Simbologie nordico-solari nel denario anonimo con Diana in una biga trainata da cervi

Dalla fine del III secolo a.C. le monete romane iniziarono a riportare i nomi dei magistrati monetali che avevano curato le emissioni e dalla metà del II secolo a.C. comparvero raffigurazioni legate alla storia familiare di questi celebrando così la
gloria dello stato attraverso quella dei propri antenati.

In questo breve commento ci riproponiamo di analizzare i significati simbolici presenti in un denario eccezionalmente per l’epoca “anonimo”, cioè privo del nome del magistrato monetale, battuto attorno a Roma attorno al 150 a.C. o subito dopo (Babelon, vol. I, n. 101, p. 67; Grueber, vol. I, nn. 895-898, p. 123). (figg. 1, 2)

 

Figura 1.
Figura 2.

Noi riteniamo che si volle, in questo modo, evidenziare come l’immagine effigiata nella moneta si riferisse non a un episodio storico particolare o familiare ma bensì allo stato nel suo insieme e alla sua missione, alla natura del suo imperium e allo spirito che lo animava.

Al dritto della moneta si raffigura il consueto ritratto della dea Roma calzante la galea alata dove l’ala rappresenta i pensieri elevati, ed essendo questa collocata sull’elmo, che è intimamente legato alla testa, simboleggia, come anche il cimiero, il pensiero dominante del guerriero che lo indossa [1].

Al rovescio si raffigura la dea Diana, con una faretra sulle spalle e una lunga torcia nella mano destra, nell’atto di reggere le redini della biga trainata da cervi galoppanti verso destra. Sotto le loro zampe anteriori trova posto un crescente lunare e nell’esergo la legenda ROMA.

La posizione dei cervi al galoppo, dove le parti anteriori di entrambi risultano perfettamente visibili, con l’animale più lontano che sporge di parecchio rispetto a quello più vicino all’osservatore, rende l’idea di un carro che, con una svolta in atto, possa dirigersi verso chi guarda per passargli accanto, alla destra, coinvolgendolo e sottolineando enfaticamente che si tratta inequivocabilmente di cervi e non di cavalli.

Il significato simbolico del cervo, per la similitudine delle sue corna con i rami degli alberi, lo lega a quello dell’Albero della Vita e dell’Albero del Mondo, e quindi lo assimila all’Asse del Mondo che diviene il Centro del Mondo e un tramite con le realtà superiori, celesti e spirituali [2].

Il cervo è anche il simbolo del rinnovamento e della crescita dei cicli, e di conseguenza della rinascita, a causa della ricrescita delle sue corna. I Greci e i Romani ritenevano che rappresentasse l’elevazione e gli attribuivano qualità mistiche. Il cervo bianco divenne successivamente anche l’emblema di Cristo [3], così nel favoloso immaginario celtico tramandato nei racconti della ricerca del sacro Graal un cervo bianco che fa da guida ai tre cavalieri Galaad, Perceval e Bohor poi si trasforma proprio in Gesù Cristo [4].

Il nome del “cervo” viene fatto derivare dall’aggettivo indoeuropeo indicante “il rosso, il biondo” e a questo colore è rimasto indissolubilmente legato. Allo stesso modo dal nome del cervo deriva, attraverso le Gallie, la parola latina
cervesia e cervisia (poi in italiano antico cervogia, in francese antico cervoise, in castigliano cerveza) per indicare la birra che, designata dal colore biondo, doveva evocare ai Galli il colore rosso-biondo del cervo [5].

Sia il biondo sia il rosso, il bagliore di un rossore simile a fiamma, erano i colori propri anche del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 170-178) recuperato nella Colchide da Giasone – l’eroe che conosce le rotte per l’Iperborea
nelle Argonautiche Orfiche – strappandolo all’orribile serpente, mostro ctonio, che lo custodiva.

L’oro per la sua luminosità abbagliante è sempre stato considerato il metallo del Sole, era ritenuto il frutto della coagulazione della luce solare, e questo metallo per gli antichi popoli indoeuropei avrebbe rappresentato l’oggetto dei desideri per antonomasia, fino all’ossessione, tanto nella preistoria quanto in epoca classica [6].

Il cervo è un animale collegato al cielo luminoso e alla luce; esso assieme all’aquila e al leone ha come nemico il serpente legato al buio e alla vita ctonia, come il mostro-serpente Pitone ucciso dall’iperboreo Apollo che poi fondò il santuario di Delfi, il centro del mondo antico.

Presso le popolazioni arcaiche dell’Europa settentrionale il cervo era posto in relazione con il ciclo del Sole, in particolare con la sua progressiva scomparsa e successiva rinascita e resurrezione con il solstizio d’inverno. I rami delle corna erano in qualche modo avvicinati ai raggi solari simboleggiando così il Sole trionfante [7].

La natura luminosa e iperborea di Artemide, l’equivalente greca della Diana romana posta alla guida del cocchio nella moneta, risulta evidente dal fatto che, indossando la cinta e le armi dorate, aggiogò il carro d’oro alle cerve che sul monte Emo in Tracia, il luogo da cui spira il vento di Borea, il vento del Nord, iniziò a condurre la dea (Callimaco, Inno ad Artemide, 113-114).

Il cervo ha profonde relazioni mitiche con la sede iperborea; è l’animale iperboreo per eccellenza [8], che si trova talora associato ai simboli solari del cerchio crociato, dello swastika, e delle asce rituali [9].

La cerva di Cerinea dalle auree corna, sacra ad Artemide, venne inseguita dall’eroe solare Eracle per un anno intero, fino alla terra degli Iperborei nell’estremo Settentrione [10] come testimonia Pindaro (Olimpica III, 28-32), poeta di antica e nobile famiglia dorica di origine spartana, discendente quindi di quei popoli originari della regione scandinava che, giunte nel Mediterraneo, fondarono le città gemelle di Roma e di Sparta (F. Altheim).

La dea Artemide compare nella terra degli Iperborei nella forma di cerva con corna dorate anche se non è noto con precisione quale fosse il suo ruolo in quelle regioni [11].

Nei rovesci dei denari coniati nel 89 a.C. circa dal magistrato Caius Allius Bala (Grueber, vol. I, n. 1753, p. 239) si raffigura Diana in una biga di cervi, molto simile a quella ritratta nella moneta in esame, e sotto a questi, tra i vari simboli, trova posto anche il grifone, e i grifoni guardiani dell’oro, secondo Erodoto (Storie, IV, 13), vivevano nelle terre degli Iperborei.

Artemide è stata considerata una delle figure divine che rimasero più fedeli alle loro origini nordiche [12]. Il mito lo attesta nell’episodio che vede Medea – figlia di Helios e sacerdotessa dell’Artemide iperborea – che, giunta alle porte di Iolco, per poter entrare gridò alle sentinelle di lasciar passare il simulacro della dea Artemide giunta dalla nebbiosa terra degli Iperborei al fine di portare buona fortuna alla città (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 51, 1-2) [13].

In Grecia il cervo era l’animale sacro ad Artemide ma anche ad Apollo, suo fratello, il dio al quale erano devote le genti iperboree (Pindaro, Olimpica III, 16-17), come dimostrano le monete coniate a Caulonia (fig. 3), antichissima colonia achea in Calabria, che abbinano Apollo appunto a questo animale fin dalle prime emissioni datate al 530 a.C. (B.M.C. Italy, pp. 334 ss., nn. 1 ss.), e come si può vedere in alcune statue greche arcaiche nelle quali il dio regge un cerbiatto nella mano destra [14].

Figura 3.

Il Carme Secolare, composto da Orazio su incarico di Augusto e cantato nei ludi saeculares del 17 a.C., indica Roma stessa come opera (36) (Roma si vestrum est opus) di Apollo e di Diana signora delle selve, i luminari del cielo, venerandi e sempre venerati (1-3) (Phoebe silvarumque potens Diana, lucidum caeli decus, o colendi semper et culti). I fratelli Apollo ed Artemide erano due divinità arciere, identificate dalla freccia, entrambe legate alla terra iperborea [15] e proprio con una freccia d’oro, o su di essa, Abaris, mistico e sacerdote di Apollo, nel VII-VI secolo a.C. aveva attraversato il mondo per giungere nel paese degli Iperborei [16].

Va anche rammentato che i Dioscuri, i due fratelli divini dal nome che li lega allo splendore del giorno e del cielo luminoso, appaiono nel Nord come due cervi, i due alci che tirano il carro del Sole [17] (e, a dire il vero, le corna poco ramificate e dalle estremità arrotondate potrebbero avvicinare gli animali ritratti nella moneta più ad alci che a cervi) in maniera non troppo dissimile a quanto si può vedere nel famosissimo grande disco solare di Trundholm trainato da un cavallo, risalente all’età del bronzo e conservato nel Nationalmuseet di Copenaghen (fig. 4).

Figura 4.

Similmente a quello dei Dioscuri anche il nome della italica Diana, dea delle selve, viene fatto derivare dall’aggettivo dius (arcaico divios) che la definisce come “dea della luce” ma non certo della pallida luce lunare, infatti sarà avvicinata alla Luna solo molto tardi, quanto piuttosto dell’improvviso chiarore solare che appare tra le fronde degli alberi nella radura del bosco [18]. L’antichissima Diana Nemorense, dea “sovrana” aveva un enigmatico legame con la funzione regale italica. Nel bosco di Nemi svolgeva il suo magistero il rex Nemorensis, il re-sacerdote della dea, e chi voleva succedergli nella funzione doveva sfidarlo in un duello mortale [19].

Diana alla guida del carro nella moneta regge una fiaccola così come Artemide porta una fiaccola di legno tagliato sul monte Olimpo e nella quale la dea gettò dentro il bagliore della luce immortale stillata dalla folgore di Zeus (Callimaco, Inno ad Artemide, 116-118). La fiaccola della dea viene quindi equiparata alla folgore che è l’arma simbolica di Zeus, il dio del cielo splendente, la divinità per eccellenza delle stirpi arie in opposizione a quelle della fertilità e della terra, del mondo sotterraneo infero e demonico proprie delle civiltà del ciclo mediterraneo tellurico e preario. La folgore è la forza folgorante che frange e spezza con la quale Zeus abbattè i Titani e i Giganti figli della Terra che tentavano di impadronirsi delle sedi olimpiche riflettendo in questo mito la “guerra metafisica perenne” che ricorda lo scontro fra varie razze nell’Ellade più antica e che è una caratteristica della spiritualità eroica aria infatti in ogni lotta o conquista l’antico Ario vedeva il riflesso di una lotta metafisica, dell’eterno conflitto fra le potenze olimpiche e celesti della luce e le potenze oscure e selvagge della materia e del caos [20].

A destra nel campo della moneta, sotto alle zampe anteriori dei cervi, trova posto il crescente lunare distintivo di Diana, la dea Luna. Ad osservare con attenzione però al crescente lunare posto a destra nel campo monetale corrisponde, a sinistra, la ruota del carro con inscritta la croce dei raggi, posti sempre con lo stesso orientamento, vale a dire con i raggi che si incrociano essendo l’uno perfettamente orizzontale e l’altro perfettamente verticale (fig. 5). Il cerchio crociato è uno dei più antichi simboli nordico-ari del culto solare che rimanda a quello dell’Apollo iperboreo.

Figura 5.

Il simbolo della ruota solare (croce inscritta in un cerchio) è la più significativa rappresentazione simbolica del Sole che – assieme a quello dell’orante, dell’ascia, della renna o del cervo, del carro solare – si diffuse dall’Europa settentrionale al
Mediterraneo assieme alla cosiddetta migrazione “dorica” [21]. Il sempre ottimo Alessandro Daudeferd Bonfanti in un recente studio ha seguito mirabilmente la propagazione dei simboli solari, come il cerchio puntato e la ruota solare, al seguito della migrazione degli Indoeuropei, avvenuta nell’antica e media età del Bronzo, dall’Urheimat, dalla Patria nordica originaria, dalla Scandinavia, passando lungo le vie dell’ambra attraverso le Alpi (Val Camonica), per giungere fino alla Sicilia [22].

Il nome della città di Roma, scritto nell’esergo, viene quindi a trovarsi fatalmente tra il Sole e la Luna. Per il neoplatonico Porfirio (III secolo d.C.), odiatissimo dai Cristiani, se il bel volto di Zeus rappresentava il cielo luminoso, allora il Sole e la Luna erano i suoi occhi. Zeus pertanto era l’universo mondo, vivente fatto di viventi, dio fatto di dei, l’intelletto divino creatore di tutte le cose (Sui Simulacri, fr. 3) [23].

Il Sole e la Luna, per la Tradizione in senso eminente, rappresentano simbolicamente il doppio potere sacerdotale e regale che nel mondo tradizionale erano riunti in una sola persona, così come l’imperatore romano, fino al trionfo del cristianesimo, era al contempo Imperator, Augustus e Pontifex Maximus [24].

Il Sole e la Luna – corrispondenti astrologicamente e alchemicamente all’oro e all’argento – simboleggiano rispettivamente il potere sacerdotale e l’autorità temporale i quali erano emblematicamente raffigurati dalla chiave d’oro e da quella d’argento che erano gli attributi dall’antichissimo dio romano Giano e che poi passarono a san Pietro nella tradizione cristiana come la chiave del Paradiso celeste e quella del Paradiso terrestre. La chiave d’oro era quella dei «grandi misteri» e quella d’argento quella dei «piccoli misteri»; questi ultimi nella scienza sacra o tradizionale, rappresentano la conoscenza di ciò che è terreno e naturale, mentre i primi simboleggiano ciò che è al di là della natura, vale a dire la sapienza che innalza agli stadi superiori, la via che porta alla perfezione del Paradiso celeste da quello terrestre [25].

Nella perfetta armonia del mondo delle origini, nella pura spiritualità primordiale, le funzioni dei due poteri, l’uno spirituale e l’altro temporale, rappresentavano unicamente due aspetti invisibili ma indissolubilmente legati nell’unità di una sintesi che è allo stesso tempo anteriore e superiore alla loro distinzione [26].

Nel cocchio raffigurato nel rovescio del denario, posto tra il Sole e la Luna, con un auriga dalle ascendenze iperboree nell’atto di reggere una fiaccola sfolgorante della luce di Zeus, vogliamo vedere ritratto simbolicamente il superamento della rottura e il provvidenziale ritorno all’unità primordiale, propria della stirpe ario-iperborea al contempo regale e sacerdotale, che viene ripristinata e resa visibile dalla missione solare di Roma e dalla sua funzione tradizionale, venendo in tal modo a instaurare nuovamente l’armonia e l’unità primigenia.

La guida del carro, l’auriga, è il Figlio del Cielo, è l’Uno, è la manifestazione dell’intelletto divino inesplicabile e inaccessibile che sta al di sopra dell’intelletto umano; è il Centro, il Cuore, la Testa. Egli è il re che regge le briglie della vita terrena e guida il carro che è il corpo materiale, la terra, lo Stato. I segni cosmici, solari e lunari che gli stanno al di sopra e al di sotto rappresentano la dimensione cosmica della sua corsa, della sua manifestazione, facendo dell’auriga ritto nel carro e del suo potere il cardine polare del cosmo, l’Asse del Mondo, rendendo così visibile in simboli la grande tesi analogica di Ermete Trismegisto, il mitico padre dell’alchimia (“ciò che è in alto è come ciò che sta in basso”) [27].

Il Sole e la Luna, il Re e la Regina, il principio maschile (lo zolfo) e quello femminile (il mercurio), rappresentano i due elementi base dell’Arte alchemica che è un procedimento di mutazione e di “raffinazione” della materia. Basilio Valentino, frate e alchimista vissuto a cavallo tra il XIV e XV secolo, risalendo all’antica tradizione egizia tramandata da Ermete Trismegisto, nella Sesta Figura del libro intitolato Le Dodici chiavi della filosofia, una guida per immagini alla realizzazione della Grande Opera, rappresenta un Re e una Regina accompagnati rispettivamente dal Sole e dalla Luna, uniti in matrimonio da un sacerdote, rappresentando in questo modo l’unità della Natura e il concorso dei diversi elementi al processo alchemico. Si raffigura così simbolicamente l’unione regale dello zolfo e del mercurio, l’alleanza del cielo e della terra [28].

Il sacerdote collocato in posizione enfatica, centrale e posto frontalmente, che unisce e sposa i due monarchi simboleggia il principio energetico o spirituale superiore che nella nostra moneta viene scopertamente rappresentato da ROMA, dal nome posto nell’esergo, tra la ruota solare del carro e il crescente lunare. Questa interpretazione fa del denario repubblicano in esame quasi un precorritore simbolico dei cosiddetti antoniniani, introdotti da Caracalla nel 215 d.C., nei quali gli imperatori calzeranno sempre la corona solare radiata mentre le imperatrici saranno distinte dal grande crescente lunare posto sotto al loro busto, indicando così nella coppia imperiale l’eterno punto di riferimento dell’universo, il giorno e la notte dell’impero, e l’incarnazione dell’elemento maschile e femminile del mondo.

Sempre Basilio Valentino nell’opera intitolata Azoth presenta con un linguaggio oscuro, il Simbolo Nuovo della scienza alchemica [29]. (fig. 6)

Figura 6.

Il fondamento di tutte le cose, Dea eccellente per bellezza e per alto lignaggio, che nella moneta potremmo identificare con la dea Diana, opera nella Materia Prima che da Drago velenoso (il mercurio), dopo ripetuti lavaggi e trasformazioni, diviene Re splendente (il mercurio regale, purificato) che tiene in mano il Sole (l’oro) e la Luna (l’argento), suo padre e sua madre, il Re e la Regina della Grande Opera, il principio maschile e quello femminile che in esso operano; questi nel conio sono rappresentati dalla ruota solare e dal crescente lunare. Il Re poggia sull’Albero della Sapienza, e ne è il frutto, il quale si trova in mezzo al Paradiso terrestre che nella nostra immagine monetale, come abbiamo detto, viene simboleggiato dalle corna ramificate dei cervi che trainano il cocchio divino.

I simboli in generale, e quindi anche quelli raffigurati nella moneta, possono venir interpretati secondo molteplici piani di lettura derivanti dalla tradizione antica, la Tradizione.

Citando Titus Burckhardt, secondo la visione tradizionale, dunque, il simbolo costituisce, nella sua accezione più generale, una collazione di forme visibili il cui scopo è quello di mostrare cose invisibili (Ugo di San Vittore); è un ponte gettato fra ciò che risulta percepibile attraverso i sensi e ciò che invece trascende il piano puramente fenomenico, al livello del quale esso si manifesta; non solo: ma, poiché l’indefinita molteplicità manifestata, di cui il piano umano rappresenta solo un grado, non costituisce altra cosa se non il riflesso indefinitamente moltiplicato dell’Unità principale, ogni simbolo riveste una pluralità di significati gerarchicamente sovrapposti che conducono dalla sua forma sensibile all’Unità [30].

Note

[1] J. E. CIRLOT, Dizionario dei simboli, Milano 1986, alle voci cimiero, p. 151; elmo, p. 208.
[2] Ivi, alla voce cervo, pp, 145-146.
[3] L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, Roma 1994, vol. I, pp. 357 ss.; M. POLIA, Il mistero imperiale del Graal, Rimini 2007, pp. 118-119.
[4] I romanzi della Tavola Rotonda, a c. di J. Boulenger, Milano 1981, vol. III, p. 45.
[5] F. VILLAR, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia, Bologna 2011, pp. 59-60.
[6] M. GIMBUTAS, Kurgan. Le origini della cultura europea, Milano 2010, p. 163.
[7] POLIA, Il mistero imperiale del Graal, cit., pp. 116 ss.
[8] Ivi, p. 118.
[9] A ROMUALDI, Gli Indoeuropei: origini e migrazioni, a c. di F. Sandrelli, Padova 2004, p. 59.
[10] R. GRAVES, I miti greci, Milano 1985, mito 125, b, p. 434.
[11] T.P. BRIDGMAN, Hyperboreans. Myth and History in Celtic-Hellenic Contacts, New York-Londra 2010, p. 118.
[12] H.F.K. GÜNTHER, Storia razziale dei popoli ellenico e romano, Genova 2018, p. 38.
[13] GRAVES, I miti greci, cit., mito 155, d, p. 567.
[14] CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, cit., p. 364; POLIA, Il mistero imperiale del Graal, cit., p. 116.
[15] BRIDGMAN, Hyperboreans. Myth and History in Celtic-Hellenic Contacts, cit., pp. 118, 136.
[16] E. ALBRILE, Iperborea. Il mito polare tra simbologia, estasi e immaginazione, Rimini 2018, pp. 7 ss., 71 ss.; G. COLLI, La sapienza greca, vol. I, Dioniso – Apollo – Eleusi – Orfeo – Museo – Iperborei – Enigma, Milano 2021, pp. 329-331.
[17] ROMUALDI, Gli Indoeuropei: origini e migrazioni, cit., pp. 49, 59 nota 1.
[18] R. DEL PONTE, Dei e Miti Italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, Genova 1998, pp. 176 ss.
[19] Ivi, pp. 182 ss.
[20] J. EVOLA, Simboli della tradizione occidentale, Torino 1988, pp. 52, 53, 56.
[21] J. EVOLA, La tradizione di Roma, Padova 1977, pp. 28-29.
[22] A. DAUDEFERD BONFANTI, L’unità culturale e spirituale indoeuropea nell’antica e media età del Bronzo. Simboli solari ricorrenti nelle arti rupestri dalla Scandinavia alla Sicilia, in «Arthos», Il Paganesimo, 33, LXVII, 2024, pp. 276-301.
[23] PORFIRIO, Sui simulacri, comm. M. Gabriele, trad. F. Maltomini, Milano 2022, frammento 3, vv. 22, 39-41, pp. 70-73.
[24] V. LOVINESCU (GETICUS), La Colonna Traiana, Parma 1995, pp. 67, 76, 82-83.
[25] R. GUÉNON, Autorità spirituale e potere temporale, Milano 2014, pp. 42 ss., 77-78, 117-118.
[26] Ivi, pp. 19-20.
[27] B. HAMVAS, Scientia Sacra, Parma 2001, vol. II, pp. 217 ss.
[28] B. VALENTINO, Le dodici chiavi de la filosofia, trad. e comm. E. Canseliet, Roma
1998, pp. 105-106; R. TRESOLDI, Alchimia, Storia, procedimenti, segreti alla ricerca della pietra filosofale, Firenze-Milano 2021, pp. 141-142.
[29] TRESOLDI, Alchimia, Storia, procedimenti, segreti alla ricerca della pietra filosofale, cit., pp. 214-216.
[30] T. BURCKHARDT, Simboli, Parma 1983, p.6, dalla nota introduttiva di G. Servusdei.

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  1. Daudeferd
    | Rispondi

    Ed io ringrazio sempre te, carissimo Alessandro, che di ottimo rifulgi anche tu. Ai lettori del nostro Centro Studi, il nostro Alessandro Ruggia è l’unico -dico l’unico- che sappia dare VERE lezioni di Numismatica antica. Nelle accademie di oggi le cose che vi rivela il buon Alessandro Ruggia non ve le direbbe nessuno, mai, immessi come sono tutti questi ”professori” nel baratro delle deviazioni ”sinistronze” (perdonate queste combinazioni di parole che ben alludono però a quanto viviamo oggi). La Numismatica va studiata perentoriamente, come ogni disciplina dell’antichistica, come ve la propone il Ruggia, non come ve la raccontano questi imbecilli ”togati” che addirittura impudentemente si metterebbero a ridere dinanzi alla vera Scienza, ossia al vero vedere e conoscere, anziché strisciare nella sozza melma del loro vomitevole scientismo liberale. Grazie di cuore, Alessandro.
    Sempre con te,
    Daudeferd

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