L’attualismo: un pensiero sublime

Massimo Donà a confronto con Giovanni Gentile

Giovanni Gentile è stato un pensatore cruciale del Novecento. La rimozione del suo nome e, soprattutto, della sua filosofia, dal dibattito contemporaneo, rendono evidente la povertà teoretica contemporanea. Eppure, a guardar bene, tale rimozione, è stata determinata più da ragioni storico-politiche (la fedeltà del filosofo al fascismo), che non dalle sue posizioni teoriche. In un’epoca come l’attuale, pertanto, nella quale il cleavage politico non passa più dalla contrapposizione destra/sinistra, né tantomeno dovrebbe passare da quella antifascismo/anticomunismo, c’è da augurarsi che si torni a parlare di attualismo.

Perché ciò accada è necessario incontrare il gentilianesimo nella sua valenza di proposta teoretica. Questa è la via di approccio tentata, tra i pochi, da Massimo Donà in Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile, da poco comparso nei cataloghi della inSchibboleth edizioni (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 183, euro 22,00). Per entrare nelle vive cose dell’esegesi di Donà è bene muovere da questo assunto di ascendenza spaventiana: il pensiero non si estingue mai in un altro, ma in sé medesimo. Ciò comporta, nella prospettiva attualista, che lo stesso essere venga ridotto al pensare. Pertanto, per il filosofo di Castelvetrano: «originaria è l’identità» (p. 110). Tale tesi porta con sé che la parte sia il tutto, come nelle intenzioni dello stesso Hegel. Quest’ultimo intendeva, però, provare l’identità, mentre la grandezza dell’attualismo va colta nel fatto che: «se ogni pensato designa e genera il relativizzarsi dell’assoluto pensare, questa assolutezza dovrà comunque potersi rinvenire in ognuna delle sue specifiche relativizzazioni» (p. 111). Ne consegue che, solo a partire dall’identità, tutto si spiega.

La filosofia, del resto, è sorta quale tentativo di rammemorazione dell’identità originaria, esperita come presente in ogni realtà finita, in ogni presenza determinata. Gentile è tra i pochi a sapere, secondo Donà, che il limite costituito dall’astrattezza naturale, del pensato connesso alla fissità del vero, è necessariamente posto dal pensiero stesso: «come alterità reale rispetto a sé» (p. 122). Per reale deve intendersi, in un pensiero infinitamente potente, l’impotenza del dato, del naturale, in cui poter riconoscere la forma rovesciata, negata, della dinamicità originaria. Insomma, l’uno non è la molteplicità, ma non è altro dalla medesima. In tale contesto teorico, il pensatore attualista porta ad estrema coerenza il tentativo hegeliano di includere nella dialettica la contraddizione, già esclusa dalla prospettiva aristotelica. Il tedesco avrebbe maturato un’: «intuizione vaga del divenire» (p. 119), perché non sarebbe riuscito a pensarlo dialetticamente, in quanto sarebbe passato ad una riflessione esterna, ad un giudizio, centrato sull’identità di essere e di nulla. Hegel, in una parola, suppose il superamento della differenza, ma non lo realizzò.

Alla luce di tale posizione, come si evince dal primo saggio del libro, è da interpretarsi la critica di Gentile a Croce, in merito alla distinzione, posta dal filosofo liberale, tra ‘pensiero’ ed ‘espressione’. Per il gentilianesimo: «l’atto del pensare è un che di originariamente esprimentesi […] Come a dire che il contenuto è sempre contenuto di un’espressione e l’espressione indica sempre l’esprimesi di un determinato contenuto» (pp. 18-19). Forma e contenuto dicono diversamente quel che diverso non è, nel darsi dell’una si dà sempre anche l’altra. Ogni positivo: «altro non dice se non quel che il passato e il futuro, propriamente, negano» (p. 23). L’identità della presenza è ab origine irrequieta, testimoniando sempre il proprio non esser più e il proprio non essere ancora. Del resto, dalle pagine di Donà emerge la prossimità di Gentile a Nietzsche, pensata, però, in maniera divergente da quella istituita tra i due da Emanuele Severino. Una prossimità in positivo, rilevabile nel fatto che la vita dello spirito, per il siciliano, si realizza nell’impulso diveniente dell’Io mirato a negare il non-Io, negazione di un contenuto determinato che è il suo divenire altro. L’Eros conoscitivo dell’Io ama solo se stesso: l’unità originaria si mantiene una, pur tra gli oggetti concreti in cui si risolve il suo procedere.

In Gentile risulta centrale la dimensione estetica,  del fare, come si evince dal bellissimo secondo scritto di Donà.  Il logos attualista è espressione di un sentimento originario per cui: «logo astratto e logo concreto sono davvero la stessa cosa» (p. 31). Nel mondo in cui viviamo non ci sentiamo mai al sicuro e rimettiamo sempre di nuovo in moto il nostro inestinguibile bisogno di conoscenza, che ci consente di rinvenire l’Io nel dato, nella cosalità del reale. Solo l’arte ci offre qualcosa di diverso. In essa facciamo esperienza dell’infinitudine non più ostativa, ostacolante, ma esaltante e rasserenante. Essa è riconducibile ad un’unità che: «dei diversi, sembra in grado di mostrare l’originaria identità…senza fare di quest’ultima, qualcosa che starebbe all’origine del differenziarsi come suo semplice presupposto» (p. 88). Essa si dà sempre come differenziarsi e nei differenti. L’arte mostra come il dato, ciò che ci sta di fronte, non sia mai semplice ‘oggetto’: le cose non sono mai quel che dicono di essere (Magritte). Questo il momento risolutore del gentilianesimo: il pensiero come puro ‘fare’, tematizza il ‘non essere’ in modalità non riducibile alla forma della mera alterità.

Per questo Gentile esplicita il senso riposto della massima socratica del ‘sapere di non sapere’. Tale massima non va esperita pensando il ‘sapere’ e il ‘non sapere’ come contrari. All’intelletto (e a Platone) il non, ricorda Donà, sembrò suggerire la dimensione della privazione. In realtà, quel non, non è indicativo di una diminutio, al contrario, indica una verità divina, testimoniata dal dio di Delfi. Conoscere noi stessi implica aver contezza che non conosceremo mai una determinatezza, un positivo, un dato, ma, nella migliore delle ipotesi, un perpetuo farsi, un in fieri, scandito da ritmi. Donà suggerisce che, in fondo, Gentile avrebbe potuto rintracciare nel trinitarismo cristiano un identità capace di farsi vera, nel solo consegnarsi alla molteplicità, in un percorso aperto sull’abisso dei possibili, sul quale, nell’ora nona, il Padre avrebbe sempre potuto abbandonare il Figlio. Un cristianesimo negativo, quindi, che recuperò al mondo, dopo il trionfo del monoteismo ebraico, i misteri delle religioni cosmico-dionisiache. Ecco, come rileva Donà, Gentile titubò, fece dei passi indietro, sul terreno speculativo conquistato nella sua revisione dell’hegelismo.

Il filosofo di Castelvetrano ricadde nella tematizzazione del presupposto. Oggi è quanto mai necessario liberare il pensiero da qualsiasi idea di fondamento. Allo scopo è indispensabile porsi all’ascolto delle voci transattualiste e dissonanti di Julius Evola e Andrea Emo, la cui eco è originalmente viva nella filosofia di Massimo Donà. Il suo libro rende l’«onore delle armi» filosofiche a Gentile, più di quanto, fino ad oggi, abbiano fatto gli scritti dei ‘gentiliani’.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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