antichi Germani e ai tolleranti druidi quanto proprio ai rudi Romani. Di questi infatti avrebbero esumato barbarie, perfidia, senso della provocazione, astuzia, gusto del tradimento della parola data e la stessa idea di missione imperiale. Queste sarebbero state le qualità negative dei Romani – alle quali la filosofa dedica pagine di fuoco suffragate da vari esempi tratti dalle fonti greche e latine.

Malgrado nelle sue analisi politiche mutui da Machiavelli un certo gusto per il realismo, Weil crede nel bene che trascende la storia e pensa che l’uomo abbia la capacità di carpire, in ogni tempo, siffatto bene. Anche in questo senso l’autrice appare se non eretica molto originale e scrive che gli obblighi morali hanno una valenza metafisica superiore ai diritti che invece sarebbero sempre figli della situazione. Queste idee conducono a un risultato che sembra paradossalmente rievocare, quasi ribaltandola, la morale socratica secondo cui chi fa il male è perché non conosce il bene. In questo caso infatti, se è vero che l’uomo può conoscere il bene, è anche vero che può agire consapevolmente per il male. Pertanto i Romani e i nazisti avrebbero avuto ben presente cosa fosse il bene – in sostanza il contrario esatto dei valori elencati prima – e avrebbero consapevolmente scelto il male. Epperò è proprio questo ragionamento che conduce a violare un altro tabù: i giochi dei gladiatori e le sofferenze inflitte agli schiavi sotto Roma avrebbero distrutto “la virtù dell’umanità” allo stesso modo – non di meno! – di quanto accadrà con Hitler. L’uomo avrebbe patito l’arbitrio del potere su di sé a Roma come a Berlino. Perciò i valori che rigettiamo di Hitler sono gli stessi rigettati dagli schiavi di Roma – e gli stessi che ogni uomo non ipocrita dovrebbe sempre rifiutare e combattere. Lo stesso razzismo non sarebbe altro che nazionalismo tendente all’imperialismo, ossia ideologia imperniata sul mito della nazione che per sua natura – in quanto considerata “eterna” – avrebbe il diritto di espandersi a livello europeo, se non planetario. Roma come la Germania nazista avrebbe annientato le culture dei popoli sottomessi e avrebbe cercato di cancellare le tradizioni del Mediterraneo nonché, innanzitutto, la civiltà greca. E se il cristianesimo – la religione degli schiavi – avrebbe potuto contrastare l’influenza della violenta cultura romana, Roma, al contrario dell’esegesi nietzscheana, avrebbe accolto il cristianesimo non prima di averlo contaminato, reso funzionale alla propria volontà di potenza: il cristianesimo, che pure in sé proporrebbe valori umani, non avrebbe affatto corrotto l’Impero romano – piuttosto sarebbe stato utilizzato dall’Impero per consolidare la sua politica colonialista. D’altronde l’ebrea Weil non ha paura di affermare che gli ideali dell’Antico Testamento, ripresi poi dal cristianesimo istituzionalizzato, esaltino spesso la crudeltà, lo sradicamento che frantuma ogni legame comunitario, la brama di dominio, il disprezzo per i nemici vinti, il razzismo e che quindi Roma, su questa base, non avrebbe fatto tanta fatica a piegare lo stesso cristianesimo alla concezione del mondo romana. Ecco perché George Steiner – del quale non condividiamo né i toni né l’intento accusatorio – considera Weil “uno dei più brutti casi di cecità e intolleranza nella tormentata storia dell’odio di sé degli ebrei” ed ecco perché Toril Moi, in un recente articolo per il London Review of books, può asserire che la filosofa “aveva un odio quasi viscerale per la cultura “ebraica” e romana, pari in intensità solo alla sua profonda venerazione per l’antica cultura greca e il cattolicesimo”. Se nell’età moderna ci si sarebbe richiamati nuovamente alla cultura greca, ciò sarebbe stato fatto senza rinunciare al culto della forza, a tal punto che gli stessi valori dell’umanesimo avrebbero alla fine favorito la guerra economica e militare. Di conseguenza, alla stregua di Arendt, secondo Weil l’uomo moderno è succube delle astratte, “trascendenti”, fittizie, anonime dinamiche statali. In questo senso, condividendo le posizioni di molti autori antimoderni, per la filosofa francese l’uomo contemporaneo, avendo perso la capacità di sintetizzare pensiero e azione, non sarebbe affatto libero. Contro il retaggio idealistico hegeliano le strutture burocratiche dello Stato non consentirebbero di fare della libertà qualcosa di concreto, di veramente “etico” – non lo consentirebbero non solo ai tempi della Germania hitleriana ma ancora oggi. Infatti, se non si individua un nesso tra il pensare e l’agire, si è condannati fatalmente alla schiavitù – sia che tale nesso si perda a causa della politica e dello Stato accentratore sia che si perda a causa delle connesse dinamiche economiche e monetarie o a causa della scienza sempre più inaccessibile, indifferente, sovraumana, antiumana. Nelle industrie, marxianamente, si vive veramente l’alienazione e il lavoro – insieme alla produzione illimitata, alle merci, ai bisogni artificiali – diventa feticisticamente il fine della vita. L’uomo, viceversa, è condannato a essere mezzo, ingranaggio, merce, cosa, cadavere. Il lavoro industriale gli impedisce di pensare, gli toglie ciò che lo rende propriamente umano, lo priva della personalità, relegandolo, chioserebbe Heidegger, a cosa tra cose. Allo stesso modo e paradossalmente in una società in cui – per dirla con Ernst Jünger – domina incontrastata la forma del lavoro, la disoccupazione è il livello estremo dello sradicamento che ancora una volta favorisce l’impossibilità di fare della propria esistenza il proprio pro-getto. Se la conoscenza e l’azione non sono in sintonia, se l’uomo non è in grado di capire passo dopo passo ciò che nel suo lavoro e nella società è portato a compiere, se le dinamiche sociali lo rendono cieco e lui non sa che senso possano assumere le proprie azioni, allora si può parlare di totalitarismo; infatti, se la persona è succube di narrazioni e valori che vengono imposti come indiscutibili e assoluti, se non può capire, allora non potrà mai esserci spazio per la libertà. E se non si è liberi, si è ineluttabilmente schiavi; e se si è schiavi, una collettività astratta che comprende dominatori e dominati decide per noi. Quando ciò accade il totalitarismo si è pienamente appalesato – e non c’è bisogno di tirare in mezzo Hitler.

Questo è lo scandaloso – quantomai attuale – concetto difeso da Weil. Il totalitarismo è certamente figlio non solo dell’accentramento del potere ma in modo più profondo della incapacità umana di pensare dalla quale deriva anche la degenerazione del lavoro in oppressione. Di per sé, invece, il lavoro dovrebbe essere a misura d’uomo e “illuminato dalla poesia”, dovrebbe essere una spontanea forma di conoscenza, dovrebbe andare di pari passo con la precisa cognizione delle condizioni materiali all’interno delle quali la fatica fisica e i rapporti di produzione si radicano, dovrebbe essere una possibilità di crescita interiore, una forma di virtù. Ecco perché la filosofa esalta le piccole comunità, il lavoro artigianale e quello contadino dove la sincera condivisone e l’amicizia, lungi dall’essere impedite dallo sforzo fisico, ne sono esaltate. Nondimeno Weil, un po’ alla maniera di Kant, ritiene che la libertà non debba essere concepita come qualcosa che necessariamente si realizzerà – in questo senso lo stesso mito della rivoluzione è “oppio dei popoli”, attesa che fomenta l’oppressione. La libertà è invece un ideale al quale ci si può lentamente accostare ricostruendo, come per Arendt, il legame tra il pensiero e l’azione, elaborando un preciso metodo di ricerca ed essendo coscienti che una parte di oppressione è sempre implicita in ogni tipo di organizzazione. Partendo da questi presupposti è facile arrivare a rigettare non solo l’industrialismo, il tecnicismo e il determinismo del marxismo, ma è anche agevole attaccare lo stesso Stalin nonché i capi bolscevichi accusati di non aver mai messo piede in una fabbrica e di aver edificato uno Stato totalitario. D’altronde per Weil lo stesso Marx avrebbe sbagliato a ritenere che l’eliminazione della proprietà privata avrebbe di per sé condotto alla emancipazione dell’uomo e al superamento della alienazione. Infatti, tolta la proprietà, resta viva – forse più che mai – la produzione che nel mondo industrializzato è intesa sempre in senso infinito e che ingenera, come accade nel simmetrico modello capitalista, lo sradicamento, la deiezione, l’annientamento dell’uomo. In Russia come in Germania il partito avrebbe costruito uno Stato fittizio sulla base di alcune “sacre” parole d’ordine come “Rivoluzione” col solo intento di fomentare il potere assoluto di pochi, pochissimi su molti.

Le tesi di Weil assumono venature anarchiche e per certi versi rousseauiane quando la filosofa osserva come l’uomo, emancipandosi dalla necessità naturale, costruisca un sistema che lo incatena ancora di più. In altri termini, se l’uomo delle origini era schiavo della natura, l’uomo moderno, facendo della natura un oggetto di dominio, diventa schiavo della società e di una forza impersonale che si impone come natura, con la stessa implacabile necessità; così molti uomini diventano schiavi di pochi uomini che, a loro volta, non avendo alcun diretto contatto con le cose e non potendo limitare la necessità dei meccanismi che dovrebbero gestire, sono essi stessi succubi del sistema che hanno l’illusione di dominare. Come per l’autore di Emilio la civilizzazione non ha affatto reso l’uomo più libero e il progresso materiale non ha promosso una autentica emancipazione spirituale.

Per Georges Bataille Simone Weil sembrava aver contratto un patto con la morte. E chissà se è un caso che questa rediviva gallica pulzella sia trapassata così, in solidarietà con tutti i reietti, così integralmente attenta al proprio prossimo, così comprensiva, coerente, disciplinata, amante della Verità, un po’ folle, appunto come Giovanna D’Arco. Sofferente, risorgente – come Gesù.

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(Il presente articolo è stato pubblicato originariamente per L’Intellettuale Dissidente. Compare qui in forma leggermente diversa).

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