Sánchez Dragò lettore di Evola?

Scomparso oramai da due anni – lo aveva ricordato con un bel ritratto Antonio Terrenzio sulla pagina web del GRECE Italia (https://www.grece-it.com/2023/04/17/alla-memoria-di-fernando-sanchez-drago-linattuale/ ) – Fernando Sánchez Dragò è stato uno degli scrittori spagnoli più originali, coraggiosi ed anticonformisti degli ultimi 50 anni. Purtroppo è quasi inedito in italiano; esiste infatti una sola traduzione: Il cammino del cuore. Basta però anche solo dare un’occhiata ai titoli dei suoi libri per rendersi conto di quello che ci perdiamo: Gárgoris y Habidis. Una historia mágica de EspañaLa gnosis o en conocimiento de lo ocultoLa prueba del laberintoCalendario espiritualEl sendero de la mano izquierda: un código de conducta; solo per citarne alcuni. Come si può facilmente intuire era un autore estremamente interessante: iconoclasta, polemico, politicamente scorretto, anti-moderno ed anti-cristiano, attratto dall’esoterismo. Non sorprende quindi che potesse conoscere e citare – positivamente – un “maledetto” quale Julius Evola. Come ha fatto in questo articolo pubblicato sul quotidiano “El Mundo” (uno dei principali giornali spagnoli, di orientamento tendenzialmente liberal-conservatore e moderato) del 2014. Un pezzo che presenta molti spunti di riflessione e che offriamo qui in nostra traduzione (per chi fosse invece interessato a leggerlo in originale, ecco il link: https://www.elmundo.es/blogs/elmundo/dragolandia/2014/08/08/el-escritor-que-mato-a-hitler.html).

El escritor que mató a Hitler

Riflessioni suscitate dal romanzo di Javier Ruiz-Portella, di taglio ed ispirazione orwelliani, così intitolato e pubblicato da Áltera…

L’autore traccia un parallelismo – o piuttosto una dicotomia, una specie di dilemma, fra il “totalitarismo molle” del mondo attuale e il “totalitarismo duro” della Germania nazi e, per estensione, del gulag stalinista, maoista o khmer.

Nel primo, c’è solo il vuoto: quello dell’Uomo del Mondo Nuovo al modo di Huxley, quello della bruttezza elevata a categoria artistica, quello della soppressione del criterio di eccellenza e della corruzione del linguaggio, quella della demagogia e della ribellione della massa, quello della “ideologia plebea” descritta e sferzata da Julius Evola, quello dell’appiattimento dell’egualitarismo, quello del livellamento castratore (femminilizzazione dell’uomo e mascolinizzazione della donna) di contro alla differenziazione ontologica dei due sessi, quello della trasformazione della libertà di pensiero nell’inutilità dello stesso, quello dello scientismo materialista e riduzionista, quello della sostituzione del reale col virtuale, quello dei tweeter che si credono Shakespeare e si comportano come Savonarola, quello della globalizzazione che si prostra davanti agli altari del santo consumo, quello del mercantilismo a oltranza, quello del politicamente corretto… Insomma, il nostro oggi.

Nel secondo totalitarismo – quello dei nazisti e dello stalinismo – abita (o abitava) l’orrore. L’orrore duro e puro, senza maschere o trucchi. Non è necessario descriverlo. Ce lo hanno già descritto molte volte. Anna Frank, Primo Levi, Hilberg, Ayn Rand, Rashke, Solženicyn, Simon Wiesenthal, Victor Frankl, Martin Amis e Imre Kertész, fra gli altri, hanno esaurito l’argomento. O quasi, perché recentemente, Emmanuel Carrère, in un romanzo straordinario −Limónov−, lo ha riproposto e rivitalizzato.

Quale dei due è preferibile? Il totalitarismo duro della prima metà del XX secolo o quello morbido dei nostri tempi? Nessuno, ovviamente, dato che entrambi conducono all’entropia della condizione umana. Però la domanda dovrebbe essere un’altra: quale dei due è più sopportabile?

E la risposta sarebbe: dipende.

Il libro di Ruiz-Portella, come quello di Hannah Arendt, analizza il Male, prendendo però in considerazione non soltanto la sua banalità, come fa la filosofa, ma anche la sua possibile grandiosità.

Che nessuno si scandalizzi. Pensiamo a Baudelaire, a Lautremont, a Rimbaud, a Nietzsche, a Wagner, a Knut Hamsun, a Céline, al Necronomicón di Lovecraft…

È possibile parlare di grandezza del male?

Sì, certo, per quanto scandalosa questa affermazione possa risultare. Non fu in realtà grandiosa la ribellione di Lucifero?

Portella evita questa domanda capziosa, che ammette solo una risposta ed è, per questo, una trappola, difendendo la necessità che al mondo venga restituito il suo antico respiro sacro e che si rigeneri la storia contro ogni manipolazione, mutilazione e falsificazione per spezzare la spina dorsale della volgarità simultaneamente borghese e proletaria − in fondo si equivalgono − che dal 1789 schiaccia ogni cosa.

Questo, aggiunge, è ciò che i nazisti, in un certo senso, però in maniera ingannevole, proponevano. E proprio questa è stata, secondo lui, la disgrazia, perché il loro progetto fu solo un artificio retorico, vuota finzione, un’astuta strategia in virtù della quale rivendicavano le opere di Wagner, l’impulso del paganesimo di Nietzsche, contro l’infezione del cristianesimo, la loro teoria della volontà di potere e la loro apologia dello slancio vitale come vaccino contro l’oscillazione delle ideologie, il ritorno degli dei germanici con Wotan in testa, della svastica, delle valchirie, di Sigfrido, dei nibelunghi e del Valhalla non per restituirgli la loro condizione archetipica, bensì per convertirli in mascheroni di cartapesta tanto privi di vita quanto i fossili e tanto invertebrati quanto le figure di cera.

Da lì, da quella spuria ed istrionica riabilitazione dei simboli e dal discredito in cui li seppellì l’Olocausto, sarebbe poi derivata quella che un altro filosofo, tedesco ed ebreo come la professoressa e saggista Hannah Arendt, chiamò la reductio ad Hitlerum del successivo e tuttora vigente discorso dei valori dominanti. Mi riferisco, e si riferisce Portella, a Leo Strauss, discepolo di Heidegger, che scappò dai nazisti, proprio come fece l’amante del suo maestro, e cercò rifugio negli Stati Uniti.

Dopo la resa di Berlino, gli Alleati  − senza distinzione fra comunisti e capitalisti − si misero a rovistare fra le rovine dello sconfitto regime e ne tirarono fuori delle conseguenze devastanti per la libertà di pensiero, dato che da allora in poi nessuno potrà più parlare  – senza esporsi all’accusa di fascismo − di cose quali il destino dei popoli, il loro radicamento nella storia, la degenerazione dell’arte, l’inconscio collettivo, la necessità del sacro, gli abusi della democrazia, la pedagogia dei miti, la rivendicazione dell’eccellenza, la barbarie dell’egualitarismo, e la stupidità del relativismo culturale. Tantomeno sarà possibile alludere all’esistenza delle razze, mescolate tutte in un confuso ed incolore melting pot privo degli antichi e nobili pigmenti della pelle − bianca, nera, rossa, gialla − che identificavano gli uomini e conferivano loro personalità, posizione e struttura.

La reductio ad Hitlerum soffoca sul nascere, qualificandolo come fascista e trasformando questo termine in un flatus vocis, qualsiasi tentativo di critica dello status quo, e peggio ancora se l’analisi, trasformata in denuncia, implica anche una proposta di azione. Allarme, allarme, grideranno allora, inarcando il sopracciglio da utile idiota, i benpensanti del progressume! Eccoli, eccoli! Ritornano i fascisti! Fermiamoli!

Come se i regimi di Mussolini e Hitler, tanto diversi fra di loro, potessero amalgamarsi in un denominatore comune, da denunciare per fermare e scongiurare qualsiasi eterodossa deviazione dall’attuale pensiero unico.

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